«Se c’è una cosa che davvero detesto, è di essere ignorato»
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In cauda venenum, 28 gennaio 2019 (trad.ossin)
«Se c’è una cosa che davvero detesto, è di essere ignorato»
Bruno Adrie
Da quel giorno non mi guardano più. Io li seguo per strada, li chiamo, passo davanti a loro, li insulto persino, proprio in faccia, e loro non mi guardano più. Fanno come se non ci stessi, come se non esistessi. Gli ingrati! Dopo tutto quello che ho fatto per questo paese, per la pace sociale e perché la ricchezza goccioli sulla nazione! A volte stringo i pugni e li colpisco, li prendo anche a calci, ma niente, continuano a marciare, si direbbe che non sentono niente, che non vogliono sentire niente, che hanno giurato di ignorarmi.
Se c’è una cosa che davvero detesto, è che mi ignorino.
Ho talmente bisogno di essere amato.
Eppure li capisco. Ho insegnato loro tanto. Non ho forse insegnato loro a responsabilizzarsi, ad alzarsi presto e a mettersi in cammino, a lavorare al servizio del profitto che profitta a tutti, piuttosto che vivere a scrocco della società? Non li ho forse spinti a farsi carico di loro stessi, a non aspettarsi tutto da quelli che stanno più in alto, dai sapienti depositari di grandi segreti, informati del futuro del mondo e relatori delle ordinanze stellari cui appartengo? Non li ho forse incitati a uscire da quello stato vegetativo che mi fa schifo sopra ogni altra cosa, a sortire da quel torpore volontario che ha portato il paese a ripiegarsi su se stesso? Perché ovviamente è fuori questione per noi voltare le spalle all’avventura più formidabile che l’umanità ha l’opportunità di vivere: la fine delle nazioni, la loro fusione in insieme più vasti, più belli, più aperti all’evasione fiscale e alla protezione dei dividendi. Io ho indicato loro il cammino, ho mostrato loro come rispondere alle sfide, come rendere le loro vite delle vite utili all’arricchimento di pochi. Ho fatto di tutto perché aderiscano al mio progetto e ammettano che la sua realizzazione deve passare per il necessario sacrificio dei bisognosi – non ci può essere grandezza senza tragedia, non può esserci rinascita senza agonia, non può esservi… ! Le parole mi mancano quindi urlo e la mia voce si spezza.
Urlo e piango perché, al momento attuale, il mio progetto è bloccato, ristagna, trattenuto come un’onda furiosa dagli argini eretti dai pregiudizi cementificati di un popolaccio conservatore.
Eppure tutto era cominciato bene. Me lo ricordo…
(Sorride, di un sorriso che lascia intravvedere due incisivi isolati come i denti di un ippopotamo nano)
Mi ricordo gli applausi pagati – oh non troppo cari – che imitavano intorno alla mia pedana l’agitazione di un mare agitato. Mi bastava levare le braccia perché il clamore ricominciasse, come una leonessa agli ordini del domatore, che salta al suo comando – meraviglia del Short Message Service della telefonia mobile – rispondendo alle mie urla – così inebrianti e tanto a lungo ripetute davanti a colei che mi ha insegnato tutto. Io mi vedevo come un Dio che scatenava le forze della natura, liberava dalle catene questo furore docile che, a un mio segnale, tornava a ripiegarsi nei miei pugni, prima di rilasciarlo di nuovo. Il pubblico era sbalordito da questa dimostrazione del mio potere – tutti quegli utili miserabili che si ubriacano tanto facilmente col cattivo vino della propaganda.
Trasportato da questo clamore – e dai soldi dei miei sponsor – ho toccato la vetta. Il vecchio è morto perché l’uomo nuovo possa rinascere. Una piramide mi ha dato alla luce. Io sono uscito dalle sue viscere oscure e criptiche e, da solo, del tutto solo, con uno sguardo serio – che ha richiesto molte ore di allenamento con colei che fin dall’inizio è stata la mia allenatrice – ho mosso i primi passi goffamente – ero emozionato e avevo paura di cadere – davanti agli stupidi, ammutoliti davanti a questa immagine. Era l’inizio di un bel numero, di un bello scherzo cosmico, di una trappola meravigliosa tesa ai cervelli lavati dalla propaganda, e sicuri che la mia intelligenza non ha eguali nel riempire gli animi di sogni ingannevoli e ingannati. E’ questo che mi diceva il mio responsabile alla banca, quando facevo soldi, quando ero pagato per abbindolare, per allettare, per addormentare, per ottenere una firma, firmi e poi ciao ciao, arrivederci, stretta di mano calorosa al sole ipocrita di un sorriso glaciale. Non si sbagliavano i miei responsabili. Hanno subito capito che sarei andato lontano in questo campo e avrei potuto imbrogliare alla grande uomini che non chiedono altro che di credere. «Il mio nemico è il mondo della finanza». Si era ben mosso, il vecchio, ma io potevo fare molto meglio. Perché in questo secolo di illusione e di giochi di prestigio, io sono un infallibile Houdini, un mago capace di raccogliere la Bugia stantia di altri, capace di rilanciare lo Spettacolo finito. Sono venuti a cercarmi e ho detto sì, certo, aspettavo solo questo, occupare il mio vero posto, diventare quello che ero. Volevo rendermi utile, certo, ma devo dire che io amo fare questo, so fare solo questo, mi realizzo solo nel disorientamento, mi realizzo solo quando riesco a parlare senza parlare, dopo avere svuotato le parole del loro significato per trasformarle in forme vuote, in campanelle di latta che la lingua agita e danno solo un suono morto, un’assenza di pensiero. Ah, svuotare il mondo della sua realtà, farne un immenso pallone pubblicitario, capace di attirare gli sguardi e mistificare gli spiriti, è in questo che io sono il migliore!
