La Rivoluzione dei giovani
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La transizione tunisina
Nicola Quatrano
L’aria che si respira, girando per le vie di Tunisi, è quella di una libertà giunta forse troppo inaspettatamente. I Tunisini sono generalmente cortesi e accoglienti, e gli ultimi eventi non li hanno certamente cambiati. Oggi sembrano tuttavia meno rassegnati e cominciano a prendere coscienza della loro forza, una forza che è stata capace di rovesciare, in un solo mese, un regime radicatissimo.
Tutto questo accade non senza contraddizioni ed esagerazioni. Se i comitati di redazione hanno infatti meritoriamente sfiduciato i direttori dei giornali legati al vecchio regime, succedono anche cose più discutibili. Dovunque, in tutta la città, ci sono continue manifestazioni e sit-in; tutti hanno qualcosa da rivendicare, pretese giuste e meno giuste. Si raccontano (ed è difficile dire se sia vero o frutto di esagerazione o, peggio, espressione di una strategia diretta a screditare la rivoluzione) episodi sconcertanti, come quello di un tunisino che ha scoperto d'un tratto che l’appartamento di sua proprietà, destinato al figlio prossimo alle nozze, era stato occupato da una famiglia. Ha chiesto l’intervento della polizia e gli occupanti hanno minacciato, se fossero stati cacciati, di darsi fuoco. A questo punto gli agenti, che non hanno alcun interesse a ripetere l’esperienza fatta con Mohamed Bouazizi, se ne sono andati e l’uomo si è dovuto rassegnare ad avviare una lunga procedura giudiziaria.
Omeya Seddik
Il punto di riferimento principale di questa missione tunisina è Omeya Seddik, un militante del PDP (partito democratico progressista), uno dei partiti che ha fatto la scelta di sostenere il governo di transizione. Omeya ha partecipato alla Conferenza internazionale organizzata da Ossin a Napoli, nel febbraio 2008, e allora certo non poteva prevedere che, dopo soli due anni, il suo paese sarebbe stato liberato.
Ed è proprio questa la prima questione che gli pongo: è stata davvero spontanea questa rivoluzione? Davvero un popolo inerme può essere capace, senza interventi esterni, di cacciare un dittatore e far crollare un regime che sembrava invincibile?
Omeya sostiene di sì, che la rivoluzione è stata un fatto spontaneo e che ha vinto senza influenze esterne. E lo spiega dopo avere descritto il sistema di potere di Ben Ali.
Che si fondava soprattutto su un partito, il Raggruppamento Costituzionale Democratico (RDC), quello della indipendenza, che col tempo si è trasformato in un vero partito-stato, ramificatissimo in tutti gli apparati dello Stato centrale e delle amministrazioni periferiche, oltre che nelle attività economiche pubbliche e private.
Questa specie di piovra fondava il suo potere, oltre che sul controllo delle attività di governo ed economiche, anche su un rapporto speciale con la polizia.
Il regime di Ben Ali non era infatti una dittatura militare, ma essenzialmente poliziesca. Il regime aveva curato di selezionare un apparato di polizia fedele e potente, indebolendo l’esercito, nei confronti del quale restava ferma l’antica diffidenza di Bourghiba che temeva la possibilità di un golpe militare. E’ per questo che i rivoltosi nutrivano un aspro rancore nei confronti della polizia, ma non nei confronti dell’esercito. Ed è per questo che quest’ultimo ha avuto la possibilità di giocare un ruolo importante nella transizione.
Non bisogna tuttavia farsi soverchie illusioni sull’esercito tunisino. Non è sicuramente come l’esercito portoghese del 1976, quello che ha fatto la “rivoluzione dei garofani”. I vertici militari soprattutto sono molto legati agli Stati Uniti, paese in cui vengono formati e con i quali hanno rapporti molto forti nell’ambito della cooperazione militare e nel commercio degli armamenti.
