Il conflitto del Sahara ai margini delle dinamiche regionali
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Orient XXI, 23 aprile 2015 (trad. ossin)
Il conflitto del Sahara ai margini delle dinamiche regionali
Khadija Mohsen-Finan
Pubblichiamo questo articolo, che non condividiamo quasi in niente, perché ci pare comunque significativo di una evoluzione. Esso, pur presentandosi come obiettivo ed equanime rispetto alle parti in conflitto, milita visibilmente per le ragioni del Marocco. Non deve sfuggire infatti che, pur pretendendo di dare ascolto ai “poco ascoltati” Saharawi (che non si riconoscerebbero più nel Fronte Polisario), non è ad essi che l’autrice dà la parola per spiegare cosa pensino, ma piuttosto a un marocchino, Omar Brouksy, cui si affida il compito di “rappresentare” le aspirazioni e i bisogno di un popolo che il suo paese opprime da quaranta anni.
E naturalmente Omar Brousky (e l’autrice) spiegano che tutto deve cambiare, perché le posizioni delle parti in conflitto hanno prodotto un’insopportabile situazione di stallo… E’ una presa d’atto, dunque, del fallimento della politica marocchina (in questo senso l’articolo ci pare interessante), che tenta disperatamente, però, di trascinare in un medesimo giudizio negativo anche la politica del Fronte Polisario.
E’ un approccio che non può funzionare, e lo dimostra la fumosità delle proposte messe in campo: una soluzione che soddisfi tutti e che non dia il senso della capitolazione a nessuna delle parti in causa… un programma tanto vasto da sembrare impossibile.
Ma il colmo della fumosità e, ci permettiamo dire, della manipolazione è nell’appello finale dell’autrice; esso si rivolge a Stati (come la Francia, la Spagna e gli Stati Uniti) che hanno sempre sostenuto le posizioni marocchine, e non per esempio all’Organizzazione per l’Unità africana (che pure avrebbe qualcosa da dire) e chiede di assumere una iniziativa che tenga finalmente conto dei soggetti maggiormente interessati, vale a dire i Saharawi. E’ un appello in teoria giusto, ma vuoto di contenuti, perché non spiega come si debba tenere conto dei Saharawi, come si debba dare loro finalmente voce.
L’autrice non lo dice, ma noi sappiamo che vi è un solo modo ed è quello dell’autodeterminazione (già in precedenza bollato come “ideologico” dall’autrice stessa). E cos’altro, sennò? Alla fine, dunque, il senso dell’articolo (e contro le sue evidenti intenzioni) finisce col dare ragione al Fronte Polisario, che da oltre 40 anni si batte per il diritto all’autodeterminazione del popolo saharawi (ossin)
La nuova situazione regionale, segnata da una parte dalla violenza dei gruppi jihadisti e, dall’altra, da nuove forme di rivendicazione dei giovani Saharawi, può contribuire a smuovere il conflitto del Sahara dall’immobilismo? E’ indispensabile un compromesso tra soggetti che avrebbero tutto da guadagnare a privilegiare l’integrazione maghrebina e la sicurezza della regione, rispetto a posizioni di principio che appaiono anacronistici. Gli Stati dell’Europa del sud, soprattutto la Francia e la Spagna, potrebbero essere dei preziosi facilitatori per la soluzione della crisi.
A metà degli anni 1970, il precipitoso abbandono da parte della Spagna della sua ex colonia del Sahara provoca la nascita di un conflitto che oppone il Marocco a un gruppo di indipendentisti che aveva creato, nel 1973, il Fronte Polisario. Questo nuovo attore regionale viene aiutato dapprima dalla Libia, poi dall’Algeria, quanto disconosciuto dal Marocco. Il Fronte Polisario si esilia a Tindouf, in Algeria, e crea uno “Stato” che chiama Repubblica araba saharawi democratica (RASD), autoproclamatosi nel 1976.
