L’Impero USA è in declino ?
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Cf2R (Centre Français de Recherche sur le Renseignement) aprile 2019 (trad. ossin)
L’Impero USA è in declino?
Jean-Luc Basle
Storici e politologi statunitensi si interrogano sul futuro dell’Impero USA. E’ in declino? E il dibattito è tanto vivo, che perfimo Barack Obama si è sentito in dovere di intervenire. Ecco che cosa disse nel suo discorso sullo stato dell’Unione del gennaio 2012: «Chi vi dice che gli USA sono in declino e che la loro influenza va riducendosi, non sa di cosa parla». Dicendo questo, forse rispondeva a Francis Fukuyama, quel professore di economia politica che aveva scritto su Le Monde dell’11 settembre 2011, dieci anni cioè dopo gli attacchi dell’11 settembre, che essi avevano «segnato l’inizio della fine dell’egemonia degli Stati Uniti». Stephen Walt, professore di Harvard, gli aveva fatto eco scrivendo nel The National Interest di novembre 2011 che «l’apparizione di nuovi poteri e la doppia débâcle in Iraq e in Afghanistan annunciano un brutale declino della capacità statunitense di forgiare l’ordine mondiale». Naturalmente questa idea non aveva affatto incontrato il favore del neoconservatore Robert Kagan, che ne ha parlato in un articolo apparso su The New Republic del 17 gennaio 2012, intitolato «Non pronti a sparire: contro il mito del declino USA». Potremmo fare molte altre citazioni, ma non aggiungerebbero niente al dibattito. La conclusione è senza appello: per gli Stati Uniti è cominciato il declino.
Origini del declino
Cosa provoca la scomparsa di un Impero? Questa questione che affascina gli storici è senza risposta, giacché ogni impero è un caso a parte. L’Impero Inca è morto a causa della conquista spagnola, ma le sue dimensioni e la sua geografia ne avevano decretato la condanna. Gli imperi britannico e francese sono stati distrutti dalla contraddizione tra la loro adesione alla democrazia e la subordinazione cui condannavano i popoli conquistati. La missione civilizzatrice che pretendevano di svolgere mal nascondeva tale contraddizione e il saccheggio delle risorse che praticavano. Dopo il 1945 nessuna ambiguità è stata più possibile e questi imperi furono condannati. La Francia ci ha messo tanto a capirlo. Nel caso degli Stati Uniti, il declino si deve alla loro ideologia neoliberista e neoconservatrice. Da notare che questa doppia ideologia esisteva allo stato embrionale già tra Padri fondatori come Alexander Hamilton e John Jay. La lettura dei Federalist Papers lascia pochi dubbi in proposito. La si ritrova anche in Andrew Jackson, settimo presidente degli Stati Uniti, il cui ritratto campeggia nella sala ovale dopo l’elezione di Donald Trump.
Una situazione molto particolare
Gli imperi nascono, crescono e muoiono. Gli Stati Uniti non sfuggiranno al loro destino. Si tratta solo di sapere quando e, accessoriamente, come. La cosa che sorprende nel dibattito che si è aperto è l’assenza di criteri obiettivi. Come si fa a sapere quando un impero declina? Questa questione si è posta nel passato. Quand’è che l’impero romano ha cominciato ad andare a rotoli? Fu nel 410 quando Alarico saccheggiò Roma, o nel 451 dopo l’effimera vittoria dei Campi catalaunici? Lo stesso per l’impero britannico. Sparì con l’indipendenza dell’India e del Pakistan nel 1947, o nel 1968 con la decisione della Gran Bretagna di ritirarsi a est del Canale di Suez?
Per quanto riguarda gli Stati Uniti, due sono gli avvenimenti da considerare, Il primo è la decisione di Richard Nixon di porre fine alla convertibilità del dollaro in oro, il 15 agosto 1971. Questa decisione decretò il fallimento degli Accordi di Bretton Woods dell’agosto 1944, coi quali gli USA avevano imposto il dollaro quale moneta di riserva internazionale sostituendo la lira sterlina [1]. Il secondo è l’implosione dell’Unione Sovietica il 21 dicembre 1991. Questa data segna l’apogeo dell’impero USA – apogeo che Francis Fukuyama si affrettò a proclamare nel sui libri “La fine della storia” e “L’ultimo uomo”, pubblicato alla fine del 2012. Il New York Times ci informò il 21 febbraio 1992 che il Pentagono l’aveva preceduto con il Defense Planning Guidance, che esprime senza ambiguità una volontà egemonica disinibita. Dunque gli Stati Uniti si trovano in una situazione molto particolare: le prime avvisaglie del loro declino (agosto 1971) precedono il loro apogeo (dicembre 1991).
