Confessione o tortura?
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Confessione o tortura?
L’atto di accusa contro i 24 saharawi del processo per i fatti di Gdeim Izik si fonda unicamente sulle confessioni degli imputati, confessioni rese in stato di detenzione e senza l’assistenza di alcun difensore.
Sulla “spontaneità” di tali confessioni, abbiamo raccolto alcune testimonianze, nel corso di incontri avuti, tra Rabat e Salé, con uno degli avvocati, Mohamed Lahbib Erguebi, e alcuni familiari dei detenuti
Rabat, 15 settembre 2012 – I difensori
Il primo incontro è con l’avvocato Mohamed Lahbib Erguebi, uno dei difensori saharawi (insieme agli avvocati Boukhaled Mohamed, Bazid Lanmad, Mohamed Fadel Leili, Abdellahi Challok e Nour-Eddin Dalil) dei detenuti che saranno giudicati a partire dal prossimo 24 ottobre 2012, dinanzi al Tribunale militare di Rabat, per i fatti di Gdeim Izik.
A proposito delle prove a carico degli imputati, non sa molto più di me, in quanto anche lui ha avuto modo di leggere solo l’ordinanza di rinvio a giudizio del Giudice Istruttore militare. Gli avvocati non sono stati, infatti, ancora autorizzati ad avere copia del dossier. Sembra potranno ottenerla solo il prossimo 28 settembre.
Mi informa comunque che i detenuti hanno denunciato numerosi episodi di tortura, nel corso dell’interrogatorio reso al Giudice Istruttore, che però non ha proceduto alla verbalizzazione di tali denunce. Mi dice che – secondo quanto denunciato – le torture erano finalizzate a ottenere informazioni e confessioni, a costringerli a firmare dei falsi verbali di interrogatorio e anche solo a terrorizzarli, per convincerli a non fare più attività politica.
L’avvocato Erguebi lamenta anche la lunghezza dei tempi per la celebrazione del processo. Il G.I. ha infatti trasmesso gli atti al Tribunale militare il 3 novembre 2011. Una prima udienza era stata fissata per il 13 gennaio 2012, ma vi era stato poi un rinvio fuori udienza a data da stabilirsi. E adesso il processo dovrebbe finalmente cominciare il prossimo 24 ottobre. Dice l’avvocato che, sebbene la legge marocchina non disciplini i tempi di fissazione del processo, pure si ritiene che esso debba essere celebrato in tempi ragionevoli. Esprime la preoccupazione che questi indugi non motivati denuncino interferenze politiche sullo svolgimento e l’esito del processo.
Lamenta infine che da 2 anni gli imputati sono in stato di custodia cautelare in carcere senza processo.
Salé, 15 settembre 2012 – i familiari
1. Elmachdoufi Mustapha (Mansour), è il fratello di Elmachdoufi Ettaki (numero di arresto 41). Mansour (o Mustapha) è un trentacinquenne senza lavoro che non ha mai fatto politica, “perché – spiega - non ho mai trovato una collocazione nelle organizzazioni saharawi”. Inoltre non poteva permetterselo – prosegue – in quanto lui e il fratello sono gli unici sostegni familiari (il padre è divorziato e vive a Dakhla con la nuova moglie) e quindi non potevano permettersi di subire persecuzioni poliziesche e prigione.
Tutto questo, fino alla realizzazione del campo di Gdeim Izik. Anche Mansour c’è stato e, per un pelo, non è stato arrestato anche lui. Il caso ha voluto infatti che il venerdì precedente egli si fosse allontanato per accompagnare sua madre malata di cuore ad una visita medica. “Nessuno pensava che il campo sarebbe stato smantellato”, commenta. Il fratello Ettaki, invece, è rimasto ed è stato arrestato.
Chiedo a Mansour delle violenze a Laayoune, seguite allo smantellamento del campo. “Sì, le abbiamo fatte – risponde – la nostra lotta è pacifica, ma quando abbiamo avuto notizia dello smantellamento del campo e ci siamo visti traditi, non abbiamo capito più niente. Le autorità marocchine avevano trattato con noi e si erano anche impegnate a soddisfare alcune nostre rivendicazioni, poi improvvisamente sono intervenuti con la forza”.
“Dopo l’esperienza del campo e del suo smantellamento – prosegue – ho capito che dovevo prendermi i miei rischi. La vita è fatta di rischi. Se non mi impegno in questa giusta lotta, la mia non sarà vita, sarà una vita senza dignità.
