Pravda statunitense: non c'è mai stato alcun massacro di piazza Tiananmen
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Le schede di ossin, 9 giugno 2024 - Quando gli storici cominciarono a correggere la narrazione, l’episodio era già entrato nel mito: tutti erano convinti che centinaia, forse migliaia, di studenti erano morti in un massacro in piazza Tiananmen (nella foto, il fantomatico Tank Man)
Unz Review, 13 maggio 2024 (trad.ossin)
Pravda statunitense: non c’è mai stato alcun massacro di piazza Tiananmen
Ron Unz
Il conflitto Israele/Gaza è ormai entrato nel suo ottavo mese, mentre il massacro e la fame dei palestinesi continuano senza sosta, con molte decine di migliaia di civili indifesi già morti
Nonostante occasionali lamenti di debole disapprovazione da parte di esponenti dell’amministrazione Biden, il governo statunitense ha continuato a sostenere pienamente quel massacro, fornendo tutto il denaro e le munizioni necessarie per renderlo possibile. Nonostante già a gennaio la Corte internazionale di giustizia abbia pronunciato una serie di provvedimenti (adottati quasi all’unanimità) che dichiarano plausibile il genocidio dei Palestinesi di Gaza ad opera di un Israele assetato di sangue, le leadership statunitensi e occidentali hanno del tutto ignorato quei verdetti. Solo un paio di settimane fa, il nostro governo ha approvato una legge che stanzia ulteriori 26 miliardi di dollari per il sostegno finanziario e militare a quel paese cha manifesta una mentalità genocida. Quando si è sparsa la voce che la Corte Penale Internazionale avrebbe potuto incriminare diversi leader israeliani per crimini di guerra, dodici senatori statunitensi hanno pubblicato una lettera in cui minacciavano direttamente la CPI e la sua leadership se avesse adottato una simile decisione.
Per molti mesi, immagini orribili di bambini palestinesi morti o morenti si sono rincorse su piattaforme di social media relativamente non censurate come TikTok e Twitter di Elon Musk, e in tutti gli Stati Uniti un gran numero di studenti universitari ha reagito a quella carneficina. Le ultime due generazioni sono state ossessivamente indottrinate con la storia dell’Olocausto e della terribile vergogna di coloro che rimasero a guardare e non fecero nulla mentre uomini, donne e bambini innocenti venivano assassinati. Quindi, di fronte alle scene raccapriccianti di un genocidio in diretta sui loro smartphone, un’enorme ondata di manifestazioni di protesta ha travolto i nostri college e università, una campagna di gran lunga più ampia di qualsiasi altra, dopo quelle degli anni ’60 contro la guerra del Vietnam.
Le proteste universitarie, imperniate su una gamma di temi diversi di natura sociale o ideologica, sono state frequenti nel corso degli anni e, talvolta, si sono concentrate su questioni di politica estera. Ma, a differenza di tutti gli altri casi precedenti, le proteste contro Israele hanno immediatamente suscitato una reazione enormemente dura e ostile da parte del nostro establishment politico e mediatico. Quando i presidi di Harvard e Penn sono stati trascinati davanti a una commissione del Congresso e hanno ribadito il loro impegno a mantenere la libertà di parola politica nelle loro università, entrambi i dirigenti della Ivy League sono stati rapidamente costretti a dimettersi, qualcosa che non ha alcun precedente nella storia accademica statunitense.
Poi, il mese scorso, il rettore della Columbia University ha cercato di evitare la stessa sorte dopo aver dovuto affrontare un interrogatorio davanti alla stessa commissione della Camera, e così ha chiesto l’intervento di 100 poliziotti antisommossa di New York, che hanno disperso le manifestazioni pro-Gaza nel campus e hanno arrestato molti studenti. Le immagini di corpulenti poliziotti con l'elmetto che maltrattano studenti pacifici nel loro stesso campus perché protestavano contro un possibile genocidio sono diventate virali sui social media, ispirando un'enorme ondata di simpatia in dozzine di altre università, molte delle quali sono state obiettivo di analoga repressione da parte della polizia locale. La scorsa settimana, circa 2.800 studenti universitari sono stati arrestati in dozzine di scuole per aver esercitato pacificamente la propria libertà di parola. Questa repressione sembra molto più severa di qualsiasi altra cosa dalla fine degli anni ’60 e, per certi aspetti, ha addirittura superato gli eccessi repressivi di mezzo secolo fa.
Come ho sottolineato in un articolo la scorsa settimana, le scene della Emory University sono state particolarmente scioccanti. Lì il governatore repubblicano della Georgia ha ordinato alla polizia di Stato di invadere i terreni di una delle più prestigiose istituzioni accademiche locali e di arrestare i manifestanti. In un incidente particolarmente drammatico, una professoressa di ruolo di economia di 57 anni, Carolyn Frohlin, ha cercato di avvicinarsi ad uno dei suoi studenti che era stato sbattuto a terra. Solo per questo, è stata immediatamente afferrata da un grosso sergente di polizia e da un altro ufficiale, gettata a terra, legata e arrestata. Il conduttore della CNN Jim Acosta ha espresso totale shock per quanto accaduto, e il video è stato visto centinaia di migliaia di volte su YouTube.
Tenete conto che una professoressa universitaria di mezza età, apparentemente molto rispettabile, è stata brutalmente maltrattata e arrestata dalla polizia nel suo stesso campus, semplicemente per aver tentato di soccorrere uno dei suoi studenti che protestavano. Non credo che sia mai successo qualcosa del genere nella storia dei college statunitensi, anche nei momenti più tesi delle proteste degli anni '60. Somigliava di più a quello che ci aspetteremmo di vedere nei campus universitari delle turbolente dittature latinoamericane.
Anche altri ne sono rimasti scandalizzati. Qualcuno ha diffuso una clip più breve dello stesso incidente su Twitter, che è stata visualizzata circa 1,5 milioni di volte.
This isn’t CHINA..???????? This is AMERICA..????????
— Pelham (@Resist_05) April 26, 2024
Emory Professor, Caroline Fohlin is violently arrested by police at her workplace…
This is Fascism, this is in violation of her 1st Amendment pic.twitter.com/Jv4LtQ3t88
Sebbene fossi più attirato dalle immagini che dal testo, mi ha comunque colpito la prima riga del Tweet:
Questa non è la CINA... Questi sono gli USA...
Negli ultimi anni il nostro governo e i suoi media servili sono diventati fortemente ostili nei confronti della Cina. Già nel gennaio 2020, sia l’amministrazione Trump che l’amministrazione Biden hanno sostenuto che il governo cinese ha commesso un “genocidio” contro la minoranza uigura della provincia dello Xinjiang, nonostante non vi sia alcuna prova che un numero significativo di uiguri sia stato mai ferito, figuriamoci ucciso. I nostri principali organi mediatici hanno appoggiato e promosso con entusiasmo questa storia, che sembra semplicemente essere una ridicola bufala propagandistica.
Non v’è quindi dubbio che, se esistesse qualche filmato delle forze di sicurezza cinesi che attaccano un professore cinese in un’università cinese in questo modo, i media globali sarebbero stati inondati da quella storia per giorni o settimane, e che sarebbe stata pubblicata sulla prima pagina del New York Times. In effetti penso che, anche senza video, la sola notizia di un simile incidente avrebbe ottenuto una forte copertura mediatica, e non ho mai visto nulla del genere. Quindi, anche se il paragone del tweet era fatto con le migliori intenzioni, esso è del tutto errato. Non ci sono prove che qualcosa del genere sia accaduto in Cina negli ultimi anni, tanto meno che sia qualcosa di abituale.