E’ così che quelli in basso mi hanno scelto. Hanno creduto al traboccare della mia vacuità, alle promesse che non ho fatto, alla mia giovinezza ingannevole, perché in fondo io sono vecchio e perfino molto vecchio. Hanno voluto mangiarne ancora, mi hanno seguito nei meeting – come mi piacciono le parole inglesi! – mi hanno voluto e io sono venuto e ho vinto, e adesso sono qui e non me ne andrò mai più. Appena arrivato, appena sistemato sulla poltrona – la mia bella poltrona – sotto gli ori repubblicani, subito dopo la foto, quella ufficiale, in piedi davanti alla scrivania, apparentemente disteso, abito elegante – ah, i miei occhi blu come sono belli, come seducono – ho iniziato a smantellare – entrate, lo Stato, la Giustizia, i posti di lavoro, le pensioni, tutto quello che volete, ma non le ricchezze, io so quel che faccio – e, contemporaneamente, a tessere – imposte, tasse, tassi, prelievi dai poveri. Dai poveri! Perché non posso nascondervelo: quello che tesso meglio, è la povertà! Che qualche imbecille non lo veda e mi sostenga ancora nei sondaggi, è qualcosa che non capisco e non cercherò di capire, ma mi fa piacere, il mio cuore trabocca di gioia immanente.
E poi sono uscito. Avanti e indietro, sono andato a trovare i ladri, gli oziosi, i proletari che non si sanno vestire e che tirano la cinghia, drogati dai sussidi, iniettati di bonus. Ho stretto loro la mano nascondendo il disgusto – mani sporche di analfabeti, Dio solo sa che cosa avevano toccato, ma per fortuna avevo il fazzoletto – ho dato loro qualche lezione di morale - non sono forse il padre della nazione? – subito riprese dai giornali dei miei padroni, pardon, dei miei amici, che esaltavano al tempo stesso la mia franchezza e la complessità di un pensiero tratto da fonti diverse nel corso dei miei anni di studi, estrapolato durante la mia giovinezza, durante i miei anni giovanili.
Ho fatto tutto, ho perfino attraversato le trincee – quelle del ’14 – ho pronunciato discorsi nei campi di cadaveri, nei grandi cimiteri sotto la luna, sulle tombe dei figli di una patria venduta ai potenti, di uno Stato rubato alla nazione, ma non rifacciamo la storia, così è la vita, struggle for life, è così da un’eternità e non cambierà perché io sono qui per questo.
Mi hanno scelto perché io sono il migliore nell’incasinare i cervelli.
E dopo, ecco che scoppiano i tumulti, che il popolino esce dalla sua tana, ringhiando, bocce sporche coi denti gialli o sdentate, e che parte, pugni chiusi, gridando, cantando, Marsigliese a tracolla, grida a tracolla, risalendo le strade, tracimando nei viali, occupando le rotonde, le rotonde, quelle in cui l’ipocrisia ha sepolto il milite ignoto, lo scuoiato anonimo caduto in una guerra che, oltre ai nomi dei morti, ha inciso i profitti nella roccia, i profitti dei borghesi che si sono scolpiti un impero nella carne del mondo. Ma ecco che parlo come Marx.
