Pravda statunitense: Olocausto e Nakba
- Dettagli
- Categoria: Le Schede di Ossin
- Visite: 2210
Le schede di ossin, 22 gennaio 2024 - In Occidente si parla sempre dell'Olocausto, pochissimo della Nakba, la catastrofe del popolo palestinese scacciato dalla sua terra a opera dei sionisti. Eppure se la Nakba costituisce un'innegabile realtà storica, l'Olocausto è stato talmente deformato dalla disonesta propaganda sionista, da suscitare non pochi dubbi circa la sua consistenza reale...
Unz review, 11 dicembre 2023 (trad.ossin)
Pravda statunitense: Olocausto e Nakba
Ron Unz
Eliminare l'intero popolo palestinese
I media mainstream riconoscono la Nakba
Due settimane fa il Sunday New York Times Magazine ha pubblicato una lunga storia di copertina su trent’anni di falliti sforzi di pace in Medio Oriente tra Israeliani e Palestinesi, una tragedia che ha provocato un enorme spargimento di sangue e distruzione negli ultimi due mesi. La discussione ha visto la partecipazione di tre accademici israeliani e tre palestinesi, moderata dalla scrittrice Emily Bazelon, e il tono generale – nel bene e nel male – sembrava riflettere i punti di vista storici e ideologici dei sionisti liberal che hanno la leadership editoriale del Times e di gran parte degli altri principali media statunitensi.
L'introduzione di Bazelon si componeva di pochi paragrafi e riassumeva la storia del conflitto, descritto come una lotta tra due ragioni contrapposte, con due popoli sfortunati in lotta per lo stesso piccolo pezzo di terra. Una delle prime frasi affermava che gli Israeliani vedevano la guerra del 1948 come “una lotta esistenziale per la sopravvivenza, avvenuta solo pochi anni dopo l’Olocausto”, e quest’ultimo evento, così incessantemente pubblicizzato dai nostri media, ovviamente non richiedeva alcuna spiegazione per i lettori del Times. Ma subito dopo Bazelon ha aggiunto che, per tre generazioni, i Palestinesi hanno considerato il 1948 come l’anno della loro Nakba. Quella parola araba è molto meno familiare alla maggior parte degli occidentali, quindi la giornalista ha spiegato che significa “catastrofe”, e indica le tragiche circostanze che hanno visto 700.000 Palestinesi fuggire o essere espulsi con la forza dalla loro antica patria.
Il mercoledì successivo, un altro articolo del Times sul conflitto Israele/Gaza collegava similmente l’Olocausto e la Nakba, questa volta in un’unica frase, come aveva fatto un diverso articolo del Times una settimana prima. In questi giorni c’è persino una voce su Wikipedia che contiene 3.300 parole su questi due traumi storici interconnessi, ciascuno così significativo rispettivamente per gli ebrei israeliani e gli arabi palestinesi, e nel 2018 è stato pubblicato un intero libro con quel titolo.
La crescente comparsa del termine Nakba nelle pubblicazioni mainstream d’élite come il Times rappresenta un’importante vittoria ideologica per la causa palestinese. I nostri media creano la realtà in cui viviamo, quindi concetti o eventi storici privi di un nome identificativo hanno molte meno probabilità di essere considerati importanti e ricordati. Pertanto, anche solo l’uso crescente di quella parola potrebbe avere un peso politico maggiore del fatto storico reale che 700.000 poveri rifugiati furono espulsi dalle loro case in Palestina.
È ormai diffuso il sospetto che gli attuali attacchi militari israeliani a Gaza abbiano lo scopo di spingere tutti i Palestinesi nel deserto egiziano del Sinai, e che si tenterà poi di fare lo stesso con i Palestinesi della Cisgiordania. Infatti, dopo aver negato per decenni la realtà della Nakba del 1948, alcuni importanti leader israeliani stanno ora proclamando a gran voce i loro piani per una nuova e molto più imponente Nakba, liberando finalmente il Grande Israele sotto il loro controllo dai suoi indesiderati abitanti palestinesi.
Non so dire quando mi sia imbattuto per la prima volta nella parola Nakba. Potrebbe essere stato alla fine degli anni ’80, quando la prima Intifada o “rivolta” infiammò il Medio Oriente, e vennero raccontate le proteste palestinesi, violente e non violente, in Cisgiordania e a Gaza contro quelli che allora erano solo due decenni di Occupazione israeliana. O forse accadde qualche anno dopo, all’inizio degli anni ’90, quando i negoziati di pace di Oslo tra Israele e l’OLP sembravano destinati a risolvere finalmente il conflitto e a portare la regione verso un accordo di pace ragionevole, che includesse la creazione di uno Stato palestinese indipendente.
Avevo già trovato spesso l'espressione “rifugiati palestinesi” in molti articoli di cronaca, con i campi delle Nazioni Unite in Cisgiordania, Gaza, Libano e altrove che ospitavano oltre un milione di quelle persone, ed ero vagamente consapevole che erano fuggiti dalle loro ex case durante la prima guerra arabo-israeliana del 1948.