Cerco di capire quali siano le opinioni politiche di Mansour, convinto come sono che egli incarni la vera novità venuta fuori dal campo di Gdeim Izik, vale a dire l’emergere di un nuovo impegno di masse di giovani mai prima coinvolti nella intifada saharawi. Gli chiedo se la lotta debba essere “sociale o politica” e lui mi risponde: “Tutti e due… Noi cerchiamo diritti e dignità e la strada giusta è quella della indipendenza. Almeno non ci sarà razzismo come quello attuale dei marocchini nei confronti dei saharawi e saremo tutti sullo stesso piano”.
Lo provoco, ricordandogli che l’indipendenza non è la panacea di tutti i mali, che altre esperienze storiche di decolonizzazione hanno lasciato intatte le differenze e le ingiustizie sociali del periodo coloniale e non hanno garantito quei diritti e quella dignità che va cercando. Sono sicuro che non creda fino in fondo alla risposta che mi dà: “Meglio una dittatura saharawi che un governo democratico marocchino”.
2. Boujlal Rquia è la madre del detenuto Mohamed Bani, 43 anni (numero arresto 43).
La incontro, insieme a diversi altri parenti di detenuti, in un appartamento di Salé che hanno affittato tutti insieme per essere vicini ai propri familiari detenuti nel vicino carcere militare. Mi parla subito delle torture e dei maltrattamenti subiti da suo figlio. Mi dice che, per i primi sei giorni dopo i fatti di Gdeim Izik, non ha avuto alcuna notizia di lui, non sapeva nemmeno se era vivo o morto.
Poi finalmente ha potuto incontrarlo, sebbene solo per pochi minuti e attraverso una grata. Lo ha visto con ferite al capo e tracce sulla pelle di bruciature di sigarette e di lesioni provocate con pinze. Il figlio le ha fornito particolari raccapriccianti, come il fatto che i poliziotti pare riempissero delle bottiglie con la loro urina e costringessero i detenuti a berla.
Mi dice che, per i primi sei mesi, lo ha potuto incontrare solo una volta alla settimana, per pochi minuti e attraverso una grata. Poi i detenuti hanno fatto uno sciopero della fame, e anche i familiari hanno inscenato manifestazioni davanti agli uffici della amministrazione penitenziaria. Hanno così ottenuto il diritto a visite più frequenti e anche altre cose, come per esempio il diritto di portare cibi cotti ai detenuti, mentre prima era permesso l’ingresso solo di acqua e frutta.
3. Elalia Eradra è la madre di Abdalahi Lakhfawi, 38 anni (numero di arresto 45). Mi racconta di essere stata la prima dei familiari a incontrare uno dei detenuti e di averlo trovato nudo e senza scarpe. E’ stata lei a dovergli portare qualcosa con cui vestirsi. Anche lei parla di segni di bruciature di sigarette e riferisce che il figlio aveva un piede fratturato.
Mi racconta che, il giorno in cui le famiglie hanno fatto la prima manifestazione, per quanto ha potuto poi apprendere dal figlio, il capo del reparto, Yousef Ebouazizi, su ordine del direttore della prigione, Mustapha Hajli, lo ha ammanettato ad un frigorifero tutto nudo e a bassa temperatura per 3 ore.
Dopo diverse manifestazioni fatte dai familiari e scioperi della fame dei detenuti, sono riusciti infine ad ottenere migliori condizioni di detenzione e di visita, attualmente due ore alla settimana, col diritto di portare cibo e medicinali ai detenuti.
Conclude dicendo che la loro unica richiesta è che i detenuti siano sottoposti a un processo equo dinanzi a un Tribunale civile, e che siano liberati se riconosciuti innocenti.
4. Taher Ezawi è il fratello di Elhoussin Ezawi di 37 anni (numero di arresto 62). Mi dice che ha potuto incontrare suo fratello solo nell’aprile 2011, a distanza di sette mesi dall’arresto. Ma il racconto delle torture è raccapricciante: il fratello recava tracce di bruciature di sigarette, ferite alla testa e, inoltre ha raccontato di essere stato stuprato con un bastone e che gli erano state strappate le unghie. “E dire – commenta – che era componente del comitato per il dialogo con le Autorità nel campo di Gdeim Izik”.