Con questa rivolta il mio mondo cambiava. Me ne rendevo ben conto. La mia vittoria, criticata, sarebbe stata spazzata via dal flusso nauseabondo uscito dalle fogne del profitto? Mi sono visto dovunque accusato, detestato, preso in giro. Bisognava reagire, non farsi travolgere. Sapevo bene che, contro le folle rancorose, c’è un solo rimedio: la forza. I popoli sono bambini che dei genitori severi debbono correggere quando fanno i capricci e sbattono i pugni sul tavolo chiedendo un’altra porzione di dolce. Un’altra porzione per fare cosa? La forza, che spettacolo, che talento, che schieramento di colpi di manganello, fuoco di mortaio, esplosioni di petali pepati! Davanti all’offensiva delle mie truppe di élite, le folle si ritraevano, impressionate dalle ferite che l’ordine infliggeva al disordine. Guardate quel quadro di Bruegel: La caduta degli angeli ribelli. In alto, gli angeli bianchi della polizia che difendono l’Olimpo e scacciano la feccia venuta ad attaccarli. Quale visione premonitrice del maestro che dipinge la bruttezza nera di un popolaccio che casca a testa in giù sotto i colpi dei guardiani immacolati della Buona Causa. Manco solo io in quel quadro grandioso. Forse il pittore mi ha visto nella sua estasi? Forse non ha osato! Come avrebbe potuto rendere la perfezione? Colei che mi ama me lo dice spesso che sono perfetto e che sono il primo della cordata della nazione e che devo mantenere la rotta.
Quindi tengo duro.
Mi alzo, irrigidisco le gambe, le mie labbra sputano fuoco, come sempre. Le mie mani lanciano lampi, quasi mio malgrado, come sempre. Ho caldo, scateno tempeste, nuvole dense gravano sulle strade, come sempre, Piogge di fuoco si abbattono sugli empi che si allontanano, urlando e muggendo, come sempre. E, come sempre, le mie gloriose truppe li inseguono, li abbattono, li picchiano per far loro passare il gusto dell’avventura. Nella stalla! Subito! Nella stalla! E che importa se le mangiatoie sono vuote! Cercatevi un lavoro! Chi vi ha detto che non lo troverete sul marciapiede di fronte?
Seduto nel mio ufficio, contemplo la mia foto – camicia bianca, vestito irreprensibile, cravatta annodata «pilota di linea», sorriso gelido sotto il flash filtrato. Mentre all’interfono mi informano dei progressi della repressione – corpi sparsi sul marciapiede, annegati in un mare di sangue dopo il passaggio delle mie divisioni elmate – sento improvvisamente delle grida vicine, grida di rabbia, risuonano nel corridoio, parole di volgarità inaudita, le porte ne tremano, le mie belle porte grandiose dalle modanature dorate che di colpo si scardinano. Una folla rancorosa appare nel mio scenario sereno. Stupore da entrambi i lati, ci guardiamo in silenzio, e poi c’è la corsa barbara, sono circondato, sparisco, inghiottito come un’Atlantide fiammante sotto il putrido diluvio che mi abbatte.
E poi, c’è stato il miracolo. Proprio prima che uscissi correndo in strada per seguirli quando sono usciti. Ero ancora nell’ufficio ma al di sopra della mischia. I miei poteri mi avevano salvato. Guardavo la mandria accasciata sotto di me, che grugniva, eruttava, che si accaniva non so su cosa, mordendo, graffiando, stracciando, triturando, ansimando, ingurgitando, rigurgitando, ingoiando di nuovo quanto aveva rigurgitato. «La mia poltrona!» ho gridato.
Osservava anche colei che mi segue, nascosta dietro a un paravento, spaventata, a bocca aperta, bloccata. Le ho fatto cenno di restare nascosta, di non muoversi, e lei, senza guardarmi, ma certamente rassicurata nel sapermi indenne, mi ha obbedito. Sapendola al sicuro, ho volto il mio sguardo verso l’orda che adesso se ne andava. Uno ad uno, i porci – come altro chiamarli? – uscivano sbigottiti, inebetiti, coi musi insanguinati – c’era stato bisogno di ferirli nelle strade. Stavano uscendo e ho visto, sulla mia poltrona, un vestito spiegazzato – un abito simile al mio, ma che cosa ci faceva? Non capivo – un costume a braccia aperte su cui si trascinavano come lumache alcuni pezzi di budella ancora frementi di una vita che fuggiva, tutti impregnati del sangue coagulato che avevo notato sul viso di quelle canaglie, sui loro grugni sordidi, sui loro nasi da cannibale.
Guardandoli andare, incoraggiato da un nuovo senso di invulnerabilità, sollevato davvero da una forza invisibile che mi rendeva alato, li ho seguiti per strada, li ho chiamati, sono passato davanti a loro, li ho persino insultati, proprio in faccia, e loro non mi hanno guardato. Hanno fatto come se non stessi lì, come se non esistessi. Gli ingrati!
Se c’è una cosa che detesto, è davvero di essere ignorato.
Ho talmente bisogno di essere amato.