L’ideologia neoliberista
Un dato economico conferma il declino: la posizione estera globale netta degli Stati Uniti, vale a dire il saldo del loro avere e del loro dare all’estero. Per dirla più semplicemente, questa posizione estera sta alla nazione come il capitale sta all’impresa. Se il capitale è negativo, l’impresa è in fallimento. Ebbene, la posizione estera degli Stati Uniti è negativa dal 1989. Addirittura essa peggiora sempre più rapidamente. Ha toccato i 9.717 miliardi di dollari a settembre 2018, vale a dire il 47% del prodotto interno lordo, contro i soli 34 miliardi del 1989. Questa bancarotta non è frutto del caso, ma di una politica neoliberista che si articola lungo due grandi assi: monetario e normativo.
Il neoliberalismo dà priorità alla moneta a scapito del bilancio nella guida dell’economia. Dunque, dal 1981, la Federal Reserve ha perseguito una politica monetaria lassista, a parte qualche breve periodo di aumento dei tassi di interesse. Come risposta alla crisi dei subprime, questa politica è stata spinta fino al parossismo con l’applicazione di tassi di interesse negativi. Battezzata «politica di Quantitative Easing», aveva come obiettivo primario di salvare le grandi banche di Wall Street dal fallimento. Il modo in cui è stata affrontata questa crisi finanziaria è un caso di scuola che dimostra il potere delle lobby finanziarie. Riacquistata una migliore situazione, queste banche hanno utilizzato le liquidità generosamente offerte dalla Federal Reserve per finanziare l’acquisto di azioni delle imprese. E tali acquisti, in cui sono stati investiti quasi 3 000 miliardi di dollari negli utlimi cinque anni, hanno aumentato artificialmente il valore delle azioni con grandi vantaggi per gli azionisti e i dirigenti. Il loro effetto sull’economia reale è stato nullo, se non negativo, perché hanno accresciuto l’indebitamento delle imprese, minando la loro capaicità di investimento.
Parallelamente, dopo un ultimo tentativo da parte di Bill Clinton, il governo USA ha rinunciato a tenere sotto controllo il deficit di bilancio, la cui media annuale cresce al ritmo del 3,6% del prodotto interno lordo dal 1981, vale a dire più del doppio della media dei venti anni precedenti (1,6%). Da questo punto di vista, il Tax Cuts and Jobs Actde 2017 – che venne presentata come una legge destinata a rafforzare il dinamismo dell’economia, accrescendo i posti di lavoro, grazie alla riduzione delle imposte – è il massimo dell’ipocrisia. Il suo effetto reale è di ridurre la pressione fiscale sui più ricchi, senza veri benefici sull’occupazione. Secondo il Congress Budget Office, questa legge aumenterà il deficit di bilancio di 1 800 miliardi di dollari da qui al 2028. L’indebitamento pubblico giungerà allora a 31.195 miliardi di dollari per un prodotto interno lordo pari a 33.512 miliardi, secondo le previsioni del governo USA. Queste proiezioni non contemplano l’ipotesi di una recessione che Ben Bernanke, ex governatore della Federal Reserve, annuncia per il 2020 – recessione che accrescerà ancor più il deficit di bilancio. A tale indebitamento pubblico occorre aggiungere l’indebitamento privato. Insieme giungono al 212% del prodotto interno lordo nel primo trimestre del 2018, secondo le statistiche della Banca per i regolamenti internazionali.