Ma che cosa, allora, ha ispirato quelle parole? Ovviamente la causa immediata è stata l’incessante ondata di retorica e propaganda anti-cinese divulgata da quasi tutti i nostri media negli ultimi anni. Ma sospetto fortemente che un fattore cruciale sia stato il massacro di piazza Tiananmen del 1989, che per 35 anni è stato regolarmente rivisitato in ogni anniversario del 4 giugno dai nostri media.
In quella famigerata vicenda, eufemisticamente conosciuta nella stessa Cina come “l’incidente del 4 giugno”, molte centinaia di pacifici manifestanti studenteschi pro-democrazia sarebbero stati massacrati dall’esercito cinese, e addirittura alcuni alti funzionari statunitensi, anche in seguito, hanno affermato che il vero bilancio delle vittime era stato enormemente più alto, forse di molte migliaia o più. Quelle enormi proteste antigovernative a Pechino erano andate avanti per molte settimane, quindi un gran numero di reporter e troupe televisive occidentali erano già sul posto per raccontare la storia. Ciò ha permesso loro di documentare gli eventi nel loro svolgersi e le loro avvincenti immagini fotografiche e riprese video sono state diffuse in tutto il mondo, diventando parte indelebile della nostra memoria storica. Chi può dimenticare la famosa e tragica scena di un civile solitario che blocca coraggiosamente con il proprio corpo l'avanzata di una colonna di carri armati cinesi? La storia di “Tank Man” divenne famosa in tutto il mondo e quell'immagine appare spesso nei nostri libri di testo.
Per più di tre decenni, l’eredità di quell’orribile massacro cinese del 1989 è stata pesante, influenzando notevolmente la percezione occidentale della Cina, anche tra scrittori che erano concentrati su questioni completamente diverse.
Ad esempio, due settimane fa ho pubblicato un articolo sulle origini dell’epidemia di Covid e la mia analisi ha riguardato importanti libri su quell’argomento del senatore Rand Paul, Robert F. Kennedy, Jr. e di una giornalista canadese indipendente di nome Elaine Dewar.
Tutti questi autori credevano fermamente che il virus fosse stato creato nel laboratorio cinese di Wuhan e che fosse poi fuoriuscito, provocando l’epidemia globale che ha ucciso forse trenta milioni di persone in tutto il mondo. Gli autori erano fermamente convinti della natura nefasta del governo cinese e, sebbene la fuga del virus fosse stata accidentale, l'ostinata negazione da parte della Cina di ciò che era accaduto dimostrava ai loro occhi la famigerata disonestà del suo regime.
Sebbene il 1989 risalga a decenni fa, tutti quei libri da me citati menzionavano anche il massacro di piazza Tiananmen di quell'anno, come una prova concreta della crudeltà del governo dittatoriale cinese, che aveva massacrato così tanti dei suoi stessi giovani studenti universitari, semplicemente perché lottavano pacificamente per la democrazia. Gli autori ipotizzavano vari altri complotti cospirativi da parte della dittatura cinese e, sebbene le prove fossero per lo più assai scarse, c'era il presupposto di fondo che un governo disposto a massacrare i propri giovani studenti idealisti fosse capace di quasi tutto.
Ron Unz • The Unz Review • 29 aprile 2024 • 8.500 parole
In precedenza, alla fine del 2021, avevo pubblicato un altro articolo che recensiva e analizzava diversi altri libri sulle origini del Covid. Allo stesso modo, anche questi libri avevano attribuito l’epidemia a un virus bioingegnerizzato dai cinesi, e ancora una volta avevano menzionato il massacro di piazza Tiananmen più o meno allo stesso modo. In effetti, l’editorialista del Washington Post Josh Rogin ha citato quel massacro del 1989 cinque volte nel suo libro, mentre Sharri Markson di SkyNews di Rupert Murdoch ha citato l’ex segretario di Stato di Trump Mike Pompeo che ha ipotizzato che all’epoca fossero stati uccisi fino a 10.000 civili cinesi. La successiva smentita di quel brutale massacro da parte del governo cinese ha semplicemente dimostrato la sua totale disonestà, indicando che non ci si poteva fidare di esso nemmeno su questioni legate al Covid o altro.
Ron Unz • www.ossin.org • 9 gennaio 2022
Invece di essere dimenticata col passare del tempo, la storia del massacro del 1989 appare ancora con regolarità nei nostri media. Una rapida ricerca sul New York Times negli ultimi cinque anni, mi ha prodotto più di 100 riferimenti diversi al “massacro di piazza Tiananmen”, mentre una ricerca simile sul Wall Street Journal ha restituito 95 risultati. Considerata l’enorme influenza di questi giornali d’élite su tante altre pubblicazioni e giornalisti, sono sicuro che una ricerca più ampia, comprendente anche organi di stampa minori, fornirebbe analoghi risultati. Con la storia di Piazza Tiananmen che appare ancora così frequentemente nelle notizie, non sorprende affatto che tutti quei libri e quegli autori l'abbiano menzionata, ritenendo che fornisse importanti spunti sul comportamento del governo cinese e del Partito Comunista che lo controlla.
Proprio come Auschwitz e l’Olocausto hanno permanentemente marchiato la Germania con il marchio di Caino, e lo stupro di Nanchino del 1937 ha analogamente oscurato la reputazione del Giappone, la Cina soffrirà a lungo le conseguenze politiche internazionali del massacro di piazza Tiananmen del 1989, almeno finché il suo Partito Comunista rimarrà al potere.
I libri sopra menzionati trattavano il tema delle origini del Covid e tutti incolpavano i cinesi di avere creato il virus e di averlo accidentalmente rilasciato. Ma fin dai primi giorni dell’epidemia, io ho avuto opinioni del tutto diverse e negli ultimi quattro anni ho pubblicato circa due dozzine di articoli sostenendo la mia tesi contraria. Il primo di essi è apparso nell'aprile 2020, e in esso suggerivo che la storia del massacro di piazza Tiananmen del 1989 fornisse un utile strumento per valutare la credibilità del governo e dei media cinesi rispetto a quella dei nostri:
Prendiamo, ad esempio, il massacro di Piazza Tiananmen, che ogni 6 giugno suscita ancora un'ondata annuale di dure condanne da parte dei nostri principali quotidiani nazionali. Inizialmente non avevo mai dubitato di quei fatti, ma un anno o due fa mi è capitato di imbattermi in un breve articolo del giornalista Jay Matthews intitolato "Il mito di Tiananmen" che ha completamente rovesciato quella realtà apparente.
Secondo Matthews il famigerato massacro probabilmente non è mai accaduto, ma fu semplicemente un artefatto mediatico prodotto da giornalisti occidentali confusi e da una propaganda disonesta, una convinzione errata che è rapidamente entrata a far parte della nostra storia mediatica condivisa, ripetuta all'infinito da così tanti giornalisti ignoranti che tutti hanno finito col credere che fosse vera. Invece, molto probabilmente, gli studenti che protestavano avevano lasciato pacificamente Piazza Tiananmen, proprio come il governo cinese ha sempre sostenuto. Anzi, importanti quotidiani come il New York Times e il Washington Post occasionalmente hanno riconosciuto questi fatti nel corso degli anni, ma in modo così poco evidente, che pochi se ne sono mai accorti. Nel frattempo, la maggior parte dei media mainstream ha accettato acriticamente un’evidente bufala.
Lo stesso Matthews era all’epoca il capo della redazione di Pechino del Washington Post, coprendo personalmente le proteste dell'epoca, e il suo articolo apparve sulla Columbia Journalism Review, la nostra rivista più prestigiosa di critica mediatica. Questa autorevole analisi contenente conclusioni così esplosive è stata pubblicata per la prima volta nel 1998, e trovo difficile credere che i tanti giornalisti e redattori che si occupano di Cina siano rimasti ignari della verità. Ciononostante, l'impatto dell’articolo è stato assolutamente nullo. Per oltre vent'anni, praticamente tutti i principali resoconti dei media che ho letto hanno continuato a promuovere la bufala del massacro di Piazza Tiananmen, di solito implicitamente ma a volte anche esplicitamente.