I resoconti dei media che ho assorbito senza pormi troppi problemi nel corso degli anni erano stati piuttosto vaghi e sommari, e spesso presentavano gravi distorsioni o vere e proprie falsità su quegli eventi importanti, essendo pesantemente influenzati dalla propaganda di Israele e dei suoi tanti amici. Ci è stato spesso detto che la fuga dei Palestinesi era stata promossa da trasmissioni radiofoniche di tre o quattro paesi arabi vicini, che li esortavano a liberare il terreno per gli eserciti invasori che avrebbero dovuto annientare il neonato Stato ebraico. Quelle partenze erano state intese come molto temporanee, ma dopo che gli eserciti arabi professionisti furono inaspettatamente sconfitti dalle milizie sioniste disperate e non addestrate, un soggiorno palestinese destinato a durare giorni o settimane alla fine si trasformò in anni e decenni. Le gravi difficoltà della vita dei rifugiati furono aggravate dal crudele rifiuto degli Stati arabi di integrare i Palestinesi nelle loro società, un fallimento che contrastava nettamente con la rapida e riuscita assimilazione da parte di Israele delle molte centinaia di migliaia di ebrei che erano stati espulsi dai paesi arabi più o meno nello stesso periodo. In effetti, i regimi arabi vicini cercarono di utilizzare i rifugiati palestinesi semplicemente come pedine politiche contro il nuovo Stato di Israele, di cui consideravano l’esistenza con incessante ostilità. Ma poco di questo racconto era vero e i fatti storici e giuridici cruciali sono stati completamente omessi.
Come ci si poteva aspettare, la difficile vita di quelle centinaia di migliaia di Palestinesi nei campi profughi alla fine favorì l’ascesa di organizzazioni militanti violente come l’OLP, che cercavano di catturare l’attenzione del mondo attraverso attacchi terroristici di alto profilo. All’inizio degli anni ’70, i loro dirottamenti aerei attirarono l’attenzione generale e ciò fu seguito dal famigerato sequestro e uccisione di atleti israeliani ai Giochi Olimpici di Monaco del 1972. Altri gruppi terroristici, come la famigerata banda tedesca Baader-Meinhof, collaborarono spesso con l'OLP, e nel 1976 la loro operazione congiunta di dirottamento fu sventata dal coraggioso raid di un commando israeliano all'aeroporto di Entebbe in Uganda.
Prima di quegli incidenti, la difficile situazione dei Palestinesi era stata ampiamente ignorata. Ma, nel giro di pochi anni, sia l’espressione “terrorista palestinese” che “rifugiato palestinese” si diffusero nei nostri media, che hanno però continuato a dire pochissimo a proposito delle circostanze che avevano originato la loro situazione disperata.
Per contro i film di Hollywood li rappresentarono come individui malvagi, per esempio nel popolare film Black Sunday del 1977, in cui gli agenti statunitensi dell'FBI e del Mossad israeliano sventavano un complotto terroristico palestinese per uccidere 80.000 cittadini USA, facendo esplodere il dirigibile Goodyear sullo stadio del Superbowl, e il nostro stesso Presidente era una delle vittime designate.
Il quasi trionfo del movimento di negazione della Nakba
Sebbene bombe e proiettili siano state armi ampiamente utilizzati durante i 75 anni di conflitto israelo-palestinese, penso che il ruolo della copertura mediatica sia stato molto più cruciale, con gli Israeliani che godono di un enorme vantaggio a questo riguardo, dato l’ampio pregiudizio filo-israeliano dei giornalisti e delle pubblicazioni occidentali, per non parlare delle produzioni di Hollywood. Nel valutare sia gli eventi attuali che quelli passati, gli analisti attenti dovrebbero sempre tenere conto di questo pregiudizio estremo – e delle rappresentazioni falsate che esso produce – se desiderano stabilire correttamente la realtà degli eventi.
Penso che la prima ondata sostanziale di simpatia mediatica mai ricevuta dai Palestinesi possa essere arrivata sulla scia dell’invasione israeliana del Libano del 1982, culminata nel lungo e brutale assedio di Beirut. Ariel Sharon, il ministro della Difesa del governo israeliano di destra di Menachem Begin, era stato la mente di quel progetto, che provocò la morte di circa 20.000 civili palestinesi e libanesi e le sue azioni furono fermamente condannate dal corrispondente del Times Thomas Friedman. Gli infiniti riferimenti israeliani ai “terroristi” palestinesi sono stati persino ridicolizzati nei fumetti di Doonesbury:
Allora, invadere un paese arabo e assediare la sua capitale era un evento quasi senza precedenti, e con la crescente pressione diplomatica statunitense e internazionale, le forze militari dell’OLP, che erano i presunti obiettivi dell’assalto israeliano, furono evacuate sotto la responsabilità delle Nazioni Unite. Ma una volta allontanati quei combattenti, Sharon orchestrò subito dopo un raccapricciante massacro delle donne e dei bambini palestinesi indifesi lasciati nei campi profughi di Sabra e Chatila. Questo terribile evento ha prodotto un grave disastro nelle pubbliche relazioni per gli Israeliani e una rinnovata attenzione internazionale sui Palestinesi. C'era una crescente simpatia globale per la loro difficile situazione e qualche possibilità che i media statunitensi cominciassero ad occuparsi della loro espulsione originaria, anche se non ricordo alcuna discussione in proposito, per non parlare della comparsa del termine Nakba.