L’obittivo dei neoliberisti è ristabilire il capitalismo nella sua forma originale, liberandolo da ogni vincolo di regolamenti. Il loro modello di iniziativa legislativa è l’abolizione del Glass-Steagall Act – una delle cause indirette ma nondimeno reali della crisi dei subprime. Auspicano anche l’abolizione di qualsiasi forma di protezione sociale, lasciando a ciascuno la libertà di difendersi dalle contingenze della vita. Tra i promotori di tale dottrina figurano: Alan Greenspan, governatore della Federal Reserve dal 1987 al 2006; Robert Rubin, ex co-presidente di Goldman Sachs ed ex ministro delle Finanze; Arthur Laffer, inventore della “curva” che porta il suo nome; John Williamson che ha coniato l’espressione “Washington Consensus”; Jude Wanniski, autore di “The way the world works”, libro che fece sensazione alla sua uscita nel 1978 per il suo liberismo disnibito; e molti altri economisti, uomini politici e dirigenti di azienda.
Questa politica incontra il pieno favore di Wall Street. La cosa non sorprende viste le performance della Borsa negli ultimi dieci anni. Secondo Robert Schiller, premio Nobel per l’economia, il Price-Earnings (PE) Ratio [2] è tornato ai picchi del 1928. Per caso o per coincidenza, secondo il World Income Database, anche la parte dei redditi delle persone più ricche è tornata ai picchi del 1928 [3]. Consapevoli del fatto che la politica di Quantitative Easing è solo una soluzione di ripiego, i governatori della Federal Reserve hanno voluto tornare ad una politica monetaria più tradizionale. Fin dal luglio 2013, cinque anni dopo la crisi dei subprime, Ben Bernanke manifestò l’intento di mutare la politica monetaria. Wall Street reagì malissimo all’annuncio ed egli dovette fare marcia indietro. Janet Yellen, che gli successe a gennaio 2014, alzò il tasso di interesse della Banca centrale nel dicembre 2015, mettendo così ufficialmente fine alla politica di Quantitative Easing. Il successore, Jérôme Powell, proseguì in questa direzione. Ma, dopo un’imprevista caduta della Borsa nel quarto trimestre del 2018, invertì la rotta, con grande soddisfazione di Donald Trump e di Wall Street. Nuovamente la lobby finanziaria dimostrò tutte insieme il suo potere, la sua avidità e la sua cecità, perché nessuno ignora che questa politica monetaria non potrà essere perseguita ad vitam aeternam. “The day of reckoning will come sooner or later.” Bisognerà allora pagare la fattura degli errori passati. Il conto rischia di essere pesante.
La contropartita di questa incoscienza delle autorità e dei mercati finanziari è un malessere crescente nella popolazione, soprattutto tra i più poveri. E’ diffusa una sensazione di decadenza, che le statistiche ufficiali confermano. Secondo il Center for Disease Control and Prevention, il tasso di suicidio è cresciuto del 34% dal 2000 al 2016. Le morti per overdose aumentano in modo esponenziale, stando ai dati dello stesso Centro. Riflesso di questo malessere dai contorni indefiniti, il numero dei detenuti negli Stati Uniti è il più alto del mondo, in termini assoluti e relativi. Anche le classi medie sono colpite. Il reddito familiare medio che raggiungeva i 60.062 dollari nel 1999 si è ridotto a 54.569 nel 2012. E’ riuscito a tornare ai livelli del 1999 solo nel 2016 [4]. Il debito delle famiglie cresce. Si colloca a 13.544 miliardi di dollari, vale a dire il 76% del reddito medio. Il debito che un giovane diplomato mediamente contrae per pagarsi gli studi universitari si cancella quando raggiunge i 40 anni, quasi venti anni dopo, quindi, avere conseguito il diploma. Nel 1970 bastavano cinque anni.
Gli Stati Uniti hanno un bisogno non soddisfatto di investimenti nelle loro infrastrutture (strade, ponti, ferrovie, porti, ecc), che l’American Society of Civil Engineers calcola in 1.440 miliardi di dollari di qui al 2025. Questo sotto-investimento potrebbe costare 2,5 milioni di posti di lavoro all’economia statunitense. Donald Trump aveva promesso di rimediare a questo problema durante la campagna elettorale, ma attualmente sembra più preoccuparsi del suo muro messicano che delle infrastrutture.