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Anche se ho dedicato solo tre paragrafi a sfatare quel massacro inesistente del 1989, li consideravo tanto convincenti che non ho mai pensato di impegnarmi in ulteriori approfondimenti, limitandomi occasionalmente a citare quel passaggio nei miei articoli o commenti successivi. Ma forse era un passaggio troppo breve perché potesse catturare l’attenzione del lettore. Ad esempio, diverse settimane fa un commentatore che non era a conoscenza di ciò che avevo detto mi ha esortato a scrivere un articolo sulla vera storia. All'epoca dubitavo che ne valesse la pena, ma ora che ho riconosciuto che la falsa leggenda di Tienanmen è ancora così diffusa e viene regolarmente utilizzata per attaccare la credibilità del governo cinese, anche per quanto riguarda le origini di Covid, ho deciso di farlo.
Un punto importante è che il giornalista del Washington Post Jay Matthews non è stato l’unico ad affermare che tutti gli studenti avevano lasciato pacificamente piazza Tiananmen, proprio come sosteneva all’epoca il governo cinese. Anche Nicholas Kristof, capo dell'ufficio di Pechino del New York Times, si è occupato di quegli eventi storici, e in un articolo del Times pubblicato circa una settimana dopo, scrisse più o meno la stessa cosa, citando vari testimoni oculari credibili. Ha anche fortemente sfatato altri resoconti anonimi di un massacro, apparsi in precedenza sul suo stesso giornale. Alcuni mesi dopo Kristof ha pubblicato un lungo articolo di 5.400 parole sul Sunday Magazine del New York Times fornendo una cronologia molto dettagliata nonché un’analisi delle circostanze politiche che accompagnarono la repressione, e verso la fine dell’articolo ha categoricamente affermato “Non [c’è stato] alcun massacro in piazza Tiananmen”.
Gli osservatori competenti hanno sicuramente preso presto atto della realtà dei fatti. Steven Mosher è un ricercatore conservatore cinese che ha pubblicato una serie di libri intensamente critici nei confronti del governo comunista del paese. Uno dei primi è stato China Misperceived, apparso nel 1990, e nella primissima pagina del testo spiegava che l'epilogo delle proteste di Tiananmen era avvenuto proprio mentre stava scrivendo i suoi capitoli finali. Poi, verso la fine del suo libro, ha detto qualcosa sulle storie raccapriccianti ampiamente riportate dai media occidentali, e che alla fine sono diventate parte integrante della narrativa permanente:
Il miglior esempio di questa improvvisa ansia di pensare male del governo cinese è stata l’ampia diffusione di una notizia infondata di un massacro di studenti avvenuto proprio in piazza Tiananmen. Si è detto che, nelle fasi finali dell'assalto alla piazza, l'esercito avesse circondato migliaia di studenti accampati vicino al Monumento degli Eroi Rivoluzionari e li avesse abbattuti a colpi di mitragliatrice. I carri armati sarebbero poi passati avanti e indietro sui loro copri, per assicurarsi che non ci fossero sopravvissuti. I cadaveri erano stati poi ammucchiati in tumuli e bruciati protetti dall’oscurità per distruggere le prove del massacro. Storie di questo tipo sono apparse in diversi importanti giornali statunitensi, incluso il Washington Post. I corrispondenti hanno continuato a parlarne anche quando è stato pubblicamente smentito da testimoni oculari occidentali come Robin Munro di Asia Watch. Era una dimostrazione troppo perfetta di ciò di cui si credeva che Pechino fosse capace per essere abbandonata alla leggera. |
In una nota a piè di pagina, ha approfondito quelli che sembravano essere stati i fatti reali:
Robin Munro era uno degli occidentali dell'ultimo gruppo di diverse migliaia di studenti che occupavano la piazza. Riferisce che hanno evacuato la piazza poco prima dell'alba del 5 giugno senza perdite di vite umane. L'8 si è unito alla troupe televisiva della BBC come interprete e si è stupito nel sentire il corrispondente della BBC parlare del massacro di questi studenti nel corso di una trasmissione come se fosse un fatto accertato. Robin Munro, comunicazione personale con l'autore, 18 febbraio 1990. |
Nel 1993 lo stesso Munro, a quattro mani col giornalista veterano di politica estera George Black, ha pubblicato Black Hands of Beijing (Mani nere di Pechino), un resoconto molto dettagliato di 400 pagine di quelle proteste del 1989 che parteggiava fortemente per gli studenti e criticava aspramente il governo cinese e la sua repressione. Il libro ha avuto larga diffusione, ottenendo positive recensioni. In esso si afferma con grande fermezza che nessun massacro del genere era mai avvenuto, aprendo il capitolo 15 con la seguente spiegazione, che vale la pena citare ampiamente:
L’espressione “massacro di piazza Tiananmen” è ormai saldamente inserita nel vocabolario politico della fine del XX secolo. Eppure è impreciso. Non c’è stato nessun massacro in piazza Tiananmen la notte del 3 giugno…
Ma la maggior parte dei giornalisti rimasti nei pressi della piazza dopo l'una del mattino, quando sono arrivate le prime unità dell'esercito, se ne sono scappati di gran fretta e per legittimo timore per la propria incolumità.
La mancanza di testimoni oculari è il primo problema che ha impedito di stabilire cosa sia davvero accaduto quella notte a Pechino. Ma occorre porsi altre domande, più profonde, su come i media stranieri vedevano il loro ruolo nella Primavera di Pechino. L'idealismo pacifista dei giovani studenti ha risvegliato i ricordi degli anni '60 e del movimento statunitense per i diritti civili, e l'abile uso da parte degli studenti di simboli occidentali, come i cerchietti con su scritto "Dammi la libertà, o dammi la morte", di Patrick Henry, hanno attirato l'attenzione occidentale sugli studenti…
C'era di più: qualche predisposizione, forse, a credere alla strage, anche se in realtà nessuno l'ha vista. Che sia accaduto o meno nella realtà, è stata la necessaria consumazione di un'allegoria di innocenza, sacrificio e redenzione...
L’immaginazione ha colmato le lacune. Il vuoto è stato colmato dai racconti più raccapriccianti del presunto epilogo in piazza... Un resoconto di un testimone oculare ampiamente riportato, presumibilmente da uno studente dell'Università di Qinghua, parlava di studenti sul Monumento che venivano falciati a distanza ravvicinata da una fila di mitragliatrici alle quattro del mattino. I sopravvissuti erano stati poi inseguiti attraverso la piazza dai carri armati e schiacciati, oppure bastonati a morte dai soldati. Ma era tutta pura invenzione.
Quando gli storici cominciarono a correggere la narrazione, l’episodio era già entrato nel mito: tutti erano convinti che centinaia, forse migliaia, di studenti erano morti in un massacro in piazza Tiananmen.
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Col passare del tempo, altri giornalisti mainstream di grande autorevolezza che erano stati presenti in piazza Tiananmen si sono fatti avanti, raccontando gli stessi fatti. Consiglio vivamente un lungo post sul blog del 2019 di Chris Kanthan che ha opportunamente messo insieme e collegato gran parte di questo materiale, unitamente ad una vasta gamma di immagini e video da cui ho attinto qui di seguito.
Nel 2009, il sito web CBS News pubblicò un breve articolo di Richard Roth, che era stato il suo corrispondente per le proteste di Tiananmen, intitolato appropriatamente “Non c’è stato alcun ‘massacro di piazza Tiananmen’”.