Quando lo ha incontrato la prima volta, lo ha trovato depresso e scoraggiato. Ultimamente gli è parso più forte e motivato.
5. Salka Elmoussawi è la suocera di Mohamed Khonabobit, di anni 31 (numero arresto 339). Mi dice che lei lo ha incontrato solo 1 mese e mezzo dopo l’arresto, mentre sua figlia, la moglie del detenuto, Moulla Belkhir, gli aveva fatto visita già in precedenza. La figlia le ha riferito di aver riscontrato che il marito aveva lividi sulle gambe e sulle spalle. Attualmente ha problemi alla colonna vertebrale in quanto durante gli interrogatori, mentre era ammanettato con le braccia dietro alla schiena, i poliziotti gli hanno sollevato le braccia fino alla testa, provocandogli delle fratture. Mi dice che, il giorno dell’arresto del genero, sua moglie incinta ha abortito. Mi dice che lei e sua figlia hanno sporto denunce, descrivendo episodi e indicando i nomi dei responsabili delle torture, senza tuttavia alcun esito.
6. Hallab Fatma è la madre di Elbakay Elaarabi, di anni 36 (numero di arresto 578). E’ stato l’ultimo ad essere arrestato, il 9 settembre 2012, dopo due anni dai fatti. In tutto questo tempo ha vissuto a Dakhla, dove faceva il tassista. La madre mi dice di averlo visitato ieri, era in isolamento, nudo e senza coperte, senza niente da mangiare. Soffre di emorroidi e non riesce a dormire. Ha raccontato alla madre di essere stato torturato per sei giorni e che ha firmato il verbale di interrogatorio senza leggere che cosa vi stava scritto.
7. Mariane Laaroussi è la sorella di Abdeljalil Laaroussi, di anni 34 (numero di arresto 46). Ha raccontato alla sorella di essere stato trattenuto per cinque giorni (e cinque notti) nei locali della Gendarmeria di Laayoune e di essere stato sottoposto a tutte le possibili torture: bruciature di sigarette, sale in bocca, stupro col bastone ecc.
Estratto dalla denuncia di Claude Mangin (moglie del detenuto Ennaama Asfari) in data 1.5.2012
(…)
- 7 novembre 2010, mio marito è stato arrestato il 7 novembre 2010, il giorno prima dello smantellamento del Campo della Libertà e della Dignità di Gdeim Izik da parte delle Forze Armate Reali. Egli sapeva di essere ricercato dalle autorità marocchine a causa dell’attività che aveva svolto nel campo sorto più di un mese prima a 12 km da El Ayoun, la capitale del Sahara Occidentale. A partire dal 10 ottobre, più di 20.000 saharawi hanno abbandonato le loro case in un vero e proprio esodo interno per segnalare il proprio dissenso nei confronti della politica sociale del Marocco nei loro confronti. Hanno vissuto nel campo in gruppi familiari e pacificamente in 8.000 tende, riscoprendo le loro abitudini di vita nomade e organizzandosi in modo autonomo.
Naama era la persona che presentava il campo e il suo significato ai visitatori stranieri e ai giornalisti venuti a visitarlo. Domenica 7 novembre egli si era recato a El Ayoun per accogliere Jean Paul Lecoq, deputato francese di Seine Maritime e Marie Thérèse Marchand, che dovevano giungere alle ore 1.00 del mattino all’aeroporto per manifestare la loro solidarietà con questa azione di un’ampiezza senza precedenti. Quello stesso giorno è stato avvicinato per due volte da emissari del governo marocchino in borghese che gli hanno chiesto di fare in modo che i saharawi lasciassero l’accampamento. Naama ha risposto loro che non era in suo potere fare questo.
Alle ore 20.00 (ora francese), ho ricevuto una telefonata da Naama che mi ha comunicato il suo nuovo numero di telefono, giacché il vecchio numero era oramai troppo conosciuto dai servizi marocchini, perché lo girassi agli amici che stava attendendo. Mi ha anche detto che la casa dove si trovava era circondata e che si aspettava di essere arrestato. Qualche minuto più tardi mi ha telefonato un’amica per chiedermi il numero di Naama, aveva sentito parlare di un assalto imminente delle forze marocchine al campo e voleva parlare con lui. Io le ho comunicato il nuovo numero ma poco dopo lei mi ha richiamato per avvertirmi che non era riuscita a raggiungerlo. Dunque sono in grado di dire che l’arresto di Naama è avvenuto in questo momento.
