In attesa di un processo
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Rinviato a data da stabilirsi il processo contro i 24 Saharawi per i fatti di Gdeim Izik
In attesa di un processo
Nicola Quatrano
Il processo contro i 24 militanti saharawi accusati di associazione per delinquere e plurimi omicidi ai danni delle forze dell’ordine marocchine non è cominciato, come previsto, il 24 ottobre dinanzi il Tribunale Militare di Rabat. Il giorno prima, una telefonata del vice procuratore agli avvocati della difesa ha reso noto un ulteriore rinvio a data da stabilirsi (esattamente come era accaduto in occasione della prima udienza del 13 gennaio 2012). Motivo ufficiale: la necessità per la Corte di studiare il dossier di Elbakay Elaarabi, il cui arresto è recentissimo (9 settembre 2012) e la cui posizione è stata riunita a quella degli altri imputati.
Motivo probabile: la concomitanza con la visita, programmata proprio nei giorni immediatamente successivi al 24 ottobre, dell’inviato speciale dell’ONU per il Sahara Occidentale, Christopher Ross, nei territori occupati. Il Marocco non ama Christopher Ross, di cui ha già cercato invano di ottenere la sostituzione, perché lo considera troppo sensibile alle tesi del Polisario. Si capisce che non abbia interesse a celebrare un processo di ampia risonanza mediatica contro dei militanti saharawi, proprio in concomitanza con la visita nel Sahara Occidentale del diplomatico USA, inviato speciale di Ban ki-moon, che già si è dimostrato sensibile al tema del rispetto dei diritti umani nei territori occupati.
E la Giustizia marocchina è pronta a obbedire – come sempre – alle esigenze del Makhzen (il potere reale marocchino), rinviando con una scusa qualsiasi la celebrazione del processo.
Non si conosce ancora la data della prossima udienza. Inutile è stata la manifestazione dei familiari dei detenuti davanti alla sede del Tribunale Militare di Rabat, inutile il tentativo degli osservatori internazionali (di Spagna, Italia, Francia e Belgio) di farsi ricevere dal Presidente del Tribunale o dal Procuratore. Saremo informati, quando non si sa.
Una Giustizia a comando
Abbiamo già avuto modo di sperimentare il completo assoggettamento della Giustizia marocchina al Governo (o per meglio dire alla volontà del sovrano, che detiene il vero potere assoluto in questo paese), nella vicenda dei sette saharawi processati a Casablanca per attentato alla sicurezza interna dello Stato. Il loro arresto era stato preceduto da una campagna mediatica ossessiva sui giornali marocchini (anch’essi completamente proni al Potere reale), che reclamava l’arresto dei sette e la loro condanna ad una pena esemplare.
Il loro arresto, avvenuto il giorno 8 ottobre 2009 all’aeroporto di Casablanca, nello stesso aereo che li aveva riportati in Marocco da Algeri, era dunque un arresto annunciato. Lo stesso Re Mohammed VI, il 6 novembre successivo, nel corso di un discorso per il 34° anniversario della Marcia Verde, ha accennato alla vicenda, solennemente proclamando che “è finito il tempo del doppio gioco e della debolezza… O si è patrioti o si è traditori. Non c’è via di mezzo tra patriottismo e tradimento”.
Di fronte a questa precisa volontà reale, la Giustizia marocchina ha obbedito agli ordini ed ha istruito un processo-farsa contro delle persone, la cui unica colpa era quella di avere manifestato le loro opinioni.
Le udienze del processo hanno avuto una ampia eco mediatica sui giornali di regime e si sono registrati episodi incredibili, come le manifestazioni contro gli imputati e le aggressioni contro gli osservatori internazionali, avvenute nella stessa aula di udienza, da parte di avvocati in toga e di sottoproletari prezzolati. E’ stata la prima apparizione dei “baltagiya”, che sono squadracce di poveracci pagati per manifestare il proprio sostegno al Re e che saranno largamente utilizzati poi contro i militanti del movimento del 20 febbraio, l’effimero movimento della “primavera marocchina”.
Ma il Potere marocchino non aveva la forza politica per condannare questi sette militanti saharawi, soprattutto dopo lo smacco subito nel suo incredibile tentativo di negare l’ingresso in Sahara Occidentale ad Aminatou Haidar. Così, ad un certo punto, quando già il Tribunale si era ritirato in camera di consiglio per deliberare il verdetto, il processo è stato rinviato a data da stabilirsi. Gli imputati sono stati scarcerati e il processo non è mai più ripreso.
Questo processo che non si conclude con una sentenza, di condanna o di assoluzione che dir si voglia, costituisce la dimostrazione decisiva, se ancora ve ne fosse bisogno, del fatto che il Marocco non è uno stato di diritto.