L’ideologia neoconservatrice
Le origini del neoconservatorismo risalirebbero agli anni 30, secondo alcuni. Ma esso ha preso quota solo con la presidenza di Ronald Reagan, e la nomina della democratica Jeane Kirpatrick al posto di ambasciatrice all’ONU. Ella si fece avvocato di una politica pragmatica di appoggio alle nazioni alleate degli Stati Uniti, qualsiasi fosse il loro regime politico. Una politica che si ricollegava a quella di Franklin Roosevelt, noto per avere risposto al suo segretario di Stato, Summer Welles che gli faceva notare che Somoza era un bastardo, «sì, ma è il nostro bastardo». Molto rapidamente, i neoconservatori si sono impegnati a cancellare la «sindrome da Vietnam», quell’avversione del pubblico per qualsiasi operazione militare all’estero dopo la disfatta subita nell’ex Indocina francese. Tanto era forte questa avversione che George Bush padre si sentì in dovere di dichiarare, il 28 febbraio 1991, pochi giorni dopo l’inizio dell’invasione dell’Iraq «Grazie a Dio, abbiamo preso a calci la sindrome da Vietnam una volta per tutte». L’obiettivo finale dei neoconservatori è l’egemonia mondiale.
Questo obiettivo, che si intravvede nella Defense Planning Guidance, è nella mente dei leader statunitensi fin dalla Seconda Guerra Mondiale. La vedono come un’opportunità per prendere il posto dell’Impero britannico. Cominciarono a imporsi fin dall’estate del 1944 con gli Accordi di Bretton Woods, senza nemmeno cioè aspettare la fine della guerra. Questa volontà dominatrice risponde ad una necessità che George Kennan ricorda nel suo famoso telegramma del 1947 quando scrisse: «Noi controlliamo circa il 50% della ricchezza mondiale pur essendo solo il 6,3% della popolazione». Le percentuali sono cambiate, ma il dilemma resta immutato. Fu anche nel 1947 che venne creata la Central Intelligence Agency, più nota con l’acronimo di CIA. Area riservata al presidente e al Senato che ratifica tutti i trattati internazionali, la politica estera degli Stati Uniti è in realtà appannaggio della CIA e di gruppi di pressione quali il complesso miltare-industriale, Wall Street, la lobby petrolifera, AIPAC (la lobby ebraica, ndt), e qualche altro. Come osserva John Kiriakou, osservatore ed ex quadro della CIA, i presidenti passano ma la CIA resta. Questa stabilità le conferisce il controllo della politica estera. E’ dunque una piccola élite washingtoniana che la stabilisce. Soprannominata il «blob» (massa gelatinosa e amorfa), è estremamente potente.
La sua visione del mondo, meschina, ideologica e superficiale, è resposnabile di continui fallimenti. Stephen Walt nota giustamente che la politica medio-orientale degli Stati Uniti si declina nella «doppia débâcle in Iraq e in Afghanistan» alla quale occorre oramai aggiungere la Siria. In Asia, accecato dai profitti della mondializzazione, il blob si è accorto troppo tardi della crescita della Cina. La sua prima reazione puramente militare, il «Pivot to Asia», è un fallimento. La Cina, il cui prodotto interno lordo è pari ai due terzi di quello statunitense, si impone sempre più apertamente sulla scena internazionale, non solo con la sua Via della Seta, ma anche con i suoi investimenti all’estero, in Africa, in America del Sud e in Europa. Il suo budget per la Difesa nel 2017 (228 miliardi di dolalri) è un terzo di quello degli Stati Uniti (597 miliardi di dollari [5]). Non esita a opporsi frontalmente a Washington, acquistando petrolio dall’Iran e, più recentemente, dal Venezuela. La guerra commerciale che le ha dichiarato Donald Trump non ha senso. Se è vero che la Cina ha usato e abusato della libertà che le veniva offerta dalla sua adesione all’Organizzazione mondiale del commercio, è altrettanto vero che le multinazionali statunitensi erano fin troppo contente di delocalizzare la loro produzione in Cina, cosa che aveva il duplice vantaggio di accrescere i profitti ed evitare la pressione sindacale negli Stati Uniti. I Cinesi hanno così avuto accesso a brevetti e procedure tecnologiche a basso costo, mentre gli azionisti contabilizzavano i loro profitti. Il deficit commerciale statunitense è dovuto ad un eccesso di consumo, alla supervalutazione del dollaro e ai bassi costi salariali cinesi. Se si accampa sulle sue posizioni, Trump non otterrà niente di concreto, se non una grave crisi economica. Consapevoli di una tale eventualità e delle sue ripercussioni sull’economia mondiale, e anche della loro vulnerabilità, i Cinesi optano per i negoziati, preferendoli allo scontro.