Infatti, per quanto ho appreso dalla famiglia Selmani, che abita nel quartiere Hay Alhajari e che lo ospitava, tra le ore 18.00 e le ore 19.00 sono sopraggiunte decine di auto delle forze di polizia in borghese e in divisa, dei Servizi di informazione, della DST e dei gruppi di intervento speciale. Tutte le strade che portano a questo quartiere sono state bloccate dalla polizia. All’interno dell’abitazione questi hanno picchiato Naama che era disarmato, i suoi occhiali sono stati distrutti – segnalo che non vede nulla da un occhio ed ha solo due decimi all’altro - fino a quando non è caduto svenuto. Lo hanno allora preso e condotto in un luogo sconosciuto.
“Ho gli occhi bendati e le mani ammanettate continuamente da una settimana. Per sei giorni non mi hanno dato niente da mangiare. Siccome le mie mani erano legate, mi versavano qualche goccia d’acqua o di latte in bocca, rovesciando il resto sui miei abiti. Non mi hanno lasciato dormire né distendermi, sono stato costretto a stare tutto il tempo in ginocchio. Sono stato torturato il primo giorno dalla Polizia ma non dalla Gendarmeria che mi ha invece pestato. Da domenica sera 7 novembre a martedì 9 novembre, alle 3 del mattino, sono stato al Commissariato di Polizia, quindi sono stato trasferito al Centro della Gendarmeria Reale fino a venerdì 12 novembre alle ore 5.00.
Sono stato condotto al Tribunale di El Ayoun dove non sono stato presentato né al giudice né al procuratore. Ho solo avuto un incontro con gli avvocati. Successivamente sono stato condotto alla Gendarmeria. Con altre 5 persone, alle 17.00, ci hanno condotto con un furgone all’aeroporto e siamo saliti su un aereo militare. Il volo si è svolto in condizioni particolarmente umilianti, io ero disteso per terra e durante tutto il viaggio gli accompagnatori hanno camminato sul mio corpo e sulla testa sia con gli stivali sia a piedi nudi che puzzavano molto. Siamo arrivati a Rabat alle ore 20.00. Siamo stati condotti in auto al Tribunale Militare. Davanti all’ufficio del Giudice siamo stati pestati e quando sono comparso davanti al giudice istruttore militare a mezzogiorno ancora il mio viso era sanguinante. Siamo stati interrogati uno alla volta. Il giudice ha deciso di trasferirci alla Prigione 2 di Salé, ma non ce l’ha comunicato. All’arrivo alla prigione, ci hanno lasciato in cortile, ammanettati alle sbarre dei cancelli direttamente a terra, senza coperte e abbiamo passato la notte sempre con lo stesso vestito. Tra le 11.00 e le 12.00 siamo stati trasferiti in celle singole, dove siamo restati fino al 9 dicembre senza alcun contatto con l’esterno, senza sapere dove eravamo” (testimonianza di Naama Asfari, raccolta da Claude Mangin)
Siamo restati sei giorni senza notizie di lui, assai inquieti tenuto conto della violenza usata dalle forze marocchine contro i Saharawi nel corso di tutta la settimana successiva allo smantellamento di Gdeim Izik, con centinaia di arresti, molte sparizioni forzate e i feriti cui era vietato di recarsi in ospedale per essere curati (cfr. Rapporti delle associazioni saharawi e marocchine per la difesa dei diritti umani).
Secondo gli avvocati dei militanti, Naama è stato visto con alcuni suoi compagni al Tribunale di El Ayoun la mattina presto del 12 novembre, in calzoncini, a torso nudo, pieno di lividi su tutto il corpo, mentre il procuratore gridava ai quattro venti che sarebbe stato trasferito con 5 compagni al Tribunale militare di Rabat senza altra forma di processo. Domenica 14 novembre, ho ricevuto una telefonata dallo zio di Naama che mi informava che uno dei suoi amici detenuti a Salé aveva sentito dire che Naama e i suoi compagni si trovavano alla prigione di Salé. Le notizie seguenti mi sono state riferite dalla prima famiglia che è stata autorizzata a rendere visita al figlio il 5 dicembre 2010. Bisogna sottolineare che mai né io, né la famiglia di origine, né lui stesso siamo stati informati di quale fosse la prigione marocchina nella quale era detenuto! Inoltre, per tutto questo periodo di quasi un mese, è stato sempre con gli occhi bendati!