Questa guerra del Sahara vede la luce in un contesto segnato dalla rivalità tra Algeri e Rabat. Il contenzioso riguarda inizialmente le linee di frontiera. Ma i due grandi paesi del Maghreb, che si disputano anche l’egemonia sulla regione, hanno utilizzato il conflitto saharawi per consolidare i loro giovani Stati indipendenti. La Mauritania ha fatto lo stesso per imporsi nella regione, ma poi si è ritirata dal conflitto nel 1979.
Per quanto ufficialmente il conflitto opponga il Marocco e il Fronte Polisario, le cui forze militari sono assolutamente sproporzionate, la sua lunga durata dipende essenzialmente dalla rivalità tra Algeri e Rabat, che non si è riusciti a superare dopo più di mezzo secolo dalle indipendenze.
Nel 1975, il Marocco è alle prese con enormi difficoltà interne da un decennio: rivolte represse dall’esercito, stato di emergenza, scioglimento della Camera dei rappresentanti, Costituzione respinta dai partiti politici e due colpi di Stato tentati dall’esercito contro la persona del re nel 1971 e 1972. Da questo punto di vista, annunciando un progetto di referendum finalizzato a decolonizzare il Sahara spagnolo sotto la sua egida, la Spagna dà alla fragile monarchia marocchina l’occasione di creare consenso attorno ad essa, lanciando l’operazione di “recupero delle province sahariane”.
Entra in scena l’Algeria
L’impegno algerino in questo conflitto è dovuto ad altri fattori. In un primo tempo, il presidente Houari Boumediene esita a sostenere il Fronte Polisario, privilegiando la conservazione del clima di intesa che si era finalmente instaurato col Marocco dopo la “guerra delle sabbie” del 1963 (1). Ma due correnti di pensiero presenti al livello di classe politica sostengono un intervento algerino in appoggio al Fronte Polisario. Per primi i militari, che pensano che alcuna concessione debba essere fatta alla monarchia marocchina. Poi gli economisti, che hanno sviluppato l’industria algerina nel corso di quegli anni e considerano le relazioni regionali in termini di mercati potenziali.
A queste considerazione di ordine strategico e politico, l’Algeria aggiunge una giustificazione di ordine ideologico: la fedeltà ai suoi principi rivoluzionari. Ufficialmente il governo ha avviato una politica di solidarietà con le lotte anticolonialiste, per restare fedele ai valori della propria guerra di decolonizzazione e in nome del principio consacrato dall’Organizzazione dell’unità africana (OUA): il diritto dei popoli a disporre di se stessi.
A Rabat come ad Algeri, la politica sahariana viene definita secondo principi considerati sacri: integrità territoriale da una parte (Marocco), diritto all’autodeterminazione dall’altra (Algeria). In se stessi questi due principi non hanno nulla di sacro ovviamente, giacché nonostante tutto il Marocco ha riconosciuto l’esistenza della Mauritania nel 1970, dopo averla a lungo negata in nome del Grande Marocco (2), ma essi sono stati sacralizzati ad arte da forze politiche che non hanno mai cessato d’essere rivali. Così facendo, i due Stati si impantanano in un impasse, nella misura in cui ogni negoziato diventa impossibile e qualsiasi correttivo a questa politica finisce per essere assimilato a un fallimento nei rapporti col vicino.
Il Marocco lega così il destino del suo trono alla sorte del Sahara, e l’Algeria considera un punto d’onore il continuare a sostenere il Fronte Polisario, qualsiasi sia l’evoluzione della sua politica interna e della sua strategia regionale. Da allora il principale obiettivo di Rabat e di Algeri è il successo della strategia che hanno posto in essere e che resta immutata, al punto da trascurare il carattere di decolonizzazione del conflitto e di dimenticarsi dei protagonisti principali: i Saharawi.
La rivalità tra le due capitali e la sua interazione col conflitto ne hanno largamente determinato la situazione di immobilismo, tanto più che i due governi non concepiscono altro successo in questo dossier del Sahara se non quello della disfatta completa dell’avversario. Tuttavia, dopo quattro decenni, il conflitto non si è ancor risolto né con la vittoria dell’uno, né dell’altro.