Meno potente economicamente, la Russia non è un meno formidabile avversario, non solo per il suo arsenale nucleare ma anche per la qualità della sua diplomazia. Da notare che la demonizzazione di cui Vladimir Putin è stato oggetto riguarda più l’avidità del complesso miltare-indìustriale che la sedicente minaccia della Russia della quale invano si cercherebbero i sintomi. Sono stati gli Stati Uniti a non rispettare la promessa fatta da John Baker, ministro degli Affari Esteri di George Bush padre, di non avanzare di un millimetro verso est, in cambio del consenso di Mikaïl Gorbatchev alla riunificazione tedesca. Sono stati gli Stati Uniti ad avere accolto nella NATO nazioni che si trovavano tradizionalmente nella zona di influenza della Russia. E’ stato sempre Washington a organizzare un colpo di Stato in Ucraina per sostituire Viktor Yanukovych – democraticamente eletto – con una loro pedina, Petro Poroshenko. Victoria Nuland, segretaria di Stato, se ne è d’altronde vantata, precisando di avere sborsato cinque miliardi di dollari per ottenere questo risultato. In tali condizioni, è difficile rimprovevare a Vladimir Putin la sua abilità manovriera che gli ha permesso di recuperare la Crimea senza colpo ferire.
E’ stato George W. Bush a ritirarsi dal trattato sui missili antimissili. E’ stato Donald Trump che ha posto termine al Trattato sulle forze nucleari intermedie. E’ sempre lui che ha annullato l’Accordo di Vienna sul nucleare iraniano. Con queste tre decisioni, gli Stati Uniti hanno distrutto l’archiettura della «distensione», il periodo di coesistenza durante il quale Russi e Statunitensi – resi avvertiti dalla crisi di Cuba che permise loro di misurare la gravità dell’abisso nucleare – hanno concluso diversi accordi per evitare che potesse scoppiare una guerra nucleare per negligenza umana o errore tecnico. Distensione, un’espressione che i neoconservatori aborriscono, loro che sognano l’egemonia. E’ stato Donald Trump, infine, che in spregio delle regole internazionali ha accordato la sovranità sulle alture del Golan a Israele. C’è da stupirsi? No, perché gli imperi non si sottomettono mai alle regole comuni.
Non deve quindi sorprendere la decisione di Mike Pompeo, segretario di Stato, l’8 aprile scorso, di includere i Guardiani della Rivoluzione iraniana tra le organizzazioni terroriste. Le analisi si chiedono il perché di questa decisione. Si tratta, come suggerisce la CNN, di aiutare Benjamin Netanyahu a vincere nuovamente alle elezioni del 9 aprile? E’ una trappola, una provocazione per spingere l’Iran a riprendere le ricerche per la fabbricazione dell’arma nucleare, cosa che autorizzerebbe gli USA a intervenire militarmente? Il colonnello Lawrence Wilkerson, ex capo di stato maggiore di Colin Powell – l’ex ministro degli Affari esteri di George W. Bush -, non lo crede. Ci vede la manina di John Bolton e dei neoconservatori, aggiungendo che il mondo è stanco («sick and tired») degli ultimatum USA che, spesso, si ritorcono contro gli stessi Stati Uniti. In ogni caso, questa decisione isola un po’ di più l’Iran, in direzione del tanto atteso regime change. Essa vieta a tutti gli Stati, a tutte le istituzioni internazionali e a tutte le imprese di negoziare col governo iraniano. Come reagiranno la Russia e la Cina? Che cosa farà Washington se queste due nazioni ignoreranno il suo diktat?
