L’EXPRESSION – 24 giugno 2010


Il Kirghizistan nella bufera
di Chems Eddine Chitour *

“Quando i ricchi si fanno la guerra, sono i poveri a morire” Jean-Paul Sartre

L’immediata attualità ci ha colpito questa settimana col calvario di una minoranza etnica: gli Uzbechi in territorio kirghiso. Bisogna dire che questo XXI secolo ha già visto ogni  tipo di guerre, soprattutto religiose: 3 conflitti su 4 riguardano mussulmani.  Vi son o anche conflitti etnici e, nella fattispecie, quello che accade in Kirghizistan è considerato tale. C’è anche il conflitto territoriale. Tutti questi scontri buttano in strada centinaia di migliaia di rifugiati. Qualche giorno fa è stata celebrata la “Giornata del rifugiato”. Abbiamo saputo che vi sarebbero più di 40 milioni di persone sradicate dalla loro terra e che, per la maggior parte, sono destinate a vivere per tutta la vita in questa situazione, come i Palestinesi. Oltre ai rifugiati “classici”, sono apparse altre categorie di rifugiati: i rifugiati economici alla ricerca dell’eldorado, i rifugiati climatici vittime dei cambiamenti climatici. Il Mondo avrà sempre di più dei senza patria.
Régis Genté analizza la crisi Kirghisa. I pogrom contro gli Uzbechi avrebbero provocato centinaia di morti nel sud del paese. Ci sono poche cose come l’odio etnico che possano distruggere con altrettanto accanimento. Och, la capitale del sud del Kirghizistan, assomiglia, in certi quartieri uzbechi, a quelli un tempo devastati dalle orde di Gengis Khan, il capo mongolo. Nell’avenue Mazalief, le case da the, dove gli uomini hanno l’abitudine di passare gran parte del loro tempo, sono tutte distrutte. Chi sono i loro proprietari? “Degli Uzbechi” (…) Non hanno più un tetto. Qui e là si leva ancora del fumo dalle macerie. L’odore degli pneumatici e delle materie plastiche bruciate appesta l’aria (…) Le case sono state attaccate a colpi di bottiglie Molotov. Sulla maggior parte dei muri c’è scritto “sarty”, che vuole dire “sporco commerciante taccagno”. La comunità uzbeca, il 40% del sud Kirghizo dove si è avuta la maggior parte delle vittime, ha il torto di praticare il commercio e di essere abile negli affari. I sopravvissuti hanno solo una paura: di diventare nuovamente un bersaglio (Régis Genté: Les bandes armée font régner leut loi. Le Figaro International 14.6.2010).
Secondo il Cicr (Comitato Internazionale della Croce Rossa), più di mezzo milione di uzbechi del Kirghizistan si sarebbero rifugiati nel vicino Uzbechistan, dove sono stati aperti dei corridoi umanitari. Perché tanto odio? Fin dal rovesciamento del presidente Bakiev, il 7 aprile scorso, il paese è nel caos. Kourmanbek Bakiev tenta probabilmente di far pagare la sua caduta al suo nemico, l’attuale governo provvisorio. La povertà, la mancanza di terra, l’etnonazionalismo coltivato da anni avrebbero fatto il resto, in una regione che gli odi interetnici avevano già incendiato nel 1990, con un bilancio di 300 morti. Riunitosi d’urgenza il 14 giugno a Mosca, L’Organizzazione del trattato della comune sicurezza, che raggruppa sette paesi dell’ex-Urss, ha dichiarato di “non escludere di potere utilizzare qualsiasi mezzo” a sua disposizione per stabilizzare una situazione che il presidente russo ha definito “intollerabile”