La svolta degli anni 1980
Hassan II tenta di modificare i rapporti di forza in favore del suo paese. Se la prosecuzione di questa guerra che ha creato consenso attorno al trono era necessaria per la monarchia, sembra però imporsi una diversa strategia per venire a capo di una guerriglia che, nei primi anni del conflitto, premia il Fronte Polisario. Il Marocco opta allora per un’altra strategia diplomatica e politica. Al summit dell’OUA di Nairobi, nel 1981, il sovrano accetta il principio di autodeterminazione per rompere l’isolamento del suo paese sul piano internazionale. Fa anche costruire diversi muri di difesa per proteggere le zone abitate e ricche di fosfati dalle incursioni dell’avversario. Trasforma così una guerriglia che ha visto prevalere il Fronte Polisario tra il 1975 e il 1979 in una guerra di usura, affidando la soluzione del conflitto al diritto internazionale. Nel 1988, la riconciliazione tra Algeria e Marocco fornisce a Rabat la possibilità di mettere in difficoltà l’avversario, privandolo dei suoi vantaggi tattici sul campo, facendogli concorrenza sul piano diplomatico, tentando si allontanarlo dal suo principale tutore: l’Algeria.
Il Marocco tenta anche di attrarre i Saharawi del Fronte Polisario, offrendo loro delle condizioni materiali assai favorevoli e facendo propaganda del successo politico o sociale di taluni “originari del Sahara”, che presenta come modelli della sua politica di sviluppo e integrazione degli abitanti. Subito dopo la ritirata degli Spagnoli nel 1976, il governo decide di installare in quelle che definisce le “province del sud” una amministrazione strutturata sul modello di quella marocchina. Rabat vi organizza anche le elezioni locali e parlamentari. Estendendo al Sahara la sua amministrazione, organizzandovi le elezioni, esercitando un controllo stretto sulle risorse e la popolazione, il Marocco intende prima di tutto realizzare l’integrazione del territorio e l’assimilazione della sua popolazione al Marocco, per poi ottenere dalla comunità internazionale quella legittimazione che il Fronte Polisario e l’Algeria contestano e che l’ONU non gli riconosce.
Autonomia contro autodeterminazione
Nel settembre 1991, viene dispiegata una missione delle Nazioni Unite “per l’organizzazione di un referendum nel Sahara Occidentale” – la Minurso – per sorvegliare il cessate il fuoco e per organizzare, a partire dal gennaio 1992, un referendum che non si è mai potuto realizzare per mancanza di accordo tra le parti sulla composizione del corpo elettorale. Il processo di pace si insabbia. Per restituirgli il necessario impulso, nel 1997, l’ex segretario di Stato USA James Baker viene nominato inviato speciale del Segretario Generale delle Nazioni Unite in Sahara. Per tre volte, nel 2001, 2002 e 2003, egli propone dei piani per la soluzione della crisi, che vengono respinti. In realtà i protagonisti non sono disposti a trovare nelle proposte di James Baker una ipotesi di soluzione. Tutti restano fermi sulle rispettive posizioni e ricercano la vittoria totale nei confronti dell’avversario.
Poco prima di morire, Hassan II opta per l’autonomia. Suo figlio Mohamed VI, che gli succede nel 1999 adotta l’autonomia come strada di soluzione del conflitto, scartando implicitamente l’opzione della autodeterminazione. Il Marocco che, dal 1966, tergiversava tra autodeterminazione e autonomia, propone ufficialmente di attribuire l’autonomia al Sahara nell’ambito della sovranità del Marocco. Così facendo, esso priva le Nazioni Unite della loro vocazione primaria nel conflitto: quello di organizzare un referendum di autodeterminazione (Alexandra Novosseloff).
Per contro, la fedeltà del Fronte Polisario e dell’Algeria al tema dell’autodeterminazione quale mezzo di soluzione si spiega con ragioni ideologiche che si collocano alla base stessa del loro impegno. Iscrivendo la lotta del Fronte Polisario nel campo della decolonizzazione e sostenendo ufficialmente la volontà di questo popolo a decidere del proprio destino, l’Algeria ha sempre continuato a chiedere questo tipo di soluzione.