Con simili decisioni, gli Stati Uniti accrescono la tensione internazionale senza troppo guadagnarci. Le sparate di John Bolton, consigliere per la Sicurezza Nazionale, e di Mike Pompeo, ministro degli Affari Esteri – veri Stanlio e Ollio della diplomazia statunitense -, mal nascondono la loro debolezza di fronte a eventi che non riescono più a controllare. La politica di regime change perseguita da Washington è destinata a fallire quando i popoli si mobilitano al fianco dei loro leader: Vietnam, Cuba, Siria e Venezuela. Ma la tensione che essa crea ci avvicina alla mezzanotte – l’ora simbolica scelta da alcuni scienziati all’indomani delle esplosioni di Hiroshima e di Nagasaki per misurare il tempo che ci separa dall’Apocalisse nucleare. Dai 7 minuti del 1947, la lancetta si è allontanata di 17 minuti dall’ora fatidica nel 1991, dopo esservisi avvicinata fino a soli 2 minuti dal 1953 al 1959. E’ tornata ai 2 minuti nel 2018, e c’è da temere che vi si avvicini ancora in vista dei recenti avvenimenti.
Non sembra che queste considerazioni abbiano posto nelle riflessioni dei decisori statunitensi, nonostante i numerosi inviti alla prudenza formulati da diversi dei loro ex dirigenti. Recentemente Daniel Ellsberg, noto per avere pubblicato i Pentagon Papers, ha scritto un libro intitolato The Doomsday Machine, richiamandosi al film di Stanley Kubrick, Dottor Stranamore, nel quale il presidente statunitense apprende che i Sovietici hanno messo a punto una macchina che si mette in moto automaticamente, senza che sia possibile fermarla anche se avviata per errore. Il messaggio di Daniel Ellsbert, ex quadro superiore della Rand Corporation (il think tank del Pentagono) è chiaro: «siamo sul bordo del baratro».
Questa cecità si spiega con una paranoia endemica dei dirigenti statunitensi che risale ai primi anni della Repubblica. I Padri fondatori temevano di essere attaccati dalle Potenze europee. Per far fronte ad una simile eventualità, Alexander Hamilton auspicava un governo federale forte, dotato di un esercito e una marina. John Adams, il secondo presidente, parlava della necessità di erigere un «muro di legno», indicando con questa espressione una marina (composta di vascelli all’epoca di legno, ndt) potente. Questa paranoia si esprime attraverso una pletora di analisi e di documenti che si sono succeduti a un ritmo accelerato negli ultimi anni: National Security Strategy (dicembre 2017), National Defense Strategy (febbraio 2018), Nuclear Posture Review (febbraio 2018), Worldwide Threat Assessment (gennaio 2019). Chi è il nemico? Quali i suoi obiettivi e i suoi mezzi? Non ci si capisce niente, se non che gli Stati Uniti hanno bisogno di un nemico. E’ quello che si dice spesso per giustificare le alte spese per la difesa. Ma il male è più profondo. E’ il riflesso di una paranoia ricorrente. Il blob ha bisogno di un nemico per esistere.
Va da sé che l’intensificarsi della tensione nelle relazioni internazionali non è da addebitarsi solo agli Statunitensi. La politica di Pechino nel Mare della Cina è inquietante, come anche la sua inizitiva One Belt One Road, dietro la quale si nasconde una volontà di potenza appena mascherata. Ciò detto, la Cina continua a dipendere economicamente dal mondo occidentale per la sua crescita e dunque deve mostrarsi prudente. Spetta agli Occidentali non farsi abbindolare dai suoi giochi. Per contro, c’è poco da temere dalla Russia, al contrario di quanto lasciano intendere molti uomini politici, il segratrio generale della NATO e i grandi media. La sua economia, appena uguale a quella dell’Italia, non le consente di intraprendere una politica aggressiva. Essa reagisce agli eventi, più che suscitarli. Approfitta degli errori degli Stati per avanzare le sue pedine.
Un presidente che l’élite di Washington non si aspettava
Donald Trump è un narciso che non dovrebbe stare alla Casa Bianca. E’ l’eletto dei «deplorevoli» (espressione con cui Hillary Clinton definiva i poveracci, ndt), dei reietti della mondializzazione, della rivoluzione digitale e della mutazione robotica, vale a dire di tutte quelle persone che i suoi predecessori, Bill Clinton, George W. Bush e Barack Obama, avevano superbamente ignorato. E’ anche l’eletto di Robert Mercer e di Sheldon Adelson. L’uno e l’altro hanno contribuito con 25 milioni di dollari alla sua campagna presidenziale. Il loro contributo non era disinteressato. Il primo deve 6.8 miliardi di dollari al fisco statunitense, e il secondo voleva che Gerusalemme diventasse la capitale di Israele. Robert Mercer ha messo Cambridge Analytica – società dalla dubbia reputazione che controllava e che poi è sparita – a disposizione di Donald Trump.