I fatti di Gdeim Izik
Ma torniamo al processo di Rabat, per i fatti che hanno seguito lo smantellamento del campo di Gdeim Izik. I lettori di Ossin li conoscono, mi è sufficiente quindi ricordare per grandi linee che, a partire dal 9 ottobre 2010, decine di migliaia di cittadini saharawi si sono autoesiliati a qualche chilometro da Layoune, capitale del territorio non autonomo del Sahara Occidentale, per protestare contro le condizioni di emarginazione e di sofferenza sociale cui sono sottoposti. In pochi giorni sono state erette nel campo migliaia di jaima (tende) e si è realizzata quella che Noam Chomsky ha considerato come una delle prime espressioni del movimento di protesta che avrebbe nei mesi successivi scosso tutto il mondo arabo, la cosiddetta “primavera araba”.
All’alba del giorno 8 novembre, dopo un mese di proteste pacifiche, l’esercito e le forze speciali marocchine sono intervenute in forza a smantellare il campo. La reazione degli occupanti è stata rabbiosa. Sono seguiti scontri, che hanno interessato anche la città di Laayoune, nel corso dei quali vi sarebbero stati dei morti, oltre a molti feriti.
Il vero bilancio degli scontri è probabilmente impossibile da stabilire: le cifre ufficiali divulgate dalle Autorità marocchine, infatti, parlano di decine di morti e centinaia di feriti tra le forze dell’ordine, anche se nel concreto è stata resa pubblica l’identità di una sola vittima, quella del caporale Aljatib Bint Ihalib. Dal canto loro, gli attivisti saharawi hanno contestato l’attendibilità della versione ufficiale delle autorità marocchine, denunciando invece l’uccisione e la scomparsa di decine di loro compagni.
Nel contrasto insanabile tra queste due versioni dei fatti, non si può nemmeno fare ricorso a fonti indipendenti, perché il governo del Marocco ha impedito l’ingresso nei territori agli osservatori e ai giornalisti indipendenti. Il Marocco ha anche rifiutato decisamente l’apertura di una inchiesta internazionale (spalleggiato, come sempre, dalla Francia, che ha posto il veto ad una risoluzione in questo senso che avrebbe potuto essere approvata dal Consiglio di sicurezza dell’ONU).
La gran parte degli imputati nel processo per i fatti di Gdeim Izik è stata arrestata tra il novembre e il dicembre 2010. A distanza di due anni, nonostante siano tutti in custodia preventiva, tranne uno che è stato scarcerato per gravo motivi di salute, essi non sono stati ancora processati.
E’ possibile anche che il Potere marocchino non abbia proprio voglia di celebrarlo questo processo, che non si senta abbastanza forte politicamente per sostenere, dinanzi alla comunità internazionale, una sentenza di condanna a pene molto pesanti. Ricordiamo che la pena massima prevista è infatti la pena di morte.
Dunque, anche alla luce dell’esperienza dei precedenti processi, non si può escludere che anche il processo di Rabat possa trovare una soluzione “politica”, che veda la scarcerazione degli imputati e il seppellimento del dossier in qualche cassetto sperduto del Tribunale militare di Rabat.
Una prova traballante
Se quello descritto è il contesto “politico” in cui si svolge il procedimento a carico del 24 imputati saharawi, le considerazioni di ordine più strettamente giuridico non sono più rassicuranti:
1. Gli imputati sono di fatto accusati di omicidi plurimi in danno di appartenenti alle forze dell’ordine marocchine, omicidi che sarebbero stati commessi nel corso delle violenze seguite allo smantellamento del campo di Gdeim Izik. Ma, formalmente, essi non sono accusati di omicidio, bensì di associazione per delinquere (art. 293 codice penale) e di violenze contro le forze dell’ordine, violenze poi sfociate in plurimi omicidi (art. 267 codice penale). Perché questa scelta? Perché non sono stati accusati direttamente di omicidio? Sembra evidente che lo scopo sia stato quello di rendere più facile per la Pubblica Accusa la prova della loro colpevolezza. In virtù del fatto che i delitti contestati sono quelli di generiche violenze contro i militari e di associazione per delinquere, la Pubblica Accusa non è costretta a provare la responsabilità di ciascun imputato in relazione a ciascuno degli omicidi contestati. Le è consentito di provare la responsabilità di tutti gli imputati sulla base della sola dimostrazione che essi si sono accordati per commettere le violenze ai danni delle forze dell’ordine, senza escludere il ricorso all’omicidio. Una volta provato questo accordo, tutti saranno colpevoli, a prescindere dal comportamento che ciascuno di essi ha tenuto durante i disordini. Sarà possibile considerare colpevole anche il presunto capo della banda, Ennaama Asfari, che pure era stato arrestato nella serata precedente allo smantellamento del campo e, dunque, non ha potuto in alcun modo partecipare ai disordini.