Dopo questa grave crepa nella travolgente tendenza mediatica filo-israeliana, non sorprende affatto che i partigiani di Israele abbiano immediatamente lanciato un improvviso e concertato contrattacco, un aggressivo tentativo di rimuovere permanentemente la Nakba dalla storia mondiale, ancor prima che quel termine facesse la sua comparsa sulla scena politica.
Come studente laureato in fisica a Stanford, ricordo che nel 1984 o 1985 venne fuori l’argomento del conflitto in Medio Oriente e uno dei miei compagni di laurea – un gentile filo-israeliano – dichiarò che l’intero “problema dei rifugiati palestinesi” era in gran parte una bufala. Con mia notevole sorpresa, spiegò che la maggior parte dei Palestinesi in realtà non erano originari della zona, ma erano invece immigrati relativamente recenti dai vicini paesi arabi, arrivati durante il decennio o due precedenti la guerra del 1948, attratti dalle opportunità economiche prodotte dai crescenti insediamenti ebraici.
Non avevo mai dedicato molta attenzione al conflitto in Medio Oriente, ma quell'affermazione mi sembrò molto sorprendente, perché contraddiceva tutto quello che avevo letto e, anche se poco convinto, mi chiedevo vagamente se potesse essere in una certa misura vera. Ovviamente, se molti o la maggior parte dei cosiddetti “Palestinesi” non fossero stati in realtà nativi della Palestina sfollati dai coloni ebrei sionisti che avevano creato Israele, ma fossero invece stati essi stessi immigrati recenti arrivati più o meno nello stesso periodo o più tardi, l’intero panorama politico dell’aspro conflitto regionale avrebbe dovuto essere riconsiderato.
Alcuni anni dopo, scoprii che quelle sorprendenti affermazioni erano state presentate in un lungo ed estremamente controverso libro del 1984, lodato entusiasticamente nei circoli mainstream e filo-israeliani ma bollato come fraudolento dai suoi critici, con questi ultimi che alla fine ebbero il sopravvento provocando la graduale scomparsa dai media di quelle argomentazioni. Ma è stato solo circa un decennio fa che ho finalmente approfondito la questione e ho scoperto una storia affascinante.
Joan Peters era stata una scrittrice freelance e aveva abbandonato gli studi universitari, coltivando interesse per il Medio Oriente ma potendo contare su una scarsa esperienza di storica. Poi, nel 1984, il suo nome apparve improvvisamente come autore di From Time Immemorial, un volume straordinariamente accademico, di 600 pagine con quasi 2.000 note a piè di pagina, un libro che affermava rivoluzionariamente che i Palestinesi non esistevano realmente come popolo. Secondo quanto ha scritto nella sua introduzione, ella aveva iniziato il progetto di ricerca anni prima, attirata dalla difficile situazione dei rifugiati palestinesi e con l'intenzione di concentrarsi sulla loro miserabile condizione, ma gradualmente incontrò sempre più indizi che dimostravano che si trattava in gran parte di un miscuglio di propaganda fabbricato dai nemici arabi di Israele. Così ha scavato per anni in archivi ammuffiti, ricercando attentamente i dati demografici, e infine producendo il suo capolavoro, che è stato pubblicato con entusiasmo da un importante editore di New York.
Un'ondata gigantesca di recensioni quasi uniformemente positive ha esaltato il suo libro, facendolo diventare un bestseller. Ancora più importante, l’autrice divenne presto la beniamina dei media elettronici, raggiungendo un pubblico nazionale molto più vasto attraverso le sue 200 o 300 interviste radiofoniche e televisive, in cui sfatava il mito diffuso secondo cui i cosiddetti “rifugiati palestinesi” erano stati occupanti di lunga data della Palestina. La sua monumentale scoperta è stata entusiasticamente approvata dai migliori studiosi accademici, dagli storici vincitori del Premio Pulitzer e persino da uno o due premi Nobel.
Allora, il panorama dei media era molto più gerarchico e chiuso di oggi, e la stampa occidentale non aveva rivali globali, e non c’era nemmeno Internet. Con un sostegno così forte, le sue sorprendenti conclusioni sembravano destinate a radicarsi profondamente nella narrativa accettata, relegando permanentemente tutti gli scettici nelle frange marginali delle teorie cospiratorie. E se i “Palestinesi” davvero non fossero esistiti come popolo, ogni idea che avessero un diritto legittimo sulla terra ovviamente sarebbe svanito.
Ciò sarebbe potuto facilmente accadere se non fosse stato per la determinazione di un giovane studente laureato di Princeton di nome Norman Finkelstein, che nutriva un forte interesse per la storia sionista. Questo nuovo libro tanto ampiamente apprezzato, che sembrava contraddire tutto ciò che sapeva sull'argomento, lo incuriosì. Iniziò quindi a controllare alcuni dei riferimenti accademici di Peters e scoprì che molti di essi erano gravemente distorti o addirittura falsificati. Nonostante le innumerevoli recensioni elogiative, Finkelstein concluse che il libro costituiva “una frode spettacolare”, con parti importanti che sembravano addirittura plagiate da un trattato di propaganda sionista pubblicato decenni prima, e che nessuno aveva mai preso sul serio.