Nello stesso anno, la BBC pubblicò un articolo di James Miles, in cui il suo corrispondente diceva più o meno la stessa cosa:
La prima stesura della storia può essere esplicita…ero uno dei giornalisti stranieri che furono testimoni degli eventi quella notte…Non ci fu nessun massacro in piazza Tiananmen. |
Alcuni anni dopo, l’ex diplomatico australiano Gregory Clark pubblicò un articolo sul Japan Times in cui sosteneva questa stessa posizione, nonché un articolo molto simile sull’International Business Times intitolato “Il massacro di piazza Tiananmen è un mito, tutto ciò che stiamo ricordando sono bugie britanniche”, che si apriva con i seguenti paragrafi:
Il 4 giugno 2014 segnerà per molti il 25° anniversario del massacro di piazza Tiananmen. Ciò che in realtà dovrebbe celebrare è l’anniversario di una delle più spettacolari operazioni di disinformazione del Regno Unito – capace di gareggiare con le mitiche armi di distruzione di massa irachene.
La storia nota delle truppe cinesi che nella notte tra il 3 e il 4 giugno 1989 mitragliarono centinaia di studenti innocenti che manifestavano nell'iconica piazza Tiananmen di Pechino è stata da allora completamente smentita dai numerosi testimoni presenti ai fatti, tra cui una troupe televisiva spagnola della TVE, un corrispondente della Reuters, e gli stessi manifestanti, i quali affermano che non è successo nulla se non che un'unità militare è entrata e ha chiesto a diverse centinaia di coloro che erano rimasti di lasciare la piazza a tarda notte.
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Nel 2011 Wikileaks ha pubblicato una serie di dispacci statunitensi segreti, tra cui diversi inviati dall'ambasciata USA a Pechino, che raccontavano gli eventi del 4 giugno e confermavano pienamente l’assenza di ogni massacro. Inoltre, questi dispacci dimostrano che negli ultimi 22 anni il governo statunitense ha deliberatamente ingannato il suo popolo su ciò che era accaduto nel 1989, ma questa storia esplosiva fu totalmente ignorata dal New York Times, dal Washington Post, dal Wall Street Journal e quasi tutti gli altri media mainstream dell’Anglosfera, quindi pochissimi ne hanno sentito parlare.
L’unica eccezione a quel vergognoso silenzio è stata quella del conservatore britannico Daily Telegraph, che ha pubblicato un articolo in occasione dell’anniversario del 4 giugno intitolato “Wikileaks: nessuno spargimento di sangue in piazza Tiananmen, affermano i dispacci”. Il sottotitolo era ancora più incisivo: “I dispacci segreti dell’ambasciata degli Stati Uniti a Pechino hanno dimostrato che non ci fu spargimento di sangue in piazza Tiananmen quando la Cina represse le manifestazioni studentesche pro-democrazia 22 anni fa”. Una barra laterale di quella stessa pubblicazione citava il testo di alcuni di quegli esplosivi dispacci segreti:
1. Da 89BEIJING18828 - 7 luglio 1989. Un diplomatico cileno fornisce un resoconto di un testimone oculare dell’ingresso dei soldati in piazza Tiananmen: HA GUARDATO I MILITARI ENTRARE NELLA PIAZZA E NON HA OSSERVATO ALCUN USO DI ARMI DA FUOCO SULLA FOLLA, ANCHE SE SONO STATI UDITI SPORADICI COLPI D’ARMA DA FUOCO. HA DETTO CHE LA MAGGIOR PARTE DELLE TRUPPE CHE ENTRARONO NELLA PIAZZA ERANO IN REALTÀ ARMATE SOLO CON EQUIPAGGIAMENTO ANTISOMMOSSA: MANGANELLI E MAZZE DI LEGNO; ERANO AFFIANCATI DA SOLDATI ARMATI.
2. Da 89BEIJING18828 - 7 luglio 1989. Un diplomatico cileno fornisce un resoconto di un testimone oculare dell’ingresso dei soldati in piazza Tiananmen: ANCHE SE SI POTEVANO SENTIRE DEI COLPI D’ARMA DA FUOCO, HA DETTO CHE, A PARTE DI QUALCHE PESTAGGIO DI STUDENTI, NON CI SONO STATI SPARI IN MASSA SULLA FOLLA DEGLI STUDENTI AL MONUMENTO.
In circostanze normali, non mi parrebbe il caso di approfondire il punto, dopo aver citato i racconti di così tanti testimoni oculari diversi e di analisti credibili che hanno tutti sostanzialmente detto la stessa cosa su quegli eventi del 1989. Ma per più di tre decenni, forse il 99% di tutta la copertura mediatica occidentale ha affermato e divulgato la “bufala del massacro di piazza Tiananmen”, e di conseguenza sospetto che il 99% degli occidentali, compresi giornalisti e autori influenti, oggi probabilmente creda che quell’evento immaginario sia invece reale. Questa narrazione completamente falsa ha gravemente contaminato la percezione del governo cinese sia da parte del pubblico che delle élite su ogni sorta di altre questioni importanti. Pertanto, ho ritenuto necessario dimostrare quante e quanto convincenti siano le prove che si sia trattato, invece, di una bufala.
Sebbene Wikipedia sia una fonte inestimabile di informazioni di base, è notoriamente distorta e inaffidabile su questioni controverse, e ho naturalmente pensato che sarebbe stato così quando ho letto il suo articolo di 26.000 parole intitolato “Proteste e massacro di piazza Tiananmen del 1989”. Ma con mia notevole sorpresa, l'articolo era molto più imparziale e obiettivo di quanto mi aspettassi, presumibilmente perché le prove fattuali erano in modo schiacciante contro la storia del “massacro di piazza Tiananmen” promossa dai nostri media mainstream.
Per comprendere meglio come la leggenda del massacro di piazza Tienanmen sia diventata così profondamente radicata nella narrativa dei media mainstream nonostante prove così forti del contrario, dobbiamo considerare ciò che realmente accadde a Pechino il 4 giugno 1989. Parti della città, tra cui alcune strade verso la piazza, furono teatro di violenti attacchi contro l'avanzata delle forze militari, nel corso dei quali furono uccisi un numero considerevole di militari cinesi. Come riportò all’epoca il Wall Street Journal:
Mentre colonne di carri armati e decine di migliaia di soldati si avvicinavano a Tiananmen, molte truppe furono attaccate da folle inferocite che gridavano: “Fascisti”. Decine di soldati furono tirati giù dai camion, picchiati duramente e fatti morire. Ad un incrocio a ovest della piazza, il corpo di un giovane soldato, picchiato a morte, è stato denudato e appeso ad un autobus. Il cadavere di un altro soldato venne impiccato a un incrocio a est della piazza. |
Molti di questi soldati non portavano armi da fuoco e spesso non avevano nemmeno elmetti o armi per difendersi quando i rivoltosi attaccavano i loro veicoli, incendiandoli. Secondo il Washington Post, i manifestanti hanno usato bombe incendiarie e bottiglie molotov per dare fuoco a un intero convoglio militare di oltre 100 camion e veicoli blindati, mentre un fotografo di CBS News ha riferito di aver visto la folla picchiare a morte alcuni dei soldati all'interno. Ovviamente, in tali circostanze non sorprende che le truppe armate abbiano risposto con la forza letale.
Un video della televisione cinese mostra i veicoli militari in fiamme e il caos generale in alcune parti di Pechino.