Le speranze dei suoi elettori possono essere solo deluse. E’ un uomo solo, senza organizzazione né esperienza. Non ha un pensiero politico proprio. E’ un elettrone libero. Bisogna essere degli ingenui per credere che prosciugherà la palude. Inoltre Trump non ha nessuna voglia, per non parlare della capacità, di scuotere l’intera macchina washingtoniana. Franklin Roosevelt, che pure godeva di grande popolarità in circostanze insolite, incontrò enormi difficoltà. Ciò detto, c’è un desiderio di pace in Donald Trump. Ha espresso il desiderio di migliorare le relazioni con la Russia e di fare la pace con la Corea del Nord. Ha anche espresso la volontà di ritirare le truppe USA che stazionano illegalmente in Siria (proprio come le truppe francesi). Il Russiagate gli ha impedito di perseguire la sua politica russa. John Bolton ha sabotato il suo piano di pace nord-coreano, e i militari si sono opposti al ritiro delle truppe.
Il Russiagate è uno scandalo inventato dal Partito democratico, con il probabile assenso di Barack Obama. Hillary Clinton avrebbe dovuto diventare la prima donna presidente degli Stati Uniti, con l’appoggio dei neoconservatori e di Wall Street. E’ apparso però sui radar un iconoclasta che non godeva del sostegno del suo stesso partito. Non è né neoliberista, né neoconservatore. Era dunque pericoloso agli occhi dell’establishment. Bisognava quindi fermarlo nella sua corsa alla Casa Bianca. Si chiese perciò alla CIA e allo FBI di occuparsene. Venne creato uno scenario sconclusionato, comprendente anche un ex elemento dei servizi segreti britannici, una prostituita di lusso, intercettazioni telefoniche, campagne di stampa, ecc. Il tutto senza alcuna prova a sostegno. Eppure, contro ogni attesa, Donald Trump venne eletto presidente dall’Electoral College. Ironia della sorte, questa istituzione che risale alle prime ore della Repubblica ha proprio la funzione di impedire l’accesso alla Casa Bianca di individui di tal genere. Furiosamente impazzito, l’établissement washingtoniano ha raddoppiato gli sforzi per raggiungere i suoi scopi e destituire il presidente, inventando interferenze russe nelle elezioni USA. Un delirio totale. Robert Mueller, ex direttore della CIA, quindi membro di pieno diritto del blob, venne nominato procuratore speciale per investigare su questa vicenda. Sapeva cosa ci si attendeva da lui ma, ahilui, nonostante gli sforzi, non ha trovato niente. Caso chiuso.
Chi si stupisse di vedere gli Stati Uniti abbandonarsi a simili pratiche poco democratiche, dovrebbe ascoltare lo storico Peter Kuznick spiegare come Henry Wallace, vice-presidente di Franklin Roosevelt, venne eliminato dalla corsa alla Casa Bianca durante la Convenzione democratoca del 1944, o ricordare l’elezione di George W. Bush per una semplice decisione della Corte Suprema, dopo un voto molto contestato nello Stato della Florida dove Jeff Bush, il fratello del candidato, era governatore.