A differenza del mondo politico, il mondo accademico risponde in gran parte al sistema dell’onore, e pochissimi si prendono la briga di controllare criticamente le note a piè di pagina di un testo pubblicato da un grande editore e positivamente recensito da molte figure importanti. Quindi, senza il puntiglio di Finkelstein, è del tutto possibile che l'intero popolo palestinese sarebbe scomparso senza che gli Israeliani dovessero sparare un solo colpo. La gigantesca e palese bufala della “negazione della Nakba” si sarebbe concretizzata, senza che nessuno nel mainstream politico fosse disposto a contestarla pubblicamente.
Come raccontano Finkelstein e altri, scoprire quella enorme frode in un bestseller di altissimo profilo è stato abbastanza facile, ma portare questi fatti all’attenzione di un pubblico più ampio si è rivelato estremamente difficile, soprattutto perché tanti influenti intellettuali ebrei (e tante importanti pubblicazioni) avevano già investito la loro reputazione nelle lodi e nel sostegno dell’opera. Le lettere inviate da Finkelstein a giornalisti ed editori furono completamente ignorate e, dei tanti accademici da lui contattati, solo Noam Chomsky del MIT si prese la briga di rispondere. Chomsky, un forte critico delle politiche israeliane, incoraggiò gli sforzi di Finkelstein ma lo avvertì che essi avrebbe potuto danneggiare gravemente la sua carriera accademica, una preoccupazione che purtroppo si rivelò fondata.
Finkelstein scrisse la sua critica dettagliata sotto forma di un lungo articolo, che pubblicò ovunque ma fu ugualmente ignorato, finché Chomsky non lo aiutò a pubblicare una versione abbreviata in una piccola rivista di sinistra del Midwest. A poco a poco la voce dell'analisi di Finkelstein cominciò a circolare, con giornalisti e studiosi che si rendevano conto che probabilmente era solo questione di tempo prima che lo scandalo intellettuale esplodesse, ma nessuna pubblicazione era disposta a essere la prima a smascherare la frode. La prestigiosa New York Review of Books sollecitò allora una valutazione da parte di un eminente storico demografico israeliano, il quale mise in ridicolo il libro di Peters definendolo un “puro falso”, equivalente semplicemente a rigurgitata propaganda sionista che nessuno in Israele aveva preso sul serio. Ma gli editori si rifiutarono ugualmente di pubblicare questa devastante recensione. Tuttavia, a quei tempi, gli intellettuali britannici erano meno legati all’influenza sionista e furono messi in guardia da Chomsky riguardo alle critiche dettagliate di Finkelstein, così la comparsa dell’edizione britannica del libro scatenò rapidamente un’ondata di ridicolo nelle principali pubblicazioni londinesi, che alla fine costrinse la maggior parte delle controparti statunitensi a riconoscere quegli stessi fatti.
Il libro e le polemiche che suscitò furono sufficientemente importanti da diventare oggetto di un lungo articolo di Wikipedia che riassume efficacemente la storia, fornendo utilmente numerosi collegamenti e citazioni. Raccomanderei caldamente anche un saggio di Chomsky del 2002 disponibile online, insieme a un articolo del 2015 su Mondoweiss in occasione della morte di Peters:
Noam Chomsky • Understanding Power • 2002 • 1.900 Parole
David Samel • Mondoweiss • 17 gennaio 2015 • 2.100 Parole
Nella sua discussione, Chomsky ha addirittura suggerito che il tomo pseudo-erudito di Peters fosse stato probabilmente redatto da qualche agenzia di intelligence o organizzazione di attivisti filo-israeliani, e falsamente attribuito all’autrice dichiarata. Questo mi sembra abbastanza plausibile, dato che lei non ha mai pubblicato, né prima né dopo, alcuno scritto serio di storia o altra ricerca accademica. In effetti, penso che il suo contributo principale all’opera potrebbe essere stato il cognome gentile del suo primo marito, insieme al suo aspetto abbastanza telegenico.
Quindi, se non fosse stato per l’impegno di un singolo studente laureato, una massiccia bufala storica probabilmente avrebbe avuto la meglio e si sarebbe affermata nei media. Probabilmente dopo pochi anni, Hollywood vi si sarebbe gettata con entusiasmo, sfornando una miriade di film e documentari che raccontano la storia della terra desolata e quasi vuota della Palestina, alla fine ravvivata da un afflusso di immigrati ebrei idealisti, il cui successo economico attirò naturalmente gli Arabi di tutti i paesi vicini del Medio Oriente. Forse alcune di quelle sceneggiature sarebbero state incentrate sugli sforzi eroici della stessa Peters, una brillante studiosa indipendente che ha lavorato per anni per rivelare una verità a lungo nascosta da un sistema accademico prevenuto e arrogante. E l’intero popolo palestinese, che ora conta molti milioni, sarebbe stato completamente cancellato dalla documentazione ufficiale occidentale, e sarebbero rimaste solo poche voci dissenzienti nelle pieghe marginali di Internet ad affermare ostinatamente il contrario, continuamente tormentate dall’ADL per aver sposato tali credenze “antisemite”. Come ho sottolineato in passato, ciò che consideriamo la realtà del mondo è probabilmente molto meno vera di quanto la maggior parte della gente creda.