Dunque – dice Omeya - la rivoluzione tunisina è nata spontaneamente, senza interferenze esterne. D’altronde – a differenza di altre rivoluzioni, quella egiziana e libica per esempio – ha colto tutti di sorpresa e non ci sarebbe stata nemmeno la possibilità di farlo. Essa è stata preparata dalle grandi agitazioni operaie del bacino minerario di Gafsa del 2008, dalla mobilitazione della società civile ed è scoppiata quando, dopo il suicidio di Mohamed Bouazizi, si è capito chiaramente che oramai si era creata una completa frattura tra vertici del regime e popolazione. Ciò che ha spinto il popolo alla rivolta è stata proprio la definitiva consapevolezza di questa frattura, del fatto che “da quelli” non ci si poteva aspettare più niente, che dovevano oramai sloggiare.
E’ in fondo in questo che si condensa il senso della rivoluzione tunisina, una rivoluzione priva di precise rivendicazioni, come è stato osservato, priva di un programma definito, se non la precisa consapevolezza che bisognava farla finita con quella banda di corrotti che si era impossessato del paese.
E’ per questo che l’ultimo disperato tentativo di Ben Ali di fare concessioni democratiche non ha avuto successo, si è scontrato con la determinazione oramai irretrattabile a farlo sloggiare.
Quando Ben Ali finalmente è caduto, nessuno sapeva cosa fare. Né da parte di Usa, Francia, Algeria, Libia e Italia, i paesi che in Tunisia contano veramente, è giunta alcuna seria indicazione. Solo gli Usa hanno, a un certo punto, fatto sapere che avrebbero preferito che Ben Ali se ne andasse. E’ stata probabilmente questa presa di posizione USA a convincere l’esercito (legatissimo agli USA), alcuni gruppi economici e una parte del vecchio Potere a sciogliere le riserve. Così è nato il governo di transizione.
Il vecchio gruppo di potere, soprattutto, si è diviso sull’analisi e la strategia. Da una parte quelli che avevano preso atto che non si poteva continuare come prima e che erano disposti ad impegnarsi in una transizione che cambiasse alcune cose, senza cambiare tutto (ed è a questo gruppo che si è indirizzato l’appoggio di USA e Francia). Dall’altro il gruppo degli irriducibili, i fautori di una resistenza a oltranza.
Dopo la fuga di Ben Ali, vi sono state due settimane di incertezza, poi una settimana detta di “deriva securitaria”, durante la quale è stata attuata una vera e propria “guerra psicologica” finalizzata a rilegittimare agli occhi della popolazione gli apparati di sicurezza, soprattutto l’esercito, ma anche la polizia.
Si sono diffuse (e sono state diffuse ad arte) voci allarmistiche su azioni terroristiche poste in atto da ex poliziotti di Ben Ali, che volevano vendicarsi della popolazione. Questi presunti “terroristi” dovevano servire, e sono serviti, a creare una specie di obiettivo comune tra la popolazione e la parte “buona” degli apparati di sicurezza, soprattutto l’esercito, per la difesa della popolazione.
Il disegno, mi dice Omeya, è praticamente riuscito. Sempre in quella settimana, le strutture “rivoluzionarie” dei comitati politici di quartiere si sono poste in collegamento con esercito e polizia per la comune difesa della popolazione. In tal modo quelli che potevano essere i “soviet” della rivoluzione hanno in qualche modo smesso di fare politica e hanno cominciato ad occuparsi solo del ritorno all’ordine
Di qui la legittimazione del governo di transizione, che la gente ha cominciato a considerare come uno strumento necessario contro il disordine e per la difesa della sicurezza.
Il governo di transizione che si è formato, sotto la direzione del primo ministro Mohamed Ghannouchi, è composto da esponenti di alcuni partiti di opposizione e da “tecnici”, per lo più provenienti dal vecchio regime. La prosecuzione delle manifestazioni ha consentito di operare dei correttivi, con la sostituzione dei “tecnici” più legati al gruppo di Ben Ali. Ma resta che si tratta di persone tutte di orientamento liberista, fortemente influenzati dagli USA.