Sulla base delle mie limitate ricerche, penso che il numero esatto delle vittime di entrambe le parti rimanga poco chiaro ancora oggi, così come non è chiaro chi abbia dato inizio alla violenza, e l’intensità di essa potrebbe essere stata diversa nelle differenti parti della città. Il rapporto ufficiale del governo cinese pare affermare che più di 1.000 veicoli militari e di polizia furono bruciati dai rivoltosi e più di 200 soldati e poliziotti furono uccisi, ma questa potrebbe essere una considerevole esagerazione, e allo stesso modo potrebbe essere stato sottostimato il numero di civili morti, che secondo loro sarebbero circa 300. Secondo il WSJ, alcune testate giornalistiche che hanno contattato gli ospedali locali hanno stimato 500 morti civili, mentre altre fonti ritengono che il totale fosse molto più alto.
Indipendentemente da queste cifre controverse sulle vittime, per 35 anni la nostra narrativa mediatica mainstream ha erroneamente confuso il numero di rivoltosi violenti uccisi in altre parti della città, con quello dei manifestanti pacifici studenteschi in piazza Tiananmen, nessuno dei quali è stato ucciso o ferito.
Una delle immagini iconiche di quei giorni era quella di “Tank Man”, un civile cinese solitario che bloccava una colonna di carri armati, ma penso che la storia che raccontava quella immagine fosse assolutamente il contrario da quella che gli ha attribuito la nostra falsa narrativa. Invece di sparare o schiacciare quel manifestante ostinato, la colonna di carri armati si è fermata e ha tentato senza successo di aggirarlo, finché un paio di altri civili sono finalmente intervenuti e lo hanno portato via.
Un aspetto interessante del filmato è che la versione di YouTube, che è stata vista circa 11 milioni di volte, ha troncato il video prima che potessimo vedere il manifestante cinese allontanarsi sano e salvo. Sospetto che questo possa aver avuto lo scopo di indurre gli spettatori a credere che alla fine fosse stato schiacciato a morte dai carri armati, poiché anche se ho passato qualche minuto a cercare in giro, non sono riuscito a trovare il video completo da nessuna parte su YouTube.
In molti altri paesi del mondo, un civile disarmato che tentasse di bloccare una colonna militare di carri armati rischierebbe una morte certa. Infatti, quando l’attivista statunitense Rachel Corrie cercò di impedire a un bulldozer corazzato israeliano di demolire la casa di una famiglia palestinese nel 2003, l’autista la schiacciò deliberatamente a morte, e ci sono state recenti segnalazioni di carri armati israeliani che schiacciavano prigionieri palestinesi legati a Gaza, e le immagini dei loro macabri resti sono disponibili su Internet. Di seguito, una.
All’apice delle proteste, più di un milione di manifestanti infuriati avevano occupato le strade della capitale cinese, e queste proteste continuarono per molte settimane nel corso del 1989, tanto che la maggior parte degli osservatori era ragionevolmente convinta che il governo in carica da quattro decenni del Partito Comunista stesse vacillando. Sebbene l’insoddisfazione popolare fosse probabilmente più focalizzata su questioni banali come la corruzione del governo e l’inflazione – che era salita al 26% l’anno precedente – piuttosto che sul liberalismo politico, l’esistenza di un’insoddisfazione così diffusa era certamente reale.
Come i giornalisti occidentali avevano riportato all’epoca e i libri di Black/Munro e altri confermarono in seguito, la massima leadership politica cinese era profondamente in conflitto su come rispondere a questa minaccia pubblica senza precedenti al loro governo. Il più alto organo di governo del paese, il Comitato permanente del Politburo, era bloccato dai dissidi interni e il segretario generale Zhao Ziyang alla fine si allineò con i manifestanti, sperando di utilizzare il movimento popolare per sconfiggere i suoi rivali politici.
Così, il mondo intero rimase meravigliato a guardare mentre una diffusa e inaspettata rivolta popolare sembrava sul punto di rovesciare il dominio comunista, un tempo apparentemente incrollabile, della nazione più popolosa del mondo.
Nei decenni successivi, simili proteste e rivolte popolari, solitamente in sintonia con gli interessi statunitensi o a sostegno dell’ideologia occidentale, sarebbero diventate abbastanza comuni in tutto il mondo, tanto da ricevere il nome generico di “Rivoluzioni Colorate”, e i loro bersagli più frequenti sono stati gli Stati post-sovietici dell’Europa orientale, compresi quelli di Serbia, Ucraina e Georgia. Pertanto, con il senno di poi, alcuni scrittori e attivisti antistatunitensi hanno sostenuto che, sebbene alla fine fallita, la rivolta di Pechino del 1989 fosse in realtà la prima di queste “Rivoluzioni Colorate”, essendo stata orchestrata o manipolata da elementi del governo USA e dei suoi alleati. Il lungo post sul blog di Kantham del 2019 sostiene questa posizione, così come un lungo articolo pubblicato quello stesso anno dal giornalista Max Parry.
Costoro hanno notato che nel 1986 l'Open Society Institute di George Soros aveva fornito un milione di dollari in finanziamenti per sostenere le forze emergenti pro-democrazia della Cina e, dopo l'inizio delle manifestazioni di massa, molti milioni di dollari aggiuntivi si riversarono nel paese per sostenere i manifestanti, che sono stati rapidamente elevati a eroi internazionali anche dai media occidentali dominanti a livello globale. Ma se nulla di tutto ciò sembra strano o sorprendente, ancora non si dimostra che il movimento di protesta sia stato effettivamente creato o fortemente istigato da tali forze esterne.
Quindi, anche se non si può escludere un ruolo occulto, ma determinante, dell’Occidente, non ho trovato alcuna prova forte a sostegno di un’analisi così cospiratoria delle proteste del 1989, e per quanto ne so l’analisi convenzionale fornita dal libro Black/Munro sembra perfettamente plausibile.
Nel frattempo, vorrei sottolineare un fattore molto più evidente dietro le proteste di Pechino del 1989, un fattore che è stato completamente trascurato da tutte queste diverse analisi, siano esse tradizionali o alternative, pro-Cina o anti-Cina. Diversi mesi prima dell’inizio delle proteste di Pechino, l’importante città cinese di Nanchino era stata scossa da manifestazioni contro la presenza di studenti africani in quella città, e simili disordini anti-africani si erano poi diffusi in altre grandi città, tra cui Shanghai e Pechino. Sebbene il governo alla fine abbia dichiarato illegali le proteste e le abbia represse, le loro richieste popolari sono state in gran parte accolte, costringendo la maggior parte degli africani a lasciare il paese e imponendo nuove restrizioni a coloro che sono rimasti.
Manifestazioni pubbliche così grandi erano state in precedenza estremamente rare in Cina, e l’ampia copertura mediatica dei manifestanti di Nanchino e il successo ottenuto devono sicuramente aver ispirato i promotori delle manifestazioni di Tiananmen tre mesi dopo. Alcuni di questi ultimi manifestanti, infatti, portavano ancora cartelli di denuncia contro gli studenti africani, sottolineando lo stretto legame tra i due movimenti.
La storia del massacro di piazza Tiananmen, mai avvenuto, non è certo l’unico caso di informazioni errate o deliberatamente fuorvianti che sono state ostinatamente ripetute per decenni dai nostri media mainstream disonesti.
Pochi giorni fa, il leader cinese Xi Jinping ha iniziato un viaggio in Europa e il suo itinerario includeva la Serbia, e la sua visita è stata ampiamente riportata dal New York Times. Un articolo del 7 maggio conteneva i seguenti paragrafi, insieme ad una foto dell'ambasciata cinese distrutta:
- L'arrivo di Xi in Serbia martedì è coinciso con il 25° anniversario dell'attacco per errore degli aerei da guerra della NATO all'ambasciata cinese di Belgrado. durante la campagna di bombardamenti del 1999. Tre giornalisti cinesi vennero uccisi.