Tendiamo ingenuamente a dare per scontato che i nostri media riflettano accuratamente gli eventi del nostro mondo e della sua storia, ma invece ciò che troppo spesso vediamo sono solo le immagini tremendamente distorte di uno specchio da luna park, con piccoli oggetti a volte trasformati in grandi, e quelli grandi in piccoli. I contorni della realtà storica possono essere deformati in modo quasi irriconoscibile, con alcuni elementi importanti che scompaiono completamente dalla documentazione e altri che appaiono dal nulla. Ho spesso suggerito che i media creano la nostra realtà, ma date queste evidenti omissioni e distorsioni, la realtà prodotta è spesso in gran parte fittizia. Le nostre storie accettate hanno sempre criticato la ridicola propaganda sovietica al culmine delle purghe staliniane o della carestia ucraina, ma a modo loro, i nostri organi mediatici a volte sembrano altrettanto disonesti e assurdi nei loro resoconti. E fino a quando è comparso Internet, era difficile per la maggior parte di noi riconoscere l’enormità di questo problema.
Recentemente ho riletto l'eccellente libro di Finkelstein del 1995, Image and Reality of the Israel-Palestine Conflict, che dedica un capitolo al caso Joan Peters e allo stesso modo decostruisce molti altri importanti esempi di studi e di copertura mediatica assolutamente ingannevoli che hanno gravemente distorto la percezione statunitense del conflitto in Medio Oriente. Il libro di Peters stesso è da tempo fuori stampa e le copie usate disponibili per la vendita sono rapidamente svanite in seguito allo scoppio della recente violenza a Gaza, ma fortunatamente su Archive.org era temporaneamente disponibile una versione PDF, che ho scaricato e letto. Il contenuto sembra confermare il durissimo verdetto di Finkelstein, soprattutto perché nessuna delle dettagliate accuse di quest’ultimo è mai stata confutata.
Tuttavia, questo non segnò certamente la fine di tale strana storia. Sulla scia della Seconda Intifada dei primi anni 2000, l’immagine pubblica di Israele in Occidente ha subito un altro duro colpo, così nel 2003 Alan Dershowitz, uno dei principali professori di diritto di Harvard e fervente sostenitore del sionismo, ha pubblicato The Case for Israel, che è diventato un enorme bestseller e ripetuto molti degli stessi argomenti sulla inesistenza dei Palestinesi. In effetti, come dimostrò presto Finkelstein, quello stimato studioso accademico - o più probabilmente, i suoi pigri ghostwriter - aveva ampiamente preso in prestito ampie parti screditate del libro di Peters di due decenni prima. In un'apparizione congiunta molto commentata su Democracy Now!, Dershowitz cercò disperatamente di respingere le devastanti accuse di frode accademica mosse da Finkelstein, e il conseguente caso Dershowitz-Finkelstein ha persino una propria pagina Wikipedia di 4.500 parole, così come il libro stesso.
Dershowitz non fu affatto contento dell'umiliante dimostrazione che egli aveva firmato con il suo nome il plagio di una frode che era essa stessa un plagio, commettendo così il tipo di trasgressioni accademiche che avrebbero fatto espellere qualsiasi matricola universitaria. Pertanto, lanciò una feroce campagna di ritorsioni, sfruttando la sua prestigiosa posizione ad Harvard ed influenti sostenitori ebrei per scacciare il suo accusatore dal mondo accademico. Finkelstein aveva insegnato per sette anni alla DePaul University, ma sebbene fosse stato raccomandato a stragrande maggioranza sia dal suo stesso dipartimento che dall'intero College of Arts and Sciences, i sostenitori mobilitati da Dershowitz - e probabilmente i ricchi donatori che rappresentavano - esercitarono il loro veto e lui perse l’incarico, provocando un aspro processo.
La storia del fraudolento bestseller filo-israeliano di Dershowitz costituisce una parte importante del libro di Finkelstein del 2005, Beyond Chutzpah, pubblicato dalla University of California Press, una prestigiosa casa editrice accademica, e Dershowitz ha mobilitato tutti i suoi sostenitori per bloccarne l'uscita, reclutando persino il governatore Arnold Schwarzenegger per fare pressioni senza successo sui reggenti dell'UC e vietare il libro. Avevo originariamente acquistato quel testo più di una dozzina di anni fa, ma solo ora ho finalmente letto la sua devastante critica alla propaganda disonesta così ampiamente dispiegata a favore della storia e delle attività dello Stato ebraico. La sua edizione aggiornata del 2008 include un lungo riassunto delle prove schiaccianti del plagio di Dershowitz da parte di un ricercatore terzo che ha indagato sul caso, parti del quale sono disponibili anche online su Counterpunch.