La maledizione delle ideologie
Le idelogie conducono le nazioni che vi si sottomettono a perdersi. Il neoliberismo svuota gli Stati Uniti della loro sostanza economica. Il neoconservatorismo è fuori del tempo quando persegue una politica di dominio che viene respinta dalla comunità internazionale. Potenzialmente, uno dei più grandi errori è l’uso che gli Stati Uniti fanno del dollaro. Il suo ruolo nelle trasazioni economiche è stato rafforzato nel 1973 con la creazione dello SWIFT [6]. Questo sistema velocizza e rende sicure le transazioni in dollari in tutto il mondo. Viene utilizzato da più di 11.000 banche in 200 paesi. Grazie ad esso, il dollaro la fa da padrone. Esso è uno dei pilastri della potenza statunitense: ma l’uso che ne fanno le autorità statunitensi minaccia la sua supremazia. Utilizzandolo come arma di guerra, in maniera extraterritoriale, quindi illegale, per imporre le loro decisioni a paesi considerati «non amici» – come l’Iran per esempio -, esse costringono questi paesi a servirsi di altre divise nelle transazioni coi loro partner commerciali. Si tratta di una politica potenzialmente dannosa per gli Stati Uniti. Spinge nazioni come la Cina e la Russia a «de-dollarizzarsi» per evitare di incappare in possibili rappresaglie.
Consapevili del patente fallimento della politica statunitense sia all’interno che all’estero, persone realiste come Stephen Walt, John Mearsheimer, Paul Craig Roberts, Stephen Cohen e molti altri teorizzano politiche più in armonia con le risorse della nazione USA e adeguate al mondo in cui viviamo. Senza esito per il momento. Sul piano politico, personalità come Bernie Sanders [7], Rand Paul [8], Tulsi Gabbard [9], Elisabeth Warren [10] e Alexandria Ocasio-Cortez [11] contestano il funesto ingranaggio nel quale gli Stati Uniti si sono intrappolati. Il punto di non ritorno è stato forse raggiunto. In un libro recente, Graham Allison esprime il timore che gli Stati Uniti e la Cina vengano presi da quella che definisce la trappola di Tucidide – lo storico greco che ha raccontato nelle Guerre del Peloponneso come l’imperialsimo ateniese provocò la rovina di Atene, battuta dalla sua rivale, Sparta. Il messaggio dell’autore è chiaro, senza ambiguità, con la differenza che i nostri leader hanno oramai i mezzi per distruggere la quasi totalità della vita sulla terra. Ammoniti da questo antico esempio, dimostreranno di avere la saggezza di costruire un mondo multipolare dove la Carta delle Nazioni Unite ritroverà interamente il posto che le spetta nella guida delle nazioni?
Note:
[1] Con gli Accordi di Bretton Woods (New Hampshire), i delegati di 44 nazioni accettarono la proposta del rappresentante del Tesoro USA, Harry Dexter White, di legare il dollaro all’oro. Il suo prezzo sarebbe stato fisso. Un’oncia d’oro equivalente a 35 dollari. Con le altre monete legate al dollaro, questo accordo creava un’architettura stabile che favoriva gli scambi commerciali. I costi della guerra del Vietnam e una riduzione del tasso di crescita accrebbero il deficit di bilancio degli Stati Uniti. Una cattiva performance che inquietava i loro partner commerciali, soprattutto la Germania e la Francia che, vedendo il dollaro deprezzarsi, vendettero i loro dollari in cambio dell’oro degli Stati Uniti. Le riserve statunitensi di oro crollarono, passando dalle 22.000 tonnellate del 1948 alle 9.000 del 1970. Preoccupato da questa evoluzione, Richard Nixon decise di spezzare il rapporto fisso tra dolalro e oro il 15 agosto 1971. Il prezzo dell’oro aumentò e gli acquisti cessarono. Questa decisione decretava il fallimento degli Accordi di Bretton Woods.
[2] Il ratio di Borsa è il ratio del valore di un’impresa diviso per il suo risultato netto.
[3] Il numero di queste persone è pari allo 0,1% della popolazione totale.
[4] In dollari 2017. Statistiche del Census Bureau.
[5] Fonte: SIFRI.
[6] Società per le telecomunicazioni finanziarie interbancarie nel mondo.
[7] Bernie Sanders era il candidato dei delegati alla Convenzione del Partito Democratico, ma è il comitato di direzione che decide. Scelse Hillary Clinton.
[8] Senatore del Kentucky.
[9] Deputato della Camera dei Rappresentanti, ex ufficale dell’esercito USA che ha combattuto in Iraq.
[10] Senatrice del Massachussetts ed ex professore di economia all’Università di Harvard.
[11] Alexandria Ocasio-Cortez che, dopo una brillante campagna elettorale, è stata eletta alla Camera dei Rappresentanti.