Una vera polveriera
Da parte sua, il Consiglio di sicurezza dell’ONU ha “condannato” i “ripetuti atti di violenza” nel paese nella Repubblica dell’Asia Centrale del Kirghizistan e lanciato un appello alla “calma e al ritorno allo stato di diritto, così come ad una soluzione pacifica del conflitto”. L’Alto Commissario delle Nazioni Unite per i rifugiati (HCR) ha annunciato che avrebbe inviato “aiuti ed una equipe di emergenza” in Uzbekistan. A Och, seconda città del Kirghizistan,secondo l’agenzia AFP, si odono degli sporadici colpi d’arma da fuoco nelle strade dove i corpi carbonizzati e le case incendiate testimoniano della violenza degli scontri.
Malgrado i discorsi rassicuranti del governo provvisorio, la situazione è lontana dall’essere stabilizzata nel su del Kizghistan (…) A Djalal-Abad, raggiunta dagli scontri, le strade sono vuote, attraversate solo da gruppi armati, o dagli abitanti che tentano di proteggere le loro case o i loro quartieri (…) Di fronte a questa esplosione di violenza e di odio, i cittadini kirghizi cercano i colpevoli. D’altra parte questo scontro interetnico non è nato dal niente. I Kirghizi e gli Uzbechi vivono fianco a fianco da decenni, parlano una lingua molto simile e condividono la stessa religione, l’islam. Ma il territorio che si dividono è una vera polveriera. La valle della Ferghana, dove sono scoppiate le violenze dei giorni scorsi, è un territorio ricco e fertile, diviso dal 1991 tra tre paesi: il Tajikistan, l’Uzbekistan e il Kirghizistan. Gli Uzbeki, coltivatori sedentari, famosi per il loro istinto commerciale, si sentono qui a casa loro e mettono in discussione il legittimo insediamento dei Kirghizi, antico popolo di pastori nomadi (Mathilde Goanec: Kirghiz et Ouzbeks vivent dans la peur. Nouvelobs. Com 15 giugno 2010).
Asel Doolotkeldieva, specialista dell’Asia Centrale, ricercatrice a Ceri (Francia), fornisce un’altra chiave di lettura. Per lei “l’attuale conflitto è più legato a una cattiva gestione da parte dello stato dell’accesso all’educazione pubblica, alla medicina e ai servizi pubblici, che a tensioni etniche tra Kirghisi e Uzbechi. Doolotkeldieva riconosce che lo Stato non ha mai posto in essere delle vere politiche a vantaggio delle minoranze nazionali e che le discordie interetniche hanno sempre servito gli obiettivi del potere (soprattutto il presidente deposto, Kourmanbek Bakiev). (…) la violenza non è esplosa per caso. E’ piuttosto il risultato di una preparazione ed una organizzazione minuziose. Le rivendicazioni della comunità uzbeka durante tutto il mese di maggio e l’incuria degli uomini politici kirghisi hanno contribuito ad inasprire una situazione già tesa” (Asel Doolotkeldieva: La crise au Kirghizistan est d’abord “socio-economique”. Site France Culture 18.6.2010).