Alla fine, il plagiatore accademico non subì alcuna conseguenza, mentre lo studioso che rivelò il plagio fu definitivamente esiliato dalla comunità accademica.
La guerra dei cent'anni contro la Palestina
Dershowitz era diventato professore di ruolo ad Harvard all'età di 28 anni, tra i più giovani nella storia di quell'università, e Jeffrey Sachs era uno dei suoi ex colleghi altrettanto meritevole. Sachs, come Dershowitz, aveva origini ebraiche, ma era molto diverso nel temperamento e nella personalità, e negli ultimi due anni è diventato uno dei nostri intellettuali pubblici più importanti, in primo luogo per quanto riguarda le origini del Covid e dell’attacco all’oleodotto Nord Stream II, e subito dopo con la sua analisi della guerra in Ucraina e delle sue radici politiche.
La sua rarissima combinazione di credenziali di alto livello nei circoli dell’establishment d’élite, insieme a un notevole candore nello sfidare le narrazioni ufficiali, lo hanno proiettato nella stratosfera dei media, e le sue numerose interviste hanno spesso accumulato centinaia di migliaia di visualizzazioni su Youtube, raggiungendo a volte un milione o più. Due delle sue primissime apparizioni in quell'arco mediatico in ascesa sono state con Grey Zone e Manifold di Steve Hsu, e questi sono diventati i video più popolari nella storia di quei canali, con il primo che ora si avvicina al mezzo milione di visualizzazioni. Infatti, l’anno scorso avevo suggerito che l’accademico della Columbia University era forse diventato un “pachiderma isolato” agli occhi dei suoi oppositori istituzionali:
Ron Unz • The Unz Review • 10 ottobre 2022 • 3.500 parole
Diversi studiosi hanno diversi campi di competenza, e Sachs è un economista internazionale, le cui aree di interesse sono stati i paesi dell’ex blocco sovietico, l’America Latina e la Cina, ma del Medio oriente è sembrato interessarsi senza molta enfasi. Tuttavia, durante il lungo lockdown per il Covid, egli ha ampliato la sua conoscenza del conflitto israelo-palestinese leggendo un libro recentemente pubblicato dal Prof. Rashid Khalidi, uno dei suoi colleghi della Columbia University, per poi unirsi all'autore per un'interessante lezione di un'ora, discussione disponibile su Youtube.
Per puro caso, mi sono imbattuto in quel video diversi mesi fa, non molto tempo prima che nella regione esplodesse improvvisamente una violenza inaspettata, e l'ho trovato un'eccellente presentazione di importanti fatti storici, molti dei quali prima a me sconosciuti, e mi ha colpito che anche Sachs sottolineasse di essere stato costretto a “disimparare” gran parte della storia che aveva assorbito nel corso degli anni. Sebbene molti dei video più recenti di Sachs abbiano attirato centinaia di migliaia di visualizzazioni o più, questo specifico, dopo due anni, non aveva nemmeno raggiunto le 900 e, nonostante gli eventi drammatici degli ultimi due mesi, ha finalmente superato le 1.000 visualizzazioni solo pochi giorni fa. Considerata la statura accademica dei due partecipanti e l’attualità dell’argomento, spero che il numero di visualizzazioni possa sensibilmente accrescersi.
Questa interessante discussione mi ha spinto a leggere l'eccellente libro dell'autore, che segmenta la lotta secolare tra Sionisti e Palestinesi in sei conflitti separati. Anche se ho trovato molto utili i suoi resoconti dettagliati di questa storia, ero già a conoscenza delle linee generali della maggior parte delle parti successive della storia, quindi ho ottenuto il massimo dai primi due dell'elenco, in particolare dalla sua discussione delle prime fasi del progetto di colonizzazione sionista, che subì una notevole accelerazione durante i due decenni di Palestina mandataria che seguirono la conquista britannica del territorio durante la Prima Guerra Mondiale.
La storia raccontata dall'autore è semplice, ma piuttosto diversa da quella presentata dai principali media statunitensi. I primi leader sionisti erano per lo più ebrei dell’Europa centrale e, quando si concentrarono sulla Palestina, prevedevano esplicitamente la creazione di uno Stato-nazione ebraico, e la maggior parte di loro credeva che i Palestinesi nativi, che vivevano lì da molti secoli, dovessero necessariamente essere indotti ad andarsene spontaneamente o per espulsione forzata. Dato che gli ebrei sionisti all’inizio erano solo una piccola minoranza, composta interamente da nuovi arrivati nel paese, tali intenzioni non furono rese pubbliche, ma solo pianificate per il futuro.
Così, nei primi anni del ventesimo secolo, un piccolo numero di abitanti dell’Europa centrale ed orientale, ideologicamente zelanti, complottò per impadronirsi di una terra lontana e già densamente popolata, e scacciare le sue molte centinaia di migliaia di abitanti storici, un progetto di audacia sorprendente, tanto più se si pensi che alla fine ci riuscirono. Non mi viene in mente alcun parallelo storico.