- Quell’incidente, che molti in Cina ritengono non sia stato un incidente, ha creato un “forte legame emotivo tra serbi e cinesi”, ha affermato Aleksandar Mitic dell’Istituto di politica ed economia internazionale di Belgrado.
L'articolo molto più lungo del Times dell'8 maggio era ancora più netto nel dichiarare che l'attacco statunitense all'ambasciata era stato accidentale, con il sottotitolo che recitava:
- In visita ai leader amici dell'Europa orientale, il presidente cinese ha commemorato il 25° anniversario dell'attacco aereo statunitense mal indirizzato che ha distrutto l'ambasciata cinese a Belgrado.
I primi due paragrafi recitano:
- Mercoledì Cina e Serbia hanno proclamato una “amicizia di ferro” e un “futuro condiviso” durante la visita a Belgrado del presidente cinese Xi Jinping, sottolineando gli stretti legami politici ed economici tra due paesi che condividono la diffidenza nei confronti degli Stati Uniti.
- Il signor Xi è arrivato in Serbia martedì scorso, in occasione del 25° anniversario di un errore aereo del 1999 che coinvolse l'aeronautica statunitense durante la guerra del Kosovo, distruggendo l'ambasciata cinese a Belgrado, la capitale serba. Nell’attacco rimasero uccisi tre giornalisti cinesi.
E l'articolo continua dicendo:
- Il 25° anniversario dei bombardamenti della NATO è arrivato in un momento in cui il governo di Xi sta cercando di stabilire relazioni stabili con gli Stati Uniti e l'Europa occidentale. Ci si aspettava che visitasse il sito dell’ambasciata bombardata, che ha visitato durante il suo ultimo viaggio in Serbia nel 2016 e che di solito è una tappa obbligatoria per i funzionari cinesi in visita a Belgrado. Ma non lo si è visto fino a mercoledì sera, quando ha lasciato Belgrado per la sua tappa successiva, la capitale ungherese Budapest, l'unica altra capitale europea veramente favorevole alla Cina.
- La sua decisione di omettere la visita al sito dell’ex ambasciata, ora trasformata in un centro culturale cinese che presenta una lapide di marmo nero simile a una lapide funeraria per i “martiri cinesi e serbi”, suggerisce il desiderio di evitare di riaccendere le passioni antistatunitensi, che al momento del bombardamento del 1999 suscitarono proteste rabbiose da parte di decine di migliaia di cinesi attorno all'ambasciata USA a Pechino, alcuni dei quali lanciarono bottiglie e sassi.
- Non ha ignorato del tutto i bombardamenti, ma solo evitato enfasi anti-occidentali.
- “Non dobbiamo mai dimenticarlo”, ha detto Xi in una dichiarazione pubblicata martedì da Politika, un giornale serbo, ricordando che “25 anni fa, la NATO bombardava in modo flagrante l’ambasciata cinese”. Ha aggiunto che l'amicizia della Cina con la Serbia è stata “forgiata con il sangue dei nostri compatrioti” e “rimarrà nella memoria condivisa dei popoli cinese e serbo”...
- "Il popolo cinese non dimenticherà mai questa barbara atrocità commessa dalla NATO e non accetterà mai che una storia così tragica si ripeta", ha detto ai giornalisti a Pechino Lin Jian, portavoce del ministero.
Questo lungo articolo del Times sottolinea che il bombardamento statunitense contro l’ambasciata cinese a Belgrado era stato un tragico incidente, suggerendo che la rabbiosa reazione cinese era ingiustificata e perfino irrazionale, e per venticinque anni questa è stata la rappresentazione assolutamente uniforme fornita da tutti i principali mezzi di comunicazione statunitensi. Ma nello stesso articolo del 2020 in cui avevo discusso la vera storia degli eventi di piazza Tiananmen del 1989, avevo anche spiegato cosa era realmente accaduto a Belgrado nel 1999.
Sebbene la nostra campagna di bombardamenti limitati sembrasse abbastanza efficace, tanto da costringere presto i Serbi al tavolo delle trattative, la breve guerra registrò anche un episodio molto imbarazzante. L'uso di vecchie mappe provocò un errore di targeting, e una delle nostre bombe intelligenti colpì accidentalmente l'ambasciata cinese a Belgrado, uccidendo tre membri della sua delegazione e ferendone altre dozzine. I Cinesi si indignarono per questo incidente e i loro organi di propaganda iniziarono a sostenere che l'attacco fosse stato deliberato, un'accusa sconsiderata che ovviamente non aveva alcun senso logico.
In quei giorni guardavo il PBS Newshour tutte le sere, e rimasi scioccato nel vedere il loro ambasciatore negli USA sollevare quelle assurde accuse con il conduttore Jim Lehrer, la cui incredulità corrispondeva alla mia. Ma conclusi che, da un governo come quello cinese, che ancora negava ostinatamente la realtà del massacro degli studenti che protestavano in piazza Tiananmen un decennio prima, c’era da aspettarsi un simile comportamento irragionevole. In effetti, si ipotizzò perfino che la Cina stesse utilizzando cinicamente lo sfortunato incidente di Belgrado per motivi interni, sperando di suscitare tra i Cinesi un anti-americanismo di tipo gingoista, che avrebbe potuto aiutare a sanare le ferite sociali di quel 1989.
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Ancora più straordinarie sono state le scoperte che ho fatto riguardo al nostro bombardamento, presentato come accidentale, dell'Ambasciata cinese nel 1999. Non molto tempo dopo aver lanciato questo sito web, ho assunto l'ex collaboratore di Asia Times, Peter Lee, come editorialista, incorporando gli archivi del suo blog China Matters, che si era sviluppato lungo un intero decennio. Ben presto ha pubblicato un articolo di 7.000 parole sul bombardamento dell'Ambasciata di Belgrado, che rappresentava una raccolta del materiale già contenuto in una mezza dozzina di pezzi precedenti che aveva scritto sull'argomento dal 2007 in poi. Con mia notevole sorpresa, nell’articolo ha fornito molte prove persuasive che l'attacco statunitense all'ambasciata cinese fosse stato davvero deliberato, proprio come la Cina aveva sempre sostenuto.
Secondo Lee, Pechino aveva permesso alla sua ambasciata di essere utilizzata come sito per trasmissioni radio sicure da parte dell'esercito serbo, la cui propria rete di comunicazioni era un obiettivo primario degli attacchi aerei della NATO. Nel frattempo, le difese aeree serbe avevano abbattuto un modernissimo caccia statunitense F-117A, la cui tecnologia stealth top-secret era un segreto militare USA fondamentale. Parti di quel relitto di enorme valore furono raccolte con cura dai serbi riconoscenti, che lo consegnarono ai cinesi perché fossero temporaneamente custodite nella loro ambasciata. Questa acquisizione tecnologica vitale ha permesso in seguito alla Cina di realizzare il proprio caccia stealth J20 all'inizio del 2011, molti anni prima di quanto gli analisti militari statunitensi credessero possibile.
Sulla base di queste premesse, Lee ha sostenuto che l'ambasciata cinese è stata attaccata per distruggere le strutture di ritrasmissione serbe ivi situate, e per punire i cinesi che avevano consentito tale uso. Sono corse anche voci, soprattutto in Cina, che un altro motivo di quell’attacco deliberato era il tentativo, rimasto senza successo, di distruggere i relitti dell’aereo invisibile ivi custoditi. Successivamente, le testimonianze raccolte dal Congresso USA rivelarono che, tra tutte le centinaia di attacchi aerei della NATO, quello all'ambasciata cinese era l'unico ordinato direttamente dalla CIA, un dettaglio altamente sospetto.