Stato povero dell’Asia centrale, il Kirghizistan ha una grande importanza strategica, in quanto ospita sia una base militare russa che una degli USA, cruciale per l’invio di truppe in Afghanistan. Infatti il Kirghizistan è ostaggio di una partita in mano di altri. Dopo il crollo dell’impero sovietico, il mondo è stato per quasi due decenni unipolare con la superpotenza USA, secondo la felice espressione di Hubert Védrine, prima che la Russia si riprendesse e che emergessero nuovi poli che reclamano la loro parte di potere, come nel caso della Cina.
Il giornalista statunitense F. William Engdahl analizza le carte dei tre attori che si giocano la partita in Kirghizistan e nella regione. “Lo scenario più improbabile , scrive, è quello di una ribellione spontanea che nasca all’interno stesso del paese. In effetti il Kirghizistan è al centro dei conflitti di interesse tra potenze regionali e sopraregionali (…) Nel più profondo dell’Asia centrale, il Kirghizistan costituisce ciò che lo stratega inglese Halford Mackinder avrebbe definito il cardine (…) Vi sono state proteste nei confronti del presidente Bakiev nel marzo scorso dopo la rivelazione di sospetti di corruzione aggravata a carico suo e dei membri della sua famiglia. (…) Ha piazzato il figlio e altri parenti in posti chiave dove hanno accumulato molto danaro – si stima intorno agli 80 milioni di dollari all’anno – in cambio dell’attribuzione agli Stati Uniti del diritto di istallare una base aerea a Manas e per altri contratti (…) Durante le rivolte dell’inizio di marzo, la signora Otounbaieva è stata nominata portavoce del Fronte Unito, formato da tutti i partiti di opposizione. All’epoca la stessa invitava gli Stati Uniti ad assumere una posizione più attiva contro il regime di Bakiev e il suo carattere antidemocratico: invito lasciato manifestamente senza risposta (F.William Engdahl: A qui profite la révolution au Kirghizistan? –Réseau Voltaire 13.6.2010).
“Mosca è stata la prima a riconoscere il nuovo governo ed ha anche proposto 300 milioni di dollari per un aiuto immediato alla stabilizzazione, trasferendo una parte del prestito di 2,15 miliardi di dollari accordato dai Russi nel 2009 al regime di Bakiev. In partenza questi 2,15 miliardi di dollari erano stati accordati proprio in seguito alla decisione di Bakiev di chiudere la base militare USA di Manas: decisione che i dollari USA hanno cancellato qualche settimana più tardi. Nell’ottica di Mosca, il suo aiuto e l’annuncio della chiusura della base di Manas erano strettamente legati (…) Ancora oggi non è possibile stabilire in maniera chiara se le cose siano state manovrate dall’estero o meno, e, in caso positivo, se dal FSB russo, o dalla CIA, o da qualche altro servizio. Il 7 aprile 2010, mentre Bakiev perdeva il controllo della situazione, gli Stati Uniti avrebbero ricoverato il presidente e la sua famiglia nella città natale di Och (…). Molti giorni prima di questa fuga, l’esercito e la polizia si erano allineati all’opposizione guidata da Otounbaieva, circostanza che conferma l’idea di una strategia molto ben pianificata almeno da parte di un pezzo di opposizione”.