2. Nonostante questo escamotage diretto a facilitare il lavoro della Pubblica Accusa, la prova, per quanto emerge dall’atto di accusa, resta comunque assai carente. Occorre infatti sottolineare che, nonostante si contestino plurimi omicidi, nell’atto di accusa non vengono nemmeno menzionati i nomi delle vittime. L’unica perizia autoptica allegata agli atti (e dunque l’unica vittima di cui si conosca il nome e della quale vi sia almeno la prova della morte) è quella del caporale Aljatib Bint Ihalib.
3. Le prove di cui si parla nell’atto di accusa si riducono alle sole confessioni degli imputati, rese all’interno dei locali della Polizia Giudiziaria in cui erano trattenuti in stato di arresto, in assenza del difensore. Circostanze che rendono plausibili le denunce di tortura e maltrattamenti finalizzati ad estorcere le confessioni, che sono state formulate da diversi familiari degli accusati e che rendono assai poco convincenti le confessioni stesse. Nell’atto di accusa non figura alcuna testimonianza contro gli imputati, nemmeno dei militari che hanno partecipato all’azione, nemmeno delle vittime dei tanti ferimenti di cui si parla.
4. Questa carenza probatoria contrasta fortemente con la gravità delle accuse. La pena massima prevista per i fatti contestati agli imputati, in particolare quella del delitto di cui all’art. 267 del codice penale, è infatti la pena di morte, che non è stata mai abolita in Marocco, anche se da anni vige una moratoria e le pene capitali non vengono di fatto eseguite.
5. Altra questione attiene allo “scopo specifico” della associazione di delinquenti realizzata dagli accusati: secondo la Pubblica Accusa, infatti, tale associazione avrebbe avuto lo scopo specifico di commettere delitti contro la persona e la proprietà. Ma bisognava anche fare in modo che l’attività di questi malfattori non si confondesse con quella di tutti i ventimila occupanti di Gdeim Izik, perché considerarli tutti come oppositori del regime marocchino avrebbe significato dover riconoscere che l’idea indipendentista nel Sahara Occidentale ha basi di massa, cosa che il regime marocchino ha sempre negato. Ed ecco che la Pubblica Accusa ha risolto il problema, montando la incredibile storia che una trentina di persone avrebbero sequestrato e tenuto in ostaggio circa 20.000 persone e che l’intervento delle forze di sicurezza per smantellare il campo era diretto a “liberare” queste persone. E’ la tesi paradossale che già il Marocco ha usato in riferimento ai campi di Tindouf, dove circa 300.000 persone sarebbero sequestrate e tenute con la forza da oltre 35 anni da qualche centinaio di quadri del Polisario.
Ma la questione che suscita maggiori perplessità, alla luce della giurisprudenza internazionale è quella della estensione della giurisdizione penale militare alle condotte dei civili. Essa è sancita nel processo in esame dall’art. 3 della Legge sulla giustizia militare marocchina, in quanto le vittime dei fatti sono appartenenti alle forze armate reali. Tuttavia numerose pronunce del Comitato per i Diritti Umani delle Nazioni Unite, della Corte Americana per i Diritti dell’Uomo e della Corte Europea per i Diritti Umani rilevano come le corti militari non garantiscano le garanzie procedurali fondamentali. In particolare, come statuito a livello universale da parte del Comitato per i Diritti Umani dell’ONU, consentire ai tribunali militari di processare civili solleva seri dubbi in relazione ad un’equa, indipendente e imparziale amministrazione della giustizia.[1] Estendere pertanto la giurisdizione militare ai civili costituisce una violazione del diritto fondamentale di ogni individuo ad essere giudicato da un giudice precostituito per legge, che sia competente, imparziale ed indipendente.[2] Va evidenziato che la Corte Europea per i Diritti dell’Uomo ha, in diverse occasioni, ritenuto che un civile portato dinnanzi ad un tribunale penale militare, per presunti crimini commessi contro le forze armate, possa avere il legittimo timore che tale giurisdizione non sia imparziale ed indipendente. Questo vale anche nei casi in cui un tribunale sia composto, anche solo in parte, da giudici membri delle forze armate.
Ritengo quindi che il fatto che questo processo si svolga dinanzi a un Tribunale Militare sia la vera questione da dover sollevare, anche dinanzi a organismi internazionali come il Parlamento Europeo, trattandosi di una grave violazione dei diritti umani, al cui rispetto il Marocco è impegnato dalla diverse convenzioni commerciali che ha stipulato con l’Unione Europea.
[1] Human Rights Committee, Administration of Justice, General Comment No 13 (UN Doc HRI/GEN/1/REV.1 (1984))
[2] Durand and Ugarte v Peru [2000] IACHR (16 August 2000), para 117.