Domando a Omeya quale ruolo abbia avuto le forze organizzate nella rivoluzione. Mi risponde che alcune di esse hanno partecipato, ma nessuna ha svolto un ruolo di avanguardia. Soprattutto i sindacalisti dell’UGT (la base e i quadri intermedi, perché i vertici erano strettamente legati al clan di Ben Ali), gli avvocati e diversi partiti e partitini. Tra questi, il partito cui Omeya aderisce, il PDP (Partito democratico progressista), e il PCOT (Partito comunista degli operai tunisini).
Attualmente l’opposizione è divisa, e questo si è visto bene in occasione della formazione del governo di transizione al quale alcune forze hanno deciso di partecipare e altre no.
Mi spiega Omeya, per grandi linee, che le forze di opposizione si sono divise sulla valutazione del momento.
Un primo gruppo ha ritenuto che i rapporti di forza non consentissero di vincere. Sono ricorsi alla teoria del “cinghiale ferito”. Quando il cinghiale è ferito è senz’altro indebolito, ma può ancora reagire in modo distruttivo, occorre quindi aspettare che perda sangue e si sfinisca, prima di sferrare il colpo di grazia. Dunque questo gruppo ha accettato di entrare a far parte del governo, sulla base di un programma in tre punti:
a) Il varo, nel giro di 6-7 mesi, di misure che contribuiscano a disgregare e indebolire il sistema di potere legato al vecchio regime (separazione del partito dallo Stato, epurazioni, confisca di beni);
b) Il varo di misure che consentano alla società tunisina di crescere (libertà di stampa, libertà di associazione, nuova legge elettorale e libertà di costituzione dei partiti);
c) Il varo di misure di sostegno alle regioni più povere, quelle nelle quali è partita la rivolta.
Tali misura devono essere varate nel giro di 6-8- mesi, dopo i quali bisogna andare ad elezioni generali.
Il gruppo degli oppositori irriducibili ritiene invece che bisogna andare avanti senza compromessi nel processo rivoluzionario, ritenendo che ogni compromesso costituisca una boccata di ossigeno per il regime morente.
Naturalmente, mi dice Omeya, entrambi i gruppi hanno le loro ragioni, perché se è vero che qualche compromesso è inevitabile, è anche vero che in questo modo si corre sempre il rischio di favorire la conservazione dei vecchi gruppi di potere. In ogni caso oggi la situazione sembra più stabilizzata: sono stati sostituiti i membri più discutibili del primo governo di transizione e sono state adottate le prime importanti misure, quali la separazione del partito dalle strutture statali, la confisca di alcuni beni, il licenziamento dei prefetti, l’amnistia generale e la libertà dei partiti.
Domando infine a Omeya se condivida una mia impressione: è pur vero che la rivolta tunisina non ha espresso un programma chiaro né tanto meno indirizzi di politica economica, però la domanda di “lavoro” dei disoccupati sembra una richiesta di maggiore Stato, di maggiore assistenza, tutto il contrario delle ricette liberiste del FMI e della Banca Mondiale.
Omeya condivide, precisando però che la situazione è molto più complessa. La richiesta di “lavoro” viene da una sola parte di quella che è stata la base sociale della rivolta, vale a dire i diplomati disoccupati, una sorta di élite tra i rivoltosi. La maggior parte dei disoccupati scesi in piazza, invece, è - come Mohamed Bouazizi – attiva nel settore informale. Per loro lo Stato non è un dispensatore di benefici, ma ha la faccia delle guardie municipali che hanno sequestrato la mercanzia e la bilancia con le quali Bouazizi faceva vivere la sua famiglia. Lo Stato è quello che non ti fa lavorare, è bene che se ne vada. Niente regole, libertà di iniziativa. Naturalmente si tratta di una analisi fatta per grandi linee, ma che conferma il dato della estrema complessità della situazione tunisina.