Il Fronte Polisario, da parte sua, ha fatto propri tutti i grandi miti della resistenza del terzo mondo, continua a insistere che il Sahara resta un territorio sotto il giogo coloniale e non può abbandonare la propria rivendicazione di autodeterminazione.
Simili atteggiamenti rigidi, diretti ad annientare l’avversario, hanno ossificato il conflitto. I protagonisti considerano ogni nuova proposta, ogni offerta politica come suscettibile di provocare il proprio fallimento. In questa ossessione di vincere, i protagonisti hanno, ciascuno per parte sua, scommesso sull’appoggio di qualche paese o di qualche istituzione internazionale. L’Algeria ha molto sfruttato la propria rendita petrolifera e la propria influenza diplomatica per spingere qualche Stato a riconoscere la RASD. Akram Belkaid sottolinea anche che, “difendendo il referendum, l’Algeria si assicura l’appoggio di diversi giganti africani come la Nigeria o l’Africa del Sud”. Quanto al Marocco, esso si è appoggiato sugli Stati Uniti, sulla Francia e sulla Spagna, per indurre la comunità internazionale a riconoscere il Sahara come parte integrante del suo territorio.
Per ciò che concerne la Francia, il Marocco non ha avuto bisogno di tanti sforzi. Pierre Vermeren sottolinea che “per la Francia, il Sahara rientra nella sovranità storica del Marocco”. Aggiunge inoltre che la Francia, che ha “un potere di legittimazione delle posizioni marocchine” si colloca forse al fianco del Marocco incondizionatamente per “far dimenticare che aveva offerto all’Algeria un territorio sahariano dieci volte più grande”.
Il sostegno spagnolo al Marocco è stato più difficile da ottenere. Secondo Ignacio Cembrero, il governo è sottoposto a contrastanti pressioni, tra un’opinione pubblica assai largamente favorevole ai Saharawi che militano per la propria indipendenza e l’appoggio al Marocco, diventato da un po’ il suo secondo partner commerciale all’esterno dell’Unione Europea. Spiega che, oltre all’economia, il governo marocchino usa altri mezzi per guadagnarsi il sostegno della classe politica spagnola sul dossier del Sahara, aprendo e chiudendo per esempio le valvole della immigrazione clandestina proveniente dall’Africa subsahariana.
Ma i mezzi utilizzati dalla monarchia marocchina per “tenere alla gola” (Ignacio Cembrero) la classe politica spagnola o ancora a convincere le élite francesi a “mantenere il silenzio sulle questioni che spiacciono al Marocco” (Pierre Vermeren), non sembrano molto efficaci. Certo, la sua politica di lobbying, portata avanti senza badare a spese, gli ha consentito di costringere gli Stati Uniti a rinunciare all’idea di ampliare la missione della Minurso al controllo del rispetto dei diritti umani nel 2014, ma l’iniziativa è stata riproposta dall’OUA nel 2015 (3).
Nonostante l’ostinazione di Rabat ad impedire il controllo sulla propria gestione della popolazione e delle risorse naturali nel Sahara che amministra, il segretario generale delle Nazioni Unite reitera regolarmente i propri avvertimenti contro l’uso sproporzionato della forza e lo sfruttamento illegale delle risorse naturali. Il suo ultimo rapporto, datato aprile 2015, denuncia anche la politica del fatto compiuto del Marocco che assimila il Sahara Occidentale al suo territorio nazionale, puntando il dito soprattutto sul Forum di Crans Montana, tenuto a Dakhla dal 12 al 14 marzo 2015, nonostante “lo statuto definitivo del Sahara Occidentale sia ancora oggetto di negoziati sotto l’egida delle Nazioni Unite”.
Le rivendicazioni della giovane generazione
Impegnati in questa lotta di influenza per spingere i paesi terzi a riconoscere la fondatezza della loro rispettiva causa, i protagonisti non hanno accordato l’attenzione necessaria ai cambiamenti che si producono nella regione, contribuendo a modificare la fisionomia del conflitto.