Mi sono recata in Marocco lunedì 6 dicembre. Martedì 7 era giorno festivo, è stato dunque l’8 che mi sono presentata al giudice istruttore militare, il colonnello Elbaquali. Mi ha detto di ritornare il giorno successivo, giovedì 9/12, quando mi ha finalmente autorizzato a incontrare mio marito. Sono andata alla prigione di Salé e l’ho potuto vedere per qualche minuto dietro 2 file di grate distanti un metro l’una dall’altra, alla presenza di due guardie che gridavano. Naama era in penombra, senza occhiali, le mani dietro la schiena sicuramente ammanettate, lo sguardo grave senza sorriso. Sono stata io a rivelargli il luogo dove era detenuto e il nome di quelli che erano stati arrestati dopo di lui (il mio rapporto su questa visita è disponibile).
Dopo 38 giorni di sciopero della fame cominciato il 31 ottobre 2011, mio marito e gli altri 22 prigionieri politici saharawi hanno ottenuto, dopo un negoziato con il CNDH, Conseil National des Droits de l’Homme, l’assicurazione di un processo rapido alla presenza di osservatori internazionali. Il 5 gennaio 2012 gli avvocati sono stati informati che il processo avrebbe avuto inizio il 13 gennaio 2012, ma il 12 gennaio hanno avuto notizia che era stato rinviato sine die.
Il 14 marzo 2012, il giudice istruttore militare ha reso loro visita. Non ha potuto rispondere sul tema della loro situazione giuridica totalmente illegale. Ha solo detto che il loro dossier era un dossier di Stato!
Il 7 maggio 2012 saranno 18 mesi che mio marito è detenuto in modo arbitrario, perfino secondo il diritto marocchino che stabilisce che la detenzione preventiva non può superare i 12 mesi.
(…)
Il 16 aprile 2012 sono stata ricevuta dal Procuratore del Re presso il Tribunale Militare, il Colonnello Ben Youssef Khlifi, che non mi ha dato risposta quanto alla data del processo. Mi ha detto che il dossier era nelle mani di Sua Maestà, che era un dossier delicato, nazionale e anche internazionale, e che egli nutriva la speranza che si sarebbe trovata una soluzione diversa da un processo. Infatti mi ha detto che per fare un processo ci vogliono delle prove! Ho anche incontrato il giudice Hicham Belaoui al Ministero della Giustizia- Direzione ricorsi e grazie – che mi ha detto che il dossier non era di competenza del Ministero della Giustizia ma del Ministero della Difesa. Ho anche incontrato il segretario generale del CNDH che non ha risposto circa la data del processo, ma che ha riconosciuto che Naama era stato arrestato il giorno precedente lo smantellamento del campo di Gdeim Izik.
(…)
La moglie di Ennama Asfari, professoressa di storia e geografia
Mangin-Asfari Claude Marguerite, 36 rue Barbés 94200 Ivry sur Seine (France)
Tel. 0033681324855 Questo indirizzo email è protetto dagli spambots. È necessario abilitare JavaScript per vederlo.
I fatti di Gdeim Izik raccontati da Ossin:
1. L'accampamento della Dignità
2. L'esercito marocchino uccide un bambino
3. Ultime notizie sull'accampamento della Dignità
4. Gdeim Izik, indipendenza o protesta sociale?
5. Lettere dal Sahara
6. Massacro a Laayoune
7. Fecero un deserto e lo chiamarono pace
8. Il Marocco riconosce che 163 Saharawi sono stati arrestati a Laatoune
9. Messaggini da Laayoune
10. Il Marocco sotto accusa al Consiglio di Sicurezza
11. Io sottoscritto Manu Chao, di professione cantante
12. Il Marocco reprime in Sahara Occidentale. L'Onu chiude gli occhi
13. La Francia pone il veto alla condanna del Marocco
14. Vuoi vedere che adesso le vittime sono i soldati marocchini?
15. Smentita la versione ufficiale del Governo marocchino
16. Il Parlamento europeo condanna il Marocco
17. Impedito l'ingresso a Laayoune di osservatori indipendenti
18. Vietato l'ingresso a Laayoune al giornalista Ali Lmrabet
19. La stampa internazionale nel mirino di Mohammed VI
21. Missione a Laayoune