Una regione molto ricca
F. William Engdahl spiega che, non solo la posizione geografica del Kirghizistan è importante , ma esso possiede anche un sottosuolo assai ricco. “Oggi il Kirghizistan occupa una posizione di perno geografico. Questo paese divide una frontiera con la provincia cinese del Xinjiang, una zona altamente strategica per Pechino. Più ancora, la valle del Ferghana, la cui esplosiva situazione politica è dovuta alle sue importanti risorse naturali, si estende su una parte del Kirghizistan; (…) In termini di risorse naturali, eccetto l’agricoltura che rappresenta 1/3 del PIL, il Kirghizistan possiede oro, uranio, carbone e petrolio. Nel 1997 la miniera d’oro di Kumtor  ha avviato lo sfruttamento di uno dei più grandi giacimenti auriferi del mondo. (…) Il Kirghizistan possiede anche importanti risorse di uranio e antimonio. Ha considerevoli risorse di carbone,stimate in 2,5 miliardi di tonnellate, per lo più situate nei giacimenti di Kara-Keche, al nord del paese”.
E tuttavia, ancora più cruciale delle ricchezze minerarie, resta la principale base dell’US Air Force a Manas, aperta nei tre mesi che hanno seguito il lancio della “guerra globale contro il terrorismo” nel settembre 2001. Poco dopo, la Russia ha installato una sua propria base militare non lontano da Manas. Oggi il Kirghizistan è il solo paese ad accogliere insieme una base militare USA ed una russa, uno stato di fatto piuttosto scomodo (…) Nel corso di una dichiarazione durante la sua visita ufficiale a Washington il 14 aprile, il presidente russo Dimitri Medvev esprimeva le sue preoccupazioni a proposito della stabilità del Kirghizistan: “Il rischio di vedere il paese dividersi in due parti – l’una al nord e l’altra al sud – è reale.  E’ per questo che nostro dovere è di aiutare i nostri partner kirghizi a trovare una soluzione di uscita equilibrata da questa situazione” (…) Con ogni evidenza Washington e Mosca desiderano ardentemente di imporre la loro presenza , quello che sia il governo che si imporrà in questo paese dell’Asia centrale.  (…) Una delle questioni più pressanti per Washington è quella, vitale, dell’avvenire della base aerea di Manas, situata vicino alla capitale Bichkek. In un comunicato ufficiale del Dipartimento di Stato USA dell’11 aprile, il segretario di stato Hillary Clinton insiste sul “ruolo importante che il Kirghizistan svolge ospitando il centro di transito dell’aeroporto di Manas” (…) “All’epoca Akaiev propose di cedere al pentagono la sua più grande base militare della regione , quella di Manas. La Cina, che divide una frontiera col Kirghizistan, si è allarmata e, di concerto con la Russia, spinse l’Organizzazione del trattato di cooperazione di Shanghai ad opporvisi e lanciò un appello al ritiro delle truppe presenti nelle basi USA dell’Asia centrale (…) Philip Shishkin del Wall Street Journal notava: avviando una diplomazia della Strada della seta e mirando alla repressione della guerriglia portata avanti dagli Uiguri, le posizioni assunte da Akaiev per allineare il suo paese con Pechino hanno esasperato Washington che vede nella Cina un ostacolo al suo programma di espansione strategica (…) la caduta del governo filo cinese del presidente Akayev, caduto in disgrazia, non è stata una vittoria da niente per la politica di contenimento”.
Analizzando i comportamenti del terzo attore in campo, la Cina, ci si accorge che il “metodo di approccio” del governo kirghiso è differente; la Cina non chiede basi militari, al contrario cerca di aiutare lo sviluppo e la stabilizzazione della regione. “Oggi, scrive F. William Engdahl, sembra logico che la Cina sia la potenza più interessata all’avvenire politico del Kirghizistan (…) Lo Xinjiang è un crocevia vitale della rete di gasdotti che trasportano le risorse energetiche in Cina dal Kazakhstan e, a termine, dalla Russia. Lo Xinjiang ospita importanti riserve di petrolio, indispensabili al consumo domestico della Cina (…) Nel giugno 2001 la Cina, la Russia, l’Uzbekistan, il Kazakistan, il Tagikistan e il Kirghizistan hanno firmato l’atto di nascita dell’organizzazione del trattato di cooperazione di Shanghai. Tre giorni dopo, Pechino ha ufficializzato un prestito importante al Kirghizistan per l’acquisto di materiale militare (…) Pechino non è un osservatore passivo degli avvenimenti kirghizi. Chiaramente la Cina si prepara a giocare la sua carta migliore, quella economica, per assicurarsi relazioni più strette e più amicali col nuovo governo kirghiso, qualsiasi sia. Nel giugno 2009, nel corso di un’assemblea dell’Organizzazione di cooperazione di Shanghai a Ekaterinbourg in Russia, il presidente cinese Hu Jintao ha promesso un fondo di 10 miliardi di dollari per un  programma di aiuto futuro, destinate alle Nazioni-membri dell’Asia centrale: il Kazakistan, il Tagikistan, l’Uzbekistan e il Kirghizistan. Washington non si è avvicinata neppure ad una tale somma nelle sue promesse ai Kirghizi (…) Il ministro delle ferrovie cinese ha annunciato uno dei progetti più ambiziosi del mondo contemporaneo. Attraversando il Kirghizistan, le linee ferroviarie raggiungeranno lo Xinijang e poi la Germania, fino a Londra nel 2025 (…). Per la Cina, l’Afghanistan e il Pakistan sono due elementi  vitali nella sua rete di distribuzione e scambio con l’Iran (…) E’ in questo contesto globale che la stabilità politica in Kirghizistan è essenziale alla Cina”.
Resta inteso, saranno sempre i deboli a servire come “variabili di aggiustamento” in caso di conflitto. I conflitti saranno sempre più ricorrenti. Una tettonica delle placche è sul punto di trasformare il mondo, tanto più che le risorse, soprattutto energetiche, diventano rare e la competizione diventerà sempre più rude. Guai ai paesi deboli che dispongono di risorse naturali, essi saranno le prime vittime delle potenze, quale che sia la loro ideologia. L’essenziale è di perpetuare la loro potenza.

*Ecole nationale polytechnique



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