A partire dal 2005, anno della “grande rottura” secondo Omar Brouksy, le forme della rivendicazione mutano. Le giovani generazioni del Sahara sono state toccate dai cambiamenti che il Marocco ha conosciuto alla fine degli anni 1990, in direzione dell’apertura del sistema politico. Se non si riconoscono nel governo marocchino, non si allineano col Fronte Polisario e le loro rivendicazioni hanno acquistato un carattere di cittadinanza, anche se non dimenticano l’autodeterminazione. In tale ambito essi fanno riferimento a un nuovo registro, quello dei diritti umani, delle libertà individuali e politiche e della legalità internazionale. Ben prima del 2011, essi manifestavano e lottavano per il lavoro, la casa, esprimendo un sentimento di ingiustizia per la distribuzione delle ricchezze nel Sahara. Nonostante il carattere sociale ed economico delle loro proteste, le questioni politiche restavano naturalmente latenti. Omar Brouksy spiega che “la combinazione tra la rivendicazione politica e la denuncia delle condizioni socio-economiche è una strategia che segna il discorso protestatario della nuova generazione saharawi. Essa fonda la propria legittimità “ideologica” nelle diseguaglianze sociali, nell’assenza di prospettive per una parte importante della gioventù saharawi e l’inefficacia delle politiche pubbliche varate, dal 2005, dallo Stato marocchino.
Queste richieste di rispetto dei diritti umani, che hanno preceduto le sollevazioni del 2011 sono state anche influenzate dalle primavere arabe. L’effetto emulativo ha influenzato sia le popolazioni del Sahara amministrate dal Marocco che i Saharawi di Tindouf. Nel marzo 2011, l’appello lanciato a Tindouf dal collettivo Giovani rivoluzionari chiedeva riforme e cambiamenti nell’amministrazione dello Stato (RASD) e del potere giudiziario, la fine della corruzione, la riforma del codice elettorale e una partecipazione maggiore dei giovani alla vita politica. Questa manifestazione ha avuto il sostegno del movimento Khat al-Chahid, composta da dissidenti del Fronte Polisario residenti in Spagna.
Questo esempio che si aggiunge ad altre manifestazioni di disobbedienza è rivelatore del fatto che i dispositivi e le istituzioni che oggi rappresentano i Saharawi sono sempre più insufficienti. L’offerta politica del Marocco, come quella del Fronte Polisario, non corrispondono più alle esigenze dei Saharawi. Questi non si riconoscono nel Consiglio reale consultivo per gli affari sahariani (Corcas), istituito da Mohammed VI nel 1992. Ma si riconoscono sempre meno nel Fronte Polisario e cercano altre strade. Come a Tunisi, l’azione politica dei Saharawi viene oramai vissuta e pensata in modo affatto nuovo dai militanti politici e dai cittadini, in un contesto dove l’espressione si libera progressivamente. L’opinione pubblica oramai pesa nell’assunzione delle decisioni. In Sahara come altrove, noi assistiamo ad una nuova concezione della politica che consacra l’emergere dei cittadini. La comunità internazionale non può chiudere gli occhi su quanto accade in questo territorio. Menzionando gli effetti della situazione regionale e internazionale, oltre all’evoluzione interna che indurrà le parti a prendere in conto “il popolo del Sahara”, il rapporto del segretario generale delle Nazioni Unite del 2012 lasciva già trasparire queste novità che si impongono.
Una impossibile via di uscita dalla crisi
Il mutamento che si è prodotto dopo il 2011 deve essere considerato sotto diversi aspetti. Le nuove forme di protesta non sono più le stesse e le società civili pesano attualmente nella assunzione di decisioni politiche, ivi compresi i dossier regionali.