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Sebbene i media statunitensi dominino il mondo in lingua inglese, anche molte pubblicazioni britanniche possiedono una solida reputazione globale, e poiché spesso sono molto meno legate ai nostri apparati della sicurezza nazionale, a volte hanno coperto storie importanti che da noi erano state del tutto ignorate. E in questo caso, il Sunday Observer ha pubblicato un importante reportage, nell'ottobre 1999, citando diverse fonti militari e di intelligence della NATO, che ha pienamente confermato la natura di attacco deliberato statunitense contro l'ambasciata cinese, con un colonnello statunitense che si vantava addirittura che la sua bomba intelligente avesse colpito il punto preciso che era stato preso di mira.
Questa importante storia è stata immediatamente ripresa da The Guardian, una pubblicazione gemella, e coperta anche dal rivale Times di Londra e da molte altre pubblicazioni tra le più prestigiose al mondo, ma ha incontrato un muro di silenzio assoluto nel nostro paese. Una tale bizzarra divergenza su una storia di importanza strategica globale - un deliberato e micidiale attacco degli Stati Uniti contro il territorio diplomatico cinese - ha attirato l'attenzione di FAIR, un gruppo leader statunitense di controllo dei media, che ha pubblicato una critica iniziale e un successivo seguito. Questi due pezzi ammontano a circa 3.000 parole e riassumono efficacemente sia le prove schiaccianti dei fatti, sia la prestigiosa copertura internazionale, e riportano le deboli scuse avanzate dai migliori redattori statunitensi per spiegare il loro continuato silenzio. Sulla base di questi articoli, ritengo che la questione sia risolta.
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Per coincidenza, il mese scorso ha segnato anche un altro importante anniversario storico. Il 7 aprile 2024 la prima pagina del Times portava il titolo “Trent’anni dopo un genocidio in Ruanda, i ricordi dolorosi sono profondi”, con un primo paragrafo che riassumeva quegli eventi orribili:
- L'angoscioso ricordo di quei giorni strazianti incombeva su molti domenica, mentre il Ruanda celebrava il 30esimo anniversario del genocidio in cui gli estremisti della maggioranza etnica Hutu del paese uccisero circa 800.000 persone - la maggior parte delle quali di etnia tutsi - usando machete, mazze e pistole.
Per decenni avevo letto questo resoconto assolutamente uniforme del massacro etnico del Ruanda nel 1994 in tutti i media di mia fiducia, senza mai dubitare nemmeno una volta che la storia fosse vera. Ma qualche settimana fa ho indagato più da vicino la questione e sono giunto a conclusioni diametralmente opposte, basate sulle analisi persuasive di una serie di studiosi accademici e giornalisti assolutamente credibili. Sono rimasto particolarmente colpito dal lavoro del compianto Prof. Edward Herman dell'Università della Pennsylvania, come ho spiegato nel mio articolo :
In precedenza non conoscevo Herman, ma da quel momento in poi ho preso molto sul serio le sue opinioni, e di recente ho scoperto che nel 2014 aveva pubblicato Enduring Lies, un breve lavoro scritto insieme al giornalista indipendente David Peterson che sfidava con nettezza la narrativa corrente sui fatti del Ruanda, e così l’ho acquistato e l'ho letto.
Il pur breve libro conteneva in copertina una recensione dello stimato giornalista John Pilger che ne apprezzava “l’indagine storica”, ed esso è stato anche elogiato da numerosi altri, inclusi gli autori di due diversi libri sul disastro del Ruanda, e anche il mio giudizio è stato estremamente positivo. Herman era uno studioso serio e il libro ha offerto una confutazione devastante e molto convincente di quello che gli autori chiamano “il modello standard” degli eventi in Ruanda.
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Per la maggior parte delle persone ragionevoli, qualsiasi discorso di “genocidio” deve concentrarsi sui numeri, e gli autori sostengono che, nel caso del Ruanda del 1994, i numeri sono molto vaghi. Nessuno ha mai negato che un gran numero di civili tutsi innocenti siano stati uccisi, spesso in modi molto raccapriccianti, ma basandosi sulla ricerca quantitativa di un paio di accademici dell’Università del Michigan, gli autori hanno sostenuto che le cifre e le percentuali menzionate casualmente da Gourevitch, e così via da molti altri, erano assurdamente esagerate. Quest’ultimo aveva affermato che furono uccise molte centinaia di migliaia di tutsi, che rappresentavano la grande maggioranza della popolazione totale, ma invece probabilmente erano morti solo tra i 100.000 e i 200.000, mentre invece il numero delle vittime hutu era un multiplo di quello, forse anche di molte, molte volte maggiore. |
Un punto importante sottolineato dagli autori è che il tribunale internazionale successivamente istituito per processare i responsabili del genocidio ruandese ha deliberatamente omesso di occuparsi delle vittime Hutu o dei carnefici Tutsi, proteggendo Kagame e i suoi compagni da qualsiasi indagine legale o sanzione, omettendo quindi di indagare sulla stragrande maggioranza dei crimini. Il fatto che i Tribunali abbiamo ignorato completamente la maggior parte degli omicidi e la maggior parte delle vittime potrebbe sembrare assurdo, ma riflette il fortissimo sostegno politico che USA, Gran Bretagna e altri paesi hanno fornito al regime tutsi appena instaurato, e tutti i pubblici ministeri che hanno tentato di ampliare il loro mandato sono stati ignorati o addirittura rimossi dalle loro posizioni.
Un tema assolutamente centrale di tutta la copertura mediatica e dei libri mainstream era stata la natura pianificata del genocidio, ma Herman e Peterson hanno notato che tutti i leader hutu processati con quelle accuse sono stati assolti già in primo grado, o successivamente in appello, dimostrando così che questa accusa era sfornita di prove. Uno dei loro argomenti, dettagliatamente sviluppato, è che il fax di avvertimento presumibilmente inviato alle Nazioni Unite diversi mesi prima dell’inizio degli omicidi era un falso palese, e le sentenze del tribunale sembrano aver condiviso tale conclusione. Hanno anche riassunto le prove molto convincenti secondo cui Kagame, e non qualche oscuro leader estremista Hutu, era stato responsabile dell'assassinio del presidente Hutu del Ruanda, l'evento che scatenò lo scoppio della violenza.
Secondo i loro calcoli, il numero totale di civili Hutu uccisi in Ruanda nel 1994 ammonta quasi certamente a centinaia di migliaia e potrebbe aver facilmente raggiunto un milione o più, mentre un numero ancora maggiore di rifugiati Hutu fu massacrato in Congo durante la successiva invasione di Kagame, che secondo lui era stata lanciata per sradicare i “criminali di guerra genocidi”. Quell’invasione portò alla Prima e alla Seconda Guerra del Congo, che anche Wikipedia, rigorosamente mainstream, ammette essere costata ben più di cinque milioni di vite civili, un numero di vittime che fa impallidire completamente il bilancio delle vittime del 1994 in Ruanda.
Eppure nessuno di quegli orrendi spargimenti di sangue ha mai provocato serie proteste occidentali o anche una sostanziale copertura mediatica, per non parlare di accuse di “genocidio” o l’istituzione di tribunali internazionali. Invece, Kagame, il maggior responsabile di tutto questo, è rimasto un grande eroe per la maggior parte dei nostri media occidentali. Herman e Peterson hanno chiuso il loro ultimo capitolo sottolineando l'estremo paradosso che, sebbene Kagame sia stato ampiamente celebrato come "l'Abraham Lincoln" dell'Africa da Gourevitch e da molti dei giornalisti che hanno seguito il suo esempio, l'attuale leader ruandese "è molto probabilmente il più grande assassino di massa oggi vivente".