Sebbene le sue origini siano controverse, la Dichiarazione Balfour britannica del 1917 aveva proclamato in modo alquanto ambiguo che la Palestina sarebbe dovuta diventare una patria nazionale per il popolo ebraico, pur rispettando i diritti degli abitanti esistenti. Subito dopo che la Gran Bretagna conquistò il paese dall’Impero Ottomano nel 1918, sorsero naturalmente dei conflitti.
Nel 1921 un eminente accademico statunitense visitò la Palestina e pubblicò il suo resoconto di testimone oculare in un importante periodico, documentando la grave ostilità esistente tra i fanatici coloni sionisti e la stragrande maggioranza dei nativi palestinesi, con ampie parti del suo rapporto successivamente ristampate nel giornale nazionale di Henry Ford. A quei tempi, i principali media statunitensi erano meno totalmente unilaterali di quanto poi divennero, e l’anno successivo apparve un lungo articolo su un importante giornale che descriveva quegli stessi fatti, compresa la violenza e l’estremismo dei sionisti, ed è stato poi ristampato in uno dei nostri articoli recenti.
Sigurd Kristensen • The Unz Review • 24 ottobre 2023 • 5.000 parole
Questi resoconti contemporanei di giornalisti e accademici statunitensi sembravano corroborare pienamente la narrazione storica di Khalidi, ma ho notato anche un ulteriore, interessante dettaglio.
Per decenni, Lord Northcliffe era stato il più potente magnate dei media britannico e l'imperioso proprietario del Times di Londra e di altre pubblicazioni, i cui ampollosi sentimenti nazionalisti e il cui peso politico lo avevano reso il William Hearst o il Rupert Murdoch della sua epoca. Stando a quanto riferito nella citata cronaca del 1922, durante la sua visita in Palestina, Lord Northcliffe si indignò per i violenti attacchi sionisti sia contro la maggioranza locale degli ebrei non sionisti, che contro i nativi palestinesi, e progettò di orchestrare una campagna mediatica contro il sionismo dopo il suo ritorno in Gran Bretagna. Northcliffe morì invece poco dopo, sostenendo di essere stato avvelenato secondo le successive memorie di Douglas Reed, all'epoca il suo giovane assistente personale, e quest'ultimo era convinto che i sionisti avessero usato mezzi letali per proteggere il loro progetto politico. Dovremmo notare che nell’autorevole storia degli omicidi sionisti del 2018 scritta da Ronen Bergman, una delle prime vittime fu un importante leader ebreo antisionista, ucciso nel 1924 per aver pianificato di fare pressione sul governo britannico contro l’impresa sionista.
Dopo aver rimosso con successo vari ostacoli politici al loro progetto, i sionisti si concentrarono negli anni ’20 e ’30 sull’immigrazione ebraica, cercando di aumentarne il numero, al punto da poter ottenere il controllo del paese. I nativi palestinesi naturalmente sospettavano questo piano, e i conflitti si intensificarono, culminando in uno sciopero generale arabo e in una rivolta su larga scala contro il dominio straniero iniziata nel 1936 e durata fino al 1939, duramente repressa dall’esercito britannico assistito dalle milizie sioniste. Secondo Khalidi, circa il 14-17% dell’intera popolazione maschile adulta palestinese fu uccisa, ferita, imprigionata o esiliata durante il conflitto, indebolendo gravemente quella comunità e soprattutto la sua leadership politica per la futura lotta militare contro i sionisti che seguì un decennio dopo.
Tuttavia, dopo aver sedato la rivolta araba, gli Inglesi cercarono di ridurre i futuri disordini pubblicando un Libro bianco nel 1939, limitando drasticamente l’immigrazione ebraica e promettendo altre restrizioni. Ciò provocò un aspro risentimento sionista, culminato pochi anni dopo nell’assassinio di Lord Moyne, il ministro britannico per il Medio Oriente. In effetti, sebbene Khalidi sia attento a evitare questi argomenti molto delicati, una volta scoppiata la Seconda Guerra Mondiale, una delle fazioni sioniste di destra più piccole guidate da un futuro primo ministro israeliano cercò senza successo un’alleanza militare con Hitler e Mussolini, in linea di continuità con l’affidamento posto dal movimento sionista tradizionale sulla sua cruciale partnership economica con la Germania nazista nel corso degli anni ’30.
Il leader britannico in tempo di guerra, il primo ministro Winston Churchill, era fortemente filo-sionista e, verso la fine della guerra, autorizzò la formazione di una brigata ebraica, consentendo alle milizie del nascente Stato sionista di acquisire un'esperienza militare cruciale per l'imminente lotta in Palestina. Nel frattempo, le forze sioniste rafforzarono i loro legami politici sia con le nuove superpotenze emergenti degli Stati Uniti e dell’URSS, nel caso dei primi, facendo affidamento sull’influente comunità ebraica statunitense e, nel secondo, sul Partito Comunista locale palestinese, che era quasi interamente ebreo.
Alla fine della Seconda Guerra Mondiale, nel 1945, la Gran Bretagna era in bancarotta ed esausta, si stava ritirando dai suoi possedimenti imperiali in gran parte del mondo e, dopo più di un secolo, era addirittura sul punto di perdere il controllo dell’India. Così i sionisti approfittarono del momento per cercare di scacciare gli Inglesi dalla Palestina scatenando una massiccia ondata di violenza contro di loro, realizzando in particolare l’attentato del 1946 al King David Hotel, uno dei più grandi attacchi terroristici nella storia del mondo fino a quella data. Nel frattempo, cercarono anche di portare quanta più popolazione ebraica sfollata possibile dall’Europa, aumentandone il numero per l'incombente lotta con gli Arabi per la Palestina.