Hamami Jilani
Un giro di telefonate, un appuntamento “a sorpresa” mi consentono di incontrare Hamami Jilani, uno dei fondatori del Partito comunista degli operai tunisini (PCOT), nato nel 1986 da una scissione da ETTAJDIDE, il vecchio partito comunista tunisino, oramai non più marxista.
Esso non è mai stato riconosciuto dal regime ed è rimasto sempre illegale, come Annadha, il partito islamista. Ma, a differenza di quest’ultimo, i cui quadri sono emigrati all’estero, i militanti del PCOT hanno fatto la scelta di restare in Tunisia, affrontando il carcere e la clandestinità. Per citare dei numeri, circa trecento attivisti del PCOT sono finiti in carcere tra il 1990 e il 1991.
Dopo alcune titubanze, mi dice Jilani, il PCOT ha deciso di chiedere il riconoscimento al nuovo governo. Ma il PCOT si colloca fermamente nel campo degli oppositori intransigenti ed ha rifiutato di appoggiare il governo di transizione.
Gli pongo una domanda sul carattere sociale e sul “programma economico” della rivolta. Mi risponde con un’analisi meno complessa di quella di Omeya, dice che il movimento chiede la nazionalizzazione dei settori strategici, che nei luoghi di lavoro i dipendenti rivendicano il diritto di poter eleggere i dirigenti. D’altronde (e questo è stato vero, sia pure confusamente) fin dal primo momento il movimento ha posto la questione del modello di sviluppo, attraverso la contestazione degli investimenti statali che privilegiavano le regioni costiere a danno delle altre (si deve ricordare che la protesta è nata nelle regioni cd. sfavorite). Spetta naturalmente alle forze politiche elaborare un programma, perché il movimento non può farlo da solo. Esso ha comunque posto in discussione il modello sociale e la corruzione che ne costituisce l’inevitabile conseguenza (in Tunisia la corruzione è legatissima alla vicenda delle privatizzazioni).
Souihli Sami
E’ un sindacalista dell’UGT, la centrale sindacale unica tunisina, segretario del sindacato degli ospedali pubblici. Da sempre all’opposizione nel sindacato, i cui vertici sono legati al regime di Ben Ali, ha avuto un ruolo molto importante nella rivoluzione e oggi è schierato con gli oppositori al governo di transizione.
Ha una visione molto ampia della situazione, dice per esempio che quanto accaduto in Tunisia anticipa quello che accadrà anche in Europa. I giovani europei soffrono la stessa condizione di disoccupazione e precarietà dei giovani tunisini, appena resa meno esplosiva dal fatto che hanno dei genitori che beneficiano ancora del welfare degli anni ’70.
Mi dice che il sentimento che ha spinto migliaia di giovani (i veri protagonisti di questa bella rivoluzione) è stato il bisogno di dignità, quella dignità che solo un lavoro sicuro e garantito ti può assicurare. Questi giovani non solo sono disoccupati e senza prospettive, ma colpevolizzati. Non solo esclusi dalla spartizione della torta, ma anche considerati stupidi, perché nel mondo della concorrenza liberista chi non riesce, magari perché è onesto o incapace di compromessi, viene considerato stupido.
Questi giovani si sono organizzati in internet e nei social network senza che nessuno se ne accorgesse, un’ulteriore manifestazione del disprezzo e del disinteresse che il Potere nutriva nei loro confronti e, improvvisamente, tutto è esploso.
La base della rivolta è stata questa: i giovani con i loro bisogni ne sono stati la base sociale, e la borghesia delle professioni, col suo bisogno di libertà. Questi sono gli ingredienti della rivoluzione, che occorrerà integrare per andare avanti.