Gli autori sostengono che questa totale inversione della realtà storica è stata mantenuta dal 1994 grazie ad un accesso estremamente selettivo ai media. Essi hanno infatti prodotto un elenco dei venti principali sostenitori della “versione standard” e dei venti principali dissenzienti e, controllando il database Factiva, hanno stabilito che i primi avevano quasi totalmente monopolizzato l’accesso ai media, soprattutto escludendo le piccole pubblicazioni in lingua francese. Quando viene raccontata solo una parte della storia, il pubblico può essere facilmente persuaso ad accettare quasi tutto. Per parte mia, posso confermare questa analisi perché io stesso, nonostante le mie letture molto approfondite fino a un paio di anni fa, non mi ero mai reso conto che esistesse un dissenso significativo rispetto alla narrativa standard del Ruanda, per non parlare del fatto che tra i dissidenti figurassero studiosi altamente credibili.
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Scoprii presto che, due decenni dopo i fatti del Ruanda, la BBC aveva prodotto un lungo documentario che confermava pienamente la controversa analisi di Herman, e ne ho parlato in un altro articolo successivo di quello stesso mese:
- L’anno 2014 ha segnato il ventesimo anniversario degli omicidi e Herman, Peterson e Black non erano gli unici interessati a riesaminare i fatti. Nello stesso anno la BBC produsse e trasmise un documentario di un’ora sul genocidio del Ruanda che arrivò quasi esattamente alle stesse conclusioni di quegli autori. Alcuni degli ex comandanti militari più importanti di Kagame sono stati intervistati davanti alla telecamera, rivelando che Kagame era stato responsabile dell'assassinio del presidente Hutu del Ruanda, e che poi aveva utilizzato quel crimine per fornire copertura alla sua rinnovata invasione del paese e al massacro della sua popolazione Hutu. Ci sono state anche interviste con accademici statunitensi il cui attento lavoro sui numeri contraddiceva la narrazione ampiamente diffusa e confermava invece che la stragrande maggioranza delle vittime erano civili Hutu, morti per mano delle forze tutsi di Kagame, anche con interviste ad alcuni Hutu sopravvissuti. Negli anni successivi, Kagame aveva consolidato il suo controllo attraverso un regno di terrore, e tutti i ruandesi che sfidavano la sua versione ufficiale affrontavano il carcere o la morte come “negazionisti del genocidio”. Il suo regime si è adoperato anche per rintracciare e assassinare i disertori o i dissidenti politici che erano fuggiti dal paese.
- Anche se ho trovato importanti e persuasivi i fatti e le interviste presentate nel documentario della BBC, ancora più scioccante per me è stato il fatto che esso non abbia ricevuto praticamente alcuna copertura da parte di tutti i media occidentali nel decennio successivo alla sua pubblicazione, lasciandomi completamente all’oscuro della sua esistenza. Per generazioni, la BBC è stata considerata una delle fonti di notizie più prestigiose e rispettabili al mondo, eppure nessuno degli altri nostri media aveva prestato attenzione a un importante documentario che ribaltava completamente la narrativa esistente sul Ruanda.
Ron Unz • The Unz Review • 4 marzo 2024 • 7.400 parole
Ron Unz • The Unz Review • 25 marzo 2024 • 7,900 parole
In questi giorni le relazioni del nostro Paese con la Cina sono le peggiori degli ultimi decenni e mancano solo tre settimane al 35° anniversario dell'incidente del 4 giugno. Sulla base dell’esperienza passata, mi aspetto che i nostri media mainstream scriveranno ancora moltissimo di quell’inesistente massacro del 1989 di pacifici manifestanti studenteschi pro-democrazia in piazza Tiananmen, che è diventato un evento spartiacque della storia moderna della Cina e delle sue relazioni con il mondo occidentale, nonostante sia totalmente immaginario.
Pochi giorni fa, anche i nostri media si sono concentrati sul 25° anniversario del (questa volta vero e certamente reale) bombardamento statunitense dell’ambasciata cinese a Belgrado, ma lo hanno fermamente dichiarato “accidentale”, e questa invece è un’altra assurda falsità. E il mese precedente, articoli di alto profilo avevano ricordato il 25° anniversario del genocidio ruandese, uniformemente descritto dai nostri media come una campagna di sterminio deliberatamente pianificata, condotta dagli Hutu del paese contro i loro rivali etnici Tutsi, anche se sembrano esserci prove molto evidenti che la realtà fosse l’esatto opposto.
Tutto ciò mi fa venire in mente un breve passaggio di uno dei miei articoli del 2016 che ho spesso citato:
- Tendiamo ingenuamente a dare per scontato che i nostri media riflettano accuratamente gli eventi del nostro mondo e della sua storia, ma invece ciò che troppo spesso vediamo sono solo immagini tremendamente deformate di uno specchio da luna park, con piccoli oggetti a volte allungati e quelli grandi rimpiccioliti. I contorni della realtà storica possono essere deformati fino a risultare irriconoscibili, con alcuni elementi importanti che scompaiono completamente e altri che appaiono dal nulla. Ho spesso suggerito che i media creano la nostra realtà ma, date queste evidenti omissioni e distorsioni, la realtà prodotta è spesso in gran parte fittizia. Le nostre storie standard hanno sempre criticato la ridicola propaganda sovietica all’epoca delle purghe staliniane o della carestia ucraina ma, a modo loro, i nostri organi mediatici a volte sembrano altrettanto disonesti e assurdi nei loro resoconti. E, prima di Internet, era difficile per la maggior parte di noi riconoscere l’enormità di questo problema.
Se la classe politica statunitense scoprisse cosa è realmente accaduto a Pechino nel 1989, in Ruanda nel 1994 e a Belgrado nel 1999, ciò potrebbe avere un impatto sulla politica mondiale e sulle nostre relazioni con Cina e Ruanda. Ma non penso che avrebbe un impatto significativo sui problemi che oggi affliggono la società statunitense. La scoperta però di altri fatti storici importanti, anch’essi a lungo tenuti nascosti, potrebbe sconvolgere tutto.
Mercoledì scorso i principali titoli della prima pagina del Wall Street Journal riferivano che le forze israeliane erano entrate a Rafah e avevano preso il controllo del principale valico di frontiera con l'Egitto. Si trattava di un’importante escalation militare preparatoria di un’invasione totale di quella città ora piena di oltre un milione di rifugiati disperati, un’invasione che accrescerà enormemente il numero di morti civili palestinesi.
Ma sopra quell’articolo, e occupando molto più spazio in prima pagina, c’era una grande fotografia che mostrava il presidente Joe Biden, il presidente repubblicano della Camera Mike Johnson e una folla di altre importanti figure politiche di Washington, tutti riuniti in una solenne cerimonia pubblica. La didascalia spiegava essere la “Giornata della memoria dell’Olocausto celebrata nel pieno della guerra”. Tutto ciò è avvenuto poco dopo che la Camera aveva approvato a stragrande maggioranza una nuova legge mirante a vietare ogni critica nei confronti degli ebrei o di Israele, un passo importante lungo il percorso verso la messa al bando definitiva di qualsiasi critica allo Stato di Israele.
Ron Unz • The Unz Review • 6 maggio 2024 • 6.900 Parole
Potrebbe fare poca differenza per noi se la maggior parte degli statunitensi scoprisse la verità sugli eventi di Pechino del 1989 o di Belgrado del 1999, e pochi dei nostri cittadini si preoccuperebbero davvero se si chiarisse che gli Hutu hanno massacrato i Tutsi o che, in realtà, è avvenuto il contrario. Ma penso che scoprire la vera storia dell’Europa degli anni ’40 avrebbe conseguenze sconvolgenti a livello mondiale:
Ron Unz • The Unz Review • 12 giugno 2023 • 12.600 parole
Ron Unz • The Unz Review • 19 giugno 2023 • 7.500 parole
Ron Unz • The Unz Review • 17 luglio 2023 • 9.700 Parole
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