Alla fine, nel 1947, gli Inglesi si arresero e scaricarono il problema della Palestina sulle neonate Nazioni Unite, che proposero di risolvere la disputa arabo-sionista dividendo il territorio in due nuovi Stati. Gli ebrei allora costituivano un terzo della popolazione palestinese, la maggior parte di loro era arrivata solo nei tre anni precedenti, mentre possedevano solo circa il 6% della terra. Ciononostante, un’efficace lobby sionista persuase l’ONU a destinare il 55% della Palestina allo Stato a maggioranza ebraica, mentre solo il 45% andò agli Arabi nativi, una decisione che questi ultimi naturalmente considerarono oltraggiosa e un’evidente violazione dei principi democratici sanciti nella Carta delle Nazioni Unite. Nel frattempo, i sionisti vedevano il bicchiere mezzo vuoto e intendevano ottenere il controllo di gran parte o di tutta la Palestina, eliminando al contempo gli abitanti arabi esistenti. Pertanto, la violenza crebbe presto da entrambe le parti.
Sostenuti sia dagli Stati Uniti che dall’URSS, i sionisti dichiararono il loro nuovo Stato di Israele il 14 maggio 1948, mentre gli eserciti di Egitto, Transgiordania, Siria e vari altri Stati arabi vicini intervenivano a sostegno dei Palestinesi assediati e senza armi. Ma, ad eccezione della Legione Araba della Transgiordania, a guida britannica, quegli eserciti erano deboli e poco addestrati, così le forze sioniste, molto più grandi e meglio organizzate, presero il sopravvento, soprattutto dopo aver ricevuto illegalmente un’enorme spedizione di armi ceche dal Blocco Sovietico di Stalin, nel corso di una tregua temporanea dei combattimenti imposta dalle Nazioni Unite. Il conte Folke Bernadotte, capo della Croce Rossa svedese, fu nominato negoziatore di pace dell'ONU, ma alcune delle sue proposte furono viste sfavorevolmente dai sionisti, che espressero il loro disappunto assassinandolo, dopodiché il suo successore statunitense si dimostrò molto più accomodante.
Alla fine ripresero i combattimenti e i sionisti ottennero una vittoria schiacciante, conquistando quasi l’80% della Palestina ed espellendo una percentuale proporzionale di Palestinesi, che divennero rifugiati nel resto del loro territorio o nei vicini stati arabi.
La pulizia etnica della Palestina
Una delle principali fonti informative sull’espulsione dei Palestinesi dalla loro terra d’origine è stata la ricerca innovativa di Ilan Pappe, uno storico israeliano, e nel corso degli anni mi è capitato talvolta di imbattermi in qualche menzione favorevole del suo libro del 2006 La pulizia etnica della Palestina. Così, dopo il molto più sintetico resoconto di Khalidi, l'ho finalmente letto, finendo l'ultima pagina solo pochi giorni prima che l'inaspettato attacco di Hamas riportasse improvvisamente il conflitto israelo-palestinese al centro dell'attenzione mondiale. Il lavoro di Pappe sembra meritare tutti gli elogi ricevuti dalla critica, essendosi lo studioso affidato ad un'esaustiva ricerca d'archivio per ricostruire e documentare i piani della leadership sionista diretti a cacciare tutti i Palestinesi ed a creare lo Stato puramente ebraico che avevano sempre desiderato.
Il termine “pulizia etnica” si è diffuso nei media occidentali durante le aspre guerre balcaniche degli anni ’90, per designare i crimini di guerra che sarebbero poi stati usati per giustificare i bombardamenti della NATO, e alcuni di coloro che ne sono stati ritenuti i principali responsabili sono stati successivamente processati all’Aia, finendo la loro vita in prigione. Molto efficacemente, Pappe apre la maggior parte dei suoi capitoli citando un breve passaggio che descrive alcuni di quei “crimini” commessi nei Balcani, seguito da pagine di testo che dimostrano che gli stessi crimini, o molto peggiori, erano stati commessi anche dalle forze sioniste qualche decennio prima. In quei conflitti degli anni ’90, il generale Wesley Clark, comandante supremo della NATO di origine ebraica, aveva pubblicamente dichiarato: “Non c’è posto nell’Europa moderna per stati etnicamente puri”. Ma un certo paese del Medio Oriente aveva già ricevuto in precedenza un forte sostegno statunitense nei suoi sforzi militari per raggiungere esattamente lo stesso obiettivo.
Un punto importante sottolineato dall’autore è che, fin dall’inizio, la leadership sionista era abbastanza sicura della propria netta superiorità militare sulle forze che avrebbero dovuto affrontare, non solo sui civili palestinesi quasi disarmati di cui intendevano distruggere le città e i villaggi, ma anche sugli eserciti dei vicini Stati arