Il processo contro i sette attivisti saharawi
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Il processo contro i sette attivisti saharawi
Dopo un anno e sette giorni di detenzione, oggi 15 ottobre 2010 è stata fissata finalmente davanti al Tribunale di prima istanza di Ain Seba’a (a Casablanca) la prima udienza del processo contro i sette attivisti saharawi arrestati all’aeroporto di Casablanca al rientro da un viaggio negli accampamenti di Tindouf.
Ricordiamo che l’8 ottobre dell’anno scorso sette militanti saharawi, Brahim Dahane, Lachgare Degia, Ahmed Nassiri, Ali Salem Tamek, Yahdih Ettarrouzi Rachid Sghavar e Saleh Lebaihi erano stati arrestati al loro rientro da un viaggio a Tindouf. Un arresto molto mediatizzato, presentato all’epoca come una specie di resa dei conti finale coi “traditori al soldo del Fronte Polisario”, e che aveva visto la discesa in campo dello stesso Re Mohammed VI che, il 6 novembre successivo, nel corso di un discorso per il 34° anniversario della Marcia Verde, aveva solennemente proclamato che “è finito il tempo del doppio gioco e della debolezza… O si è patrioti o si è traditori. Non c’è via di mezzo tra patriottismo e tradimento”. In mezzo vi era anche stato lo sfortunato (per il governo marocchino) tentativo di espulsione di Aminattou Haidar, che la dirigenza marocchina era stata costretta a rimangiarsi sotto l’urto dello sdegno internazionale.
Date queste premesse, era forte la preoccupazione per la sorte degli arrestati, tanto più che essi erano stati deferiti davanti al Tribunale militare di Rabat e accusati di reati gravissimi (la traduzione giuridica della tesi del “tradimento”), puniti addirittura con la pena di morte.
Reati contestati:
art. 190, del codice penale: “E’ colpevole di attentato alla sicurezza esterna dello Stato ogni Marocchino o straniero che ha, con qualsiasi mezzo, intrapreso una offesa alla integrità del territorio marocchino. Quando essa è commessa in tempo di guerra, il colpevole è punito con la mo”.rte. Quando è commessa in tempo di pace, il colpevole è punito con la reclusione da cinque a venti anni.
art. 191 del codice penale: “E’ colpevole di attentato alla sicurezza esterna dello Stato, chiunque intrattenga intelligenze con agenti di una autorità straniera aventi come oggetto o come effetto di nuocere alla situazione militare o diplomatica del Marocco. Quando essa è commessa in tempo di guerra, la pena è della reclusione da cinque a trenta anni. Quando è commessa in tempo di pace, la pena è della prigione da uno a cinque anni e di una ammenda da 1000 a 10.000 dhiram.”
art. 206 del codice penale: “E’ colpevole di attentato alla sicurezza interna dello Stato e punito con la prigione da uno a cinque anni e di una ammenda da 1000 a 10.000 dhiram chiunque, direttamente o indirettamente, riceva da una persona o da una organizzazione straniera e sotto qualsiasi forma dei doni, dei presenti, prestiti o altri vantaggi destinati o impiegati in tutto o in parte a condurre o remunerare in Marocco una attività o una propaganda di natura tale da recare offesa alla integrità, alla sovranità o all’indipendenza del Regno o a minare la fedeltà che i cittadini devono allo Stato e alle Istituzioni del popolo marocchino”.
art. 207 del codice penale: “Nei casi previsti dall’articolo precedente, deve essere obbligatoriamente disposta la confisca dei fondi o degli oggetti ricevuti. Il colpevole può inoltre essere interdetto, in tutto o in parte, dall’esercizio dei diritti previsti all’art. 40 (diritti civici, civili e familiari)”.
L’iter processuale
Nel corso di questo anno, e soprattutto dopo la brutta figura internazionale nella vicenda di Aminattou Haidar, le Autorità marocchine hanno scarcerato dapprima Lachgare Degia, per motivi di salute e, qualche mese dopo, anche Yahdih Ettarrouzi Rachid Sghavar e Saleh Lebaihi.
Infine, le accuse più terribili, quelle di “attentato alla sicurezza esterna dello Stato”, previste dagli artt. 190 e 191 del codice penale, sono caduti e, conseguentemente, il Tribunale militare si è dichiarato incompetente, trasmettendo gli atti al Tribunale civile.
Dunque oggi, 15 ottobre 2010, la situazione processuale dei sette attivisti è notevolmente migliorata (e già questo costituisce una vittoria importante del movimento di solidarietà). Essi devono rispondere dei soli delitti previsti dagli articoli 206 e 207 del codice penale, per i quali è prevista una pena massima di cinque anni di prigione e 10.000 dirham di ammenda.
Tale derubricazione del reato comporta un’altra importante conseguenza, per ciò che concerne lo stato di libertà dei 3 attivisti ancora detenuti. Stando a quanto riferito dagli avvocati della difesa, infatti, per i reati contestati (che sono “delitti” e non “crimini”) il termine massimo di carcerazione preventiva è di un mese. Nel caso di specie, i tre sono detenuti da oltre un anno, dovrebbero dunque essere scarcerati.
Gli osservatori internazionali
Il processo ha richiamato a Casablanca un gran numero di osservatori internazionali, oltre ad una forte copertura mediatica da parte soprattutto della stampa spagnola.
Spagna
Ines Miranda - Avvocato Canarie
Cristina Martinez - Avvocato Madrid
Jose Manuel de la Fuente - Avvocato Badajoz
Candela Carrera - Avvocato Badajoz
Angel Garcia Calle - Avvocato Badajoz
Luis Mangrané Cuevas - Avvocato Saragozza
Martin Rodriguez - Avvocato Badajoz
Lola Travieso Darias - Avvocato Canarie
Gemma Arvesu Sancho - Avvocato Asturie
Jose Manuel Perez Venturo - Avvocato Canarie
Charo Garcia - Deputato
Isabel Terraza - Catalogna
Italia
Nicola Quatrano - magistrato
Francesca Romana Doria - avvocato
Cinzia Terzi
Svezia
Thomas Främby - giudice
Hanga Santha - giurista
Francia
France Weyl - avvocato
Michèle Decaster
Messico
Antonio Velazquez
Il collegio difensivo:
Mohamed Bokhled
Bazid Lahmad
Mohamed Lahbib Erguibi
Mohamed Fadel Laili
Nour Eddine Dalil (Casablanca)
Rachid Kenzi (Casablanca)
Abdalla Shalouk
Il processo
Intorno alle 13 e 30 gli osservatori internazionali cercano di entrare nel Tribunale, ma vengono fermati all’ingresso. Sarà necessaria una trattativa, anche con qualche tono aspro, per essere alla fine ammessi. Gli osservatori chiedono di poter incontrare il Procuratore del re, ma questi fa sapere di essere, al momento, occupato e promette di incontrare gli osservatori dopo l’udienza.
Alle 14 è fissata l’apertura dell’udienza e la sala è già colma di gente, soprattutto saharawi e osservatori internazionali. L’ingresso è vietato alla stampa estera, ma non – come si vedrà – a giornalisti e fotoreporter marocchini.
Notizie provenienti dal carcere di Salé informano sul fatto che i detenuti non sono stati ancora tradotti. Sembra che, per “errore”, il vice procuratore del Re abbia inoltrato l’ordine di traduzione alla prigione di Casablanca piuttosto che a quella di Salé, dove i tre attivisti sono detenuti. Il fatto sembra potersi spiegare solo con la volontà di rinviare il processo, dal momento che, per raggiungere Ain Seba’a, ci vuole più di un’ora e mezzo di viaggio. Il collegio difensivo, da parte sua, si è dichiarato pronto a trattare la causa, e vi è comunque la possibilità di discutere la questione della libertà provvisoria.
Nella sala c’è un gran numero di avvocati marocchini, probabilmente impegnati in altri dossier, oppure…
Intorno alle 14 e 20 entra il Tribunale e succede qualcosa di clamoroso. Il pubblico comincia a scandire slogan per la libertà degli arrestati e per l’autodeterminazione. Un fatto in qualche modo rituale in circostanze del genere, solo forse – questa volta – in termini più accentuati e prolungati. Basterebbe attendere il naturale esaurimento della manifestazione e riprendere i lavori, ma questa volta si scatena una reazione imprevedibile da parte del gruppo di avvocati marocchini presenti.
Una ventina, avvolti nella toga e accecati dall’odio e dal furore, inscenano una sceneggiata dai toni truci ed esagitati. Gridano slogan sulla “marocchinità” del Sahara e cercano lo scontro coi militanti saharawi in aula. Nella ressa, l’imputato Yahdih Ettarrouzi viene colpito con una gomitata allo stomaco.
Anche gli osservatori sono stati oggetto dell’”attenzione” degli avvocati, che li hanno qualificati come “pagati dall’Algeria”.
I giornalisti (marocchini) presenti intervistano solo gli “avvocati” che manifestano. Tra loro, un giornalista di Al Ahadat Al Maghribia, che pretende di essere un “quotidiano arabo fono la cui linea editoriale è modernista”.
Il Tribunale abbandona l’aula, così come il pubblico ministero e il cancelliere. Nessuno interviene per interrompere la gazzarra degli avvocati. Poco dopo sopraggiunge la notizia che il processo è stato rinviato al 5 novembre a causa degli incidenti. Il pubblico abbandona l’aula e il campo è libero per quella ventina di avvocati che inscenano una manifestazione con corteo lungo tutto il Tribunale. Compare anche una foto del re che gli scalmanati portano in trofeo. Spuntano giornalisti e fotografi, di solito banditi dalle aule dei tribunali marocchini.
Non un poliziotto interviene a riportare l’ordine. Un avvocato ci dice più tardi che il vice procuratore ha commentato la manifestazione dicendo: “Hanno fatto bene”.
In serata interviene un comunicato di Brahim Dahane, Ali Salem Tamek e Ahmed Naciri, i tre imputati ancora detenuti. Essi dichiarano di aver chiesto, fin dal giorno prima, di essere tradotti in Tribunale per il processo e che il fatto che essi non lo siano stati dimostra che vi era una precisa determinazione di rinviare l’udienza. Proclamano inoltre uno sciopero della fame per il 19 e 20 ottobre, per rivendicare il diritto al processo.
Valutazione degli osservatori:
1) Gli imputati sono detenuti da oltre un anno, mentre i reati oggi contestati prevedono solo 30 giorni di detenzione senza processo. I tre detenuti sono dunque in detenzione illegale da 11 mesi e 7 giorni.
2) Essi non sono stati deliberatamente tradotti per il processo, a dimostrazione della volontà di non celebrarlo.
3) La gazzarra inscenata dagli avvocati (e che è stato il motivo ufficiale del rinvio) è stata tollerata e forse preparata dalle autorità di polizia e dalla procura, dal momento che sembra chiaro che non si sia trattato di una iniziativa né spontanea, né improvvisata. Il Tribunale non ha attivato i suoi poteri di polizia dell’udienza e le forze di polizia hanno consentito la manifestazione, tollerando anche l’intervento della stampa (solo quella marocchina).
Testimonianza di Rachid Sghaiyar, uno degli imputati a piede libero, raccolta da Michèle Decaster
Nell’aereo che ci portava a Casablanca abbiamo scritto sulle schede della polizia di frontiera che il nostro paese di residenza è il Sahara Occidentale.
Quando si è trattato di uscire dall’aereo, ci hanno fatto uscire da una porta laterale, diversa da quella degli altri passeggeri, che non hanno visto niente, ma uno di noi ha consegnato un telefono mobile ad una donna che viaggiava con la figlia, e le ha chiesto di renderglielo all’uscita o di distruggere la scheda se non lo avesse rivisto. Nell’uscire io ero l’ultimo, Ettarrouzi è stato spintonato. C’erano dei veicoli che ci aspettavano sulla pista. Hanno fatto entrare Dahane, Tamek, Naciri e Ettarrouzi in un bus, me e gli altri due in un altro. Eravamo ammanettati ed avevamo gli occhi bendati. Ho tentato di chiedere a Degja se si sentisse bene, ma ci hanno vietato di parlare tra di noi. I veicoli sono partiti a gran velocità, facendoci perdere continuamente l’equilibrio, i poliziotti dovevano mantenerci per non farci cadere. Siamo così giunti alla sede della brigata nazionale della polizia giudiziaria. Io sono stato il primo ad essere chiamato per l’interrogatorio. I miei occhi erano sempre bendati, ma avevo l’impressione che nella stanza ci fosse molta gente. Un uomo mi ha fatto una domanda, ma prima che potessi rispondere un altro ha dato un pugno sul tavolo minacciandomi. Io ho chiesto che mi si trattasse con correttezza e un terzo uomo è intervenuto per riportare la calma e per assicurarmi che potevo parlare liberamente e che dovevo “dire tutto”. Io ho risposto che potevano consultare i giornali e i siti internet dove c’era già scritto tutto. Loro volevano sapere tutto “dall’A alla Z”: “Chi ti ha contattato per questo viaggio? Sidi Mohamed Souedi e Abdeslam Omar Lahcen” “Con quali soldi?” “Chi ha pagato il viaggio?”. Io ho risposto di averlo pagato io. “Dove hai preso i soldi?” Avevo una concessione di pesca che ho venduto. Hanno chiesto il mio numero di conto. Hanno verificato la veridicità della mia risposta ed è stato allora che mi hanno restituito i 200 dollari che mi avevano sequestrato. Mi hanno chiesto se conoscevo gli altri componenti del gruppo. Mi rendevo conto che erano perplessi e che non erano tutti dello stesso avviso. Ma erano contrariati del fatto che io non dicevo ciò che si aspettavano. Mi hanno chiesto se conoscessi Khalil. Ho domandato: “Il Ministro dei territori occupati?”. “Smettila e continua a darci i dettagli”. Mi hanno fatto domande sul nostro arrivo in Algeria, dove siamo andati a mangiare, come siamo arrivati a Tindouf.
Non mi hanno contestato alcuna accusa. Quando mi hanno chiesto di firmare, ho rifiutato. Avevano scritto cose che non avevo mai detto: che avevo incontrato dei generali algerini insieme ad un waly saharawi, oltre ad altre accuse nei confronti degli altri membri del gruppo. Ho detto loro che potevano scrivere quello che volevano nel verbale, ma io non lo avrei firmato.
L’interrogatorio è durato 8 giorni, ad un ritmo da 3 a 5 incontri al giorno. Nel corso dei primi quattro giorni ho avuto sempre gli occhi bendati. All’inizio, quando ritornavamo nelle celle, i guardiani ci autorizzavano a levare la benda. Ma ce la rimettevano per tornare all’interrogatorio. A partire dal 5° giorno non abbiamo più avuto gli occhi bendati.
Nel corso dei primi interrogatori io avevo l’impressione che vi fossero molte persone presenti. In quelli successivi i funzionari che ci interrogavano erano pochi. Alla fine hanno riscritto il verbale levando le cose che io non avevo approvato. Durante questi otto giorni non abbiamo avuto alcun contatto con i nostri avvocati e le nostre famiglie sono state informate del nostro arresto solo il 5° giorno, dopo il comunicato stampa di Amnesty International.
(…)
L’ottavo giorno ci hanno presentato il verbale di interrogatorio. Naciri ha firmato, Dahane anche, Ettarrouzi era d’accordo solo sulle prime due pagine. Eravamo tra le 13 e le 14, siamo stati condotto davanti al Procuratore Generale che aveva emesso il mandato d’arresto, che si è dichiarato incompetente e ha trasmesso gli atti al Tribunale militare di Rabat.
Il tragitto per andare al Tribunale militare di Rabat è durato dalle 14 alle 21. Abbiamo girato per la città ammanettati gli uni agli altri. Io ero vicino a Dagja e a Saleh.
Quando siamo stati presentati al giudice, eravamo ancora senza avvocati. Egli ha letto il capo di imputazione che ci accusava di “danneggiare la diplomazia marocchina all’estero, di spionaggio a profitto di uno stato straniero: l’Algeria”. Di avere “ricevuto somme di danaro all’estero”, di “tentativo di agitazione”. Ci ha chiesto cosa avevamo da rispondere. Io ho riso, perché quello di cui ci accusavano non era né logico né vero. Mi ha chiesto: “Tu respingi gli addebiti??” Ho risposto che li respingevo nella loro totalità. “Avete incontrato dei dirigenti algerini, dei generali e il waly?” Io ho negato e lui ha sostenuto che qualcuno di noi lo aveva ammesso. Poi ha chiesto se avevamo preso un aereo militare o civile. Io ho risposto che era un aereo civile e lui mi ha chiesto di che colore fosse e di quale colore fosse l’uniforme del pilota, della sua maglietta e dei suoi pantaloni. Se avessimo incontrato giornalisti, cosa alla quale ho risposto affermativamente. Mi ha chiesto che cosa volessi aggiungere al verbale. Io ho dichiarato che lotto perché il mio paese è occupato da una potenza straniera, che le sue risorse naturali sono saccheggiate dai generali e dalla famiglia reale.
Quattro mesi più tardi, in gennaio, sono stato nuovamente convocato da questo giudice. Nel verbale era scritto tutto quello che avevo dichiarato, salvo queste ultime parole. Mi ha riproposto le domande sui militari del Polisario e mi ha presentato un album con delle foto di militari e civili.
I nostri avvocati, che non avevano potuto assistere ai primi atti, si sono presentati per assisterci e ci hanno reso visita in prigione.
Avevamo chiesto di parlare col capo delle guardie, che non sapeva nemmeno lui come doveva comportarsi con noi. Gli abbiamo chiesto di potere contattare i nostri familiari e ci ha accordato il permesso. Brahim ha contattato gli avvocati. Noi siamo entrati il 16 ottobre, gli avvocati sono arrivati il 19.
Poi c’è stata una perquisizione generale, con l’intervento del direttore e di un torturatore assai conosciuto, dopo che hanno saputo che vi erano state delle comunicazioni telefoniche. Tra le mie cose, hanno trovato solo una scheda telefonica mauritana che non funziona in Marocco. Io sono stato minacciato di pestaggio perché dicevano che non parlavo con rispetto del direttore! Per scoprire come avessimo potuto avere contatti con l’esterno, hanno mobilitato 27 persone. Alla fine qualcuno ha denunciato il capo delle guardie che ci aveva dato il permesso. Gli è stato vietato di incontrare noi detenuti e poco dopo è stato trasferito in una regione fredda del Marocco.
Avevamo diritto a solo due ore di passeggiata nel cortile. Un giorno Benhachem, direttore generale delle prigioni, è venuto con due responsabili dei servizi di informazione. Ci ha visto seduti su un tappeto nel corridoio, intenti a preparare il the. Ha ordinato alle guardie di spazzare via il nostro tappeto e ci ha vietato per il futuro di uscire dalle nostre celle (2 metri per 1,50), dove eravamo in due per ognuna. Il corridoio era di 9 metri per 3.
Siamo stati messi insieme a fine febbraio. All’inizio del visite settimanali delle famiglie duravano 40 minuti. Piano piano è stata portata ad un’ora. In seguito è ancora un po’ aumentata.
Il 18 marzo 2010 abbiamo cominciato uno sciopero della fame a tempo indeterminato. Al trentesimo giorno Khadija Merwazi e l’avvocato Mohamed Sabar el Hihi sono venuti a trovarci. Ci hanno chiesto di smettere la protesta, perché saremmo stati liberati. Noi abbiamo continuato lo sciopero fino al 41° giorno. Solo tre ore prima della liberazione, abbiamo appreso che tre di noi sarebbero stati scarcerati, mentre gli altri sarebbero dovuti uscire una o due settimane dopo.
Non abbiamo ricevuto alcun verbale di scarcerazione, né di detenzione.
Quando abbiamo oltrepassato la porta della prigione io ho aperto davanti agli amici e ai giornalisti una cartella dove avevo scritto: “Viva il Sahara Libero”.
Dakhla , 12 luglio 2010