Processo a Dakhla
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La missione a Dakhla
Da Laayoune ci rechiamo a Dakhla in macchina, 500 chilometri di deserto. Ben otto posti di blocco, ma i controlli sono abbastanza discreti, addirittura veloci.
Lungo la strada ci fermiamo a vedere gli insediamenti di aspiranti migranti clandestini, che si raggruppano in bidonville fatiscenti lungo la costa, in attesa di cogliere il momento opportuno per prendere il mare e raggiungere con mezzi di fortuna le isole Canarie.
Dakhla è una città molto bella, distesa com’è lungo una penisola che si avventura serpeggiando nell’oceano, e si prepara con tutta evidenza ad un avvenire turistico, oggi ancora limitato a gruppi di surfisti ed agli amanti dei raid automobilistici.
Come Laayoune, anche Dakhla appare molto “marocchinizzata”, ed anzi qui i saharaoui quasi non si vedono, sembrano relegati nei ghetti dei loro quartieri.
Forse anche perché qui il movimento di resistenza all’occupazione sembra piuttosto debole, di fatto riusciamo ad incontrare un solo militante, Oulad Cheikh Mahjoub, intendendoci con lui in uno spagnolo molto approssimativo.
Non è stato semplice raggiungerlo: il 6 gennaio, giorno del nostro arrivo, ci ha fatto sapere di non poterci ricevere, perché la Polizia lo aveva diffidato dall’incontrare chiunque fino al mattino successivo.
Andiamo a trovarlo il 7 gennaio, nel pomeriggio, dopo il processo contro Khadija Abdeddaim.
La sua casa è alla periferia della città, un agglomerato di edifici popolari. Di lato alla porta di ingresso, un’anticamera funziona come una piccola “tienda”: uno scaffale con qualche prodotto e una finestra attraverso la quale si svolge un modesto commercio di articoli casalinghi.
Ed in effetti questo emporio costituisce l’unica attività dalla quale Mahjoub trae il sostentamento per sé e la famiglia, dopo il suo licenziamento nel 1988 per motivi politici.
Ci mostra le foto dell’ultimo pestaggio subito dalla polizia, risale a qualche mese fa, a causa di una manifestazione. Le immagini mostrano i glutei e le cosce completamente violacee ed ecchimosi e contusioni su tutto il corpo.
La storia che ci racconta è la storia di un militante saharaoui per l’indipendenza. Nel 1981 suo fratello, di 20 anni, sparisce per mano della polizia marocchina ed a tutt’oggi non si hanno ancora notizie di lui. Mahjoub a quel tempo aveva solo 16 anni, ma anche lui viene arrestato e trascorre 8 terribili mesi nel famigerato centro di detenzione di Kalaat Maguna.
Nel 1988 lavora a Fes, ma viene licenziato per motivi politici.
Nel 1989 viene fermato a Oujda mentre cercava di raggiungere il Fronte Polisario per unirsi ai fratelli in armi. Trascorre 15 giorni con gli occhi bendati e le mani legate dietro la schiena, poi finalmente in carcere a Casablanca.
Nel 1991 viene liberato.
Nel 2003 gli hanno ritirato il passaporto. Lo ha riottenuto nel 2005.
Attualmente è membro del Comitato contro la tortura di Dakhla.
Ci dice che il movimento di resistenza a Dakhla è debole, i militanti sono pochi e impauriti, molti sono emigrati in Spagna o in Mauritania.
La debolezza del movimento è anche politica. Mentre a Laayoune i militanti saharaoui hanno saputo stabilire buoni rapporti con la popolazione marocchina, affermando sempre che “in Sahara c’è posto per tutti” e che i loro “problemi” sono con il Governo, non con il popolo marocchino, a Dakhla c’è invece una notevole tensione tra le due comunità. Quando ci sono manifestazioni saharaoui, ci dice il nostro interlocutore, la polizia incita i marocchini ad attaccare i manifestanti, dicendo: “Questa terra è marocchina, non lasciatela ai saharaoui”.
Mahjoub dice di essere stato picchiato molte volte dalla polizia, e le foto che ci ha mostrato lo documentano. Una volta lo hanno portato in spiaggia e ridotto a tal punto, che ha dovuto rientrare in città strisciando.
Si scusa per non averci potuto incontrare il giorno prima, dice che la polizia lo ha minacciato di gravi ritorsioni se avesse ricevuto degli stranieri. Noi appunto avremmo voluto incontralo per strada per evitargli problemi, ma lui ha insistito per portarci a casa sua. Non ci spiega la ragione di questa insistenza, preconizza solo che, al nostro allontanarci, la polizia verrà di sicuro a prenderlo per interrogarlo.
Uscendo dalla casa di Mahjoub, veniamo circondati da un gruppo di bambini saharaoui. Li riconosciamo per le loro fattezze fisiche e perché non ci chiedono soldi ma… penne biro. Peccato averne solo una. Il resto del pomeriggio ne abbiamo fatto a meno.
Mustapha Abdeddaim
Attraverso un canale che preferiamo non rivelare, abbiamo avuto una comunicazione con Mustapha Abdeddaim, giornalista saharaoui, collaboratore del quotidiano Al Watan e di altre pubblicazioni, membro dell’Unione dei giornalisti saharaoui, membro del CODESA e militante per l’indipendenza del Sahara Occidentale.
Abdeddaim attualmente è in prigione, condannato a 3 anni e 50.000 dhirams, oltre a dieci anni di interdizione dalla professione giornalistica, dal Tribunale di Guelmin, all’esito di un processo iniquo, nel corso del quale – secondo quanto ci racconta lo stesso Abdeddaim – sono stati utilizzate delle false confessioni e non sarebbe stata data neppure la parola alla difesa.
Mustapha Abdeddaim è stato arrestato il 27.10.2008 ad Assa, dove aveva sventolato una bandiera saharaoui nel corso di una manifestazione.
Lo stesso giorno, a Dakhla, il capo della polizia, un tal Abdallah, si è recato a casa sua per chiedere i documenti alla sorella…
Ma qui occorre fare delle precisazioni, perché lo stesso episodio – che è quello oggetto del processo che siamo venuti ad assistere – ci è stato raccontato in maniera in parte diversa dai nostri vari interlocutori.
Quello che ci ha raccontato Mustapha Abdeddaim:
“Appartengo ad una famiglia di militanti per l’indipendenza del Sahara Occidentale. Quando sono stato arrestato, tutta la mia famiglia è scesa in sciopero della fame.
Lo stesso giorno del mio arresto, il 27.10.2008, il capo della Polizia di Dakhla, un tale Abdallah, si è recato a casa mia e si è fatto consegnare da mia sorella Khadija la carta nazionale. Dopo 4 giorni Khadija si è recata negli uffici di polizia per ritirare il documento. Quando è entrata le hanno riferito che c’era un rapporto che la accusava di avere aggredito il capo della polizia, nel frattempo la insultavano e la accusavano di appartenere ad una famiglia di militanti del Fronte Polisario. L’hanno anche picchiata, tanto da dover essere ricoverata in ospedale.
Mia sorella è madre di tre figli, è funzionaria. Adesso l’hanno licenziata perché ha rifiutato di firmare un documento nel quale avrebbe dovuto dichiarare che lei e la mia famiglia non condividono le mie opinioni politiche”.
Quello che ci ha raccontato Khadija Abdeddaim
La incontriamo il pomeriggio del 6 gennaio, in un caffé di Dakhla. Anche con lei ci sono problemi di comunicazione, perché parla solo un po’ il francese e, per il resto, le sue parole ci sono tradotte da un interprete in uno spagnolo del tutto approssimativo.
Khadija ci racconta di essere stata fermata il 27/10/08, giorno dell’arresto del fratello, e di avere avuto la carta di identità ritirata dalla Polizia. Di essere poi andata nei giorni successivi dalla Polizia per ritirare il documento ma ciò, non è mai stato possibile. Il quarto giorno si è vista accusare di avere picchiato un collaboratore della Polizia nel corso di una rissa, ragione per cui è stata trattenuta in stato di fermo per 24 ore, durante le quali è stata ricoverata per ben due volte all’ospedale essendosi sentita male.
Khadija ci racconta che il processo fino ad ora è sempre rinviato già due volte.
A nostra specifica domanda smentisce di essere stata licenziata, come ha raccontato il fratello: Ci spiega di essere dipendente della Municipalità di Lagouira, ai confini con la Mauritania, e che il suo capo l’ha minacciata di licenziamento se dovesse partecipare a manifestazioni per l’indipendenza o se, nel corso del processo, dovesse gridare davanti al giudice: “Viva Polisario”.
Quello che ci ha raccontato l’avvocato di Khadjia, maitre Tairouze Elbachir, e che risulta dai verbali di polizia.
E’ uno studio molto frequentato quello dell’avvocato Tairouze Elbachir (maitre, come vengono chiamati gli avvocati in Francia e nei paesi francofoni), la mattina lo abbiamo visto assistere la maggior parte degli imputati durante l’udienza.
E’ un saharaoui, ma non è un militante per l’indipendenza. Lo incontriamo il pomeriggio del 7 dicembre alle 18.30, in orario di chiusura del suo studio.
In effetti nella vicenda sono coinvolte due persone, non solo Khadjia, ma anche una vicina e si tratta di un litigio intervenuto tra questa vicina, tale Rkia Garrab ed un pasticciere, tale Hassan Bouna (che Khadjia ci dirà essere un informatore della polizia).
Khadjia sarebbe stata strumentalmente “infilata” in questa vicenda alla quale era estranea, solo per ritorsione nei confronti delle opinioni politiche della famiglia. Secondo la Polzia, infatti, si sarebbe trattato di un malinteso tra un commerciante e due donne (tutti vicini di casa) e che le due donne sarebbero venute alla mani con l’altro.
Khadija sarebbe quindi andata dalla Polizia per sporgere denuncia, ma il commerciante lo aveva fatto prima di lei, ragione per la quale la donna avrebbe aggredito il capo della Polizia. Di qui la denuncianei suoi confronti, dopo un fermo di 24 ore.
L’avvocato ci avverte che potrebbero esservi delle negative conseguenze per la donna in ambito lavorativo.
Chiediamo all’avvocato se a Dakhla siano frequenti i processi politici contro i militanti per l’indipendenza. Ci risponde di no. Quando ci sono manifestazioni politiche – chiarisce – la polizia interviene e la cosa finisce là, poche volte ci sono seguiti giudiziari.
Il processo
Tribunale di prima istanza di Dakhla – 7 gennaio 2009
Osservatori internazionali:
Francesca Doria – avvocato a Napoli
Nicola Quatrano – magistrato a Napoli
Incaricati dalla Amministrazione comunale di Napoli, con lettera di incarico in data 29 dicembre 2008.
Imputate:
Khadija Abdeddaim
Rkia Garrab
Persona offesa:
Hassan Bouna
Capi di imputazione:
art. 268 codice penale – oltraggio e violenza a funzionario pubblico. Pena prevista: da un mese ad un anno di reclusione e da 250 a 5000 dhirams di ammenda.
L’appuntamento con Khadija è alle 8,45 davanti al piccolo edificio che ospita il Tribunale. Non c’è gente, a differenza di quanto capita sempre di vedere in occasione dello svolgimento di processi contro militanti dell’intifada. Khadija ci dice che i saharaoui di Dakhla hanno molta paura della polizia.
Incontriamo l’avvocato Tairouze Elbachir, ma è ancora presto per l’udienza e ci aggiorniamo di lì a una mezzora. Tempo sufficiente per prendere un the in un delizioso caffé con terrazza sul mare.
In compagnia dell’avvocato Tairouze, incontriamo il presidente del Tribunale, Jetto Mohamed, un uomo minuto dall’aria gentile. Non parla francese né spagnolo e sembra imbarazzato.
L’incontro è brevissimo, pochi minuti in piedi per uno scambio di convenevoli. Ci dice solo che “l’udienza è pubblica” e dunque possiamo assistervi senza problemi.
L’edificio è in fase di ristrutturazione, molti lavori in corso. Proprio al centro del corridoio centrale qualcuno ha depositato una tazza di gabinetto, ma la cosa non sembra disturbare nessuno.
L’aula di udienza è piccola, il giudice è unico, seduto sotto la foto del re, con una quindicina di dossier davanti.
La situazione è tranquilla, poca gente in aula, posti separati per uomini e donne. Non c’è traccia di militanti saharaoui e non ci sono poliziotti. Ci viene il dubbio che si tratti davvero di un litigio tra vicini.
Il giudice è giovane, un po’ pallido, capelli cortissimi e un filo di barba sul mento. Non dimostra più di 30 anni, ma ha un’aria estremamente competente e in effetti dirige davvero bene l’udienza.
Anche il PM è giovane; stessa età del giudice, però i baffi. Probabilmente Dakhla è una sede di frontiera riservata alle prime nomine.
Assistiamo distrattamente alle cause che si susseguono, in attesa di quella che ci interessa. C’è una per morosità di locazione, poi un litigio tra due pescatori… un’aria da pretura di provincia. Le panche sono scomodissime.
Viene chiamato il dossier n. 68/2008. Si avvicinano alla sbarra Khadjia e la sua vicina. Affianco a loro l’accusatore, un uomo piccolo dall’aria meschina.
E’ la prima volta che ci capita di vedere un imputato saharaoui che non scandisce slogan indipendentisti né fa segni di vittoria con le dita. Evidentemente pesa la minaccia di licenziamento che le stata fatta.
Comunque Khadjia parla con veemenza, spesso interrotta dal giudice, e dichiara che il processo verbale, che pure risulta da lei firmato, è falso e che l’hanno voluta incastrare per colpire la sua famiglia, una famiglia di militanti saharaoui. Dice di essere stata maltrattata dalla polizia (che la ha trattenuta 24 ore, prima di rilasciarla), tanto da dover essere ricoverata in ospedale per un malore.
L’altra imputata ha invece un’aria tranquilla e si mantiene piuttosto silenziosa.
Il Pubblico Ministero si rimette al giudice.
L’avvocato parla poco ma in modo convincente, dice che le accuse sono false e che le ragioni del coinvolgimento della donna sono di natura politica.
Il processo si chiude dopo una quindicina di minuti.
Il giudice si riserva, apprenderemo nel pomeriggio che Khadjia Abdeddaim è stata condannata ad un mese di prigione e 500 dhirams di ammenda. Pena sospesa.
Ma quello che è più grave, il giorno dopo le viene notificato un decreto della Municipalità di Lagouira in data 5.1.2009, di sospensione dal lavoro e dallo stipendio, in attesa della decisione definitiva del Consiglio di disciplina.
Il provvedimento fa riferimento ad assenze ingiustificate. Ci spiegano però che gli impieghi pubblici in Marocco sono una sorta di sovvenzione ed è assai raro che gli impiegati si rechino in ufficio. L’eventuale licenziamento di Khadjia avrebbe quindi motivazioni esclusivamente politiche.