Ma il dato securitario è ugualmente molto importante. I due grandi protagonisti del terrorismo internazionale, che sono Al Qaeda nel Maghreb islamico (Aqmi) e l’organizzazione dello Stato islamico (OEI) operano apertamente in questa regione, dove le frontiere sono porose e dove circolano più o meno liberamente le armi provenienti dalla Libia. Per lottare contro il terrorismo islamista che imperversa su scala internazionale, i paesi della regione devono assolutamente cooperare in modo più efficace, soprattutto in materia di intelligence. E’ necessario quindi chiudere il dossier del Sahara per evitare di fornire a dei Saharawi agguerriti e che controllano bene la zona, l’occasione di andare ad ingrossare i ranghi dei jihadisti. La soluzione della questione del Sahara Occidentale fornirà così alla Francia e alla Spagna un più ampio margine di manovra nella lotta al terrorismo. Pierre Vermeren sottolinea bene che “la cooperazione della Francia con l’Algeria contro il terrorismo ha reso il conflitto del Sahara un fardello ingombrante”.
Nonostante questi imperativi che impongono la fine del conflitto, è difficile prevedere che i negoziati tra le parti possano condurre ad una soluzione produttiva. Il Marocco può difficilmente negoziare quello che considera come suo territorio – un territorio che amministra da diversi decenni. Quanto all’Algeria, la prosecuzione del conflitto a bassa intensità non la colpisce granché. Akram Belkaid spiega che il perdurare di esso si spiega anche con un tenace rancore dei servizi di sicurezza algerini nei confronti delle autorità marocchine per come queste ultime si sono comportate durante la guerra civile (1992-1998). Favorendo il mantenimento dello status quo in Sahara e opponendosi alla riapertura della frontiera terrestre, essi puniscono doppiamente i Marocchini.
Per contro i Saharawi hanno molto da perdere in questa situazione di stallo, ma essi non vengono molto ascoltati. Occorre assolutamente che gli Stati Uniti, la Francia o ancora la Spagna, senza dimenticare l’Unione Europea, si impegnino attivamente nella ricerca di una via di uscita. La loro azione, che ne guadagnerebbe se fosse congiunta, non dovrà consistere nell’appoggiare l’una o l’altra delle parti, ma dovrà influenzare i protagonisti spingendoli verso un compromesso suscettibile di dare soddisfazione ad essi, in modo che nessuno si senta vinto. Ciò comporta un investimento o un nuovo investimento di questi Stati nel conflitto sahariano, perché al momento, come dice Akram Belkaid, si ha l’impressione che la comunità internazionale abbia abbandonato qualsiasi speranza di una soluzione definitiva della questione del Sahara Occidentale.
Parigi e Madrid potrebbero essere dei preziosi facilitatori nella soluzione di un conflitto che evolve a un tiro di sasso da loro, in una ambiente marcato dall’insicurezza e dalla crisi economica. Queste capitali dell’Europa del Sud sono obbligate ad andare oltre le proposte politiche rivelatesi finora inefficaci. Non saranno infatti né il diritto internazionale, né i riferimenti alla storia a risolvere questo conflitto, bensì uno schema di via d’uscita fondato su di un compromesso che non può essere immaginato senza coinvolgimento delle popolazioni coinvolte in prima persona.
Note:
(1) Conflitto militare tra Marocco e Algeria nell’ottobre 1963 motivato da controversie di confine. I combattimenti cessarono il 5 novembre e l’Organizzazione per l’Unità Africana (OUA) ottenne un cessate il fuoco definitivo il 20 febbraio 1964, senza alcuna modifica dei confini.
(2) Alla proclamazione di indipendenza del Marocco, Allal El-Fassi, il leader del partito nazionalista Istiqlal contesta gli accordi di La Celle-Saint Cloud, sostenendo che essi avevano confermato le frontiere coloniali nella regione. Pubblica una cartina del “Grande Marocco” sul giornale del suo partito. Essa estende i confini del Marocco fino a Saint-Louis in Senegal, a sud e a Tindouf a est, includendo la Mauritania, il Sahara spagnolo, la punta nord-ovest del Mali e le enclave di Ifni, Ceuta e Mellila.
(3) Comunicato del Consiglio di pace e sicurezza dell’OUA sul Sahara occidentale, 27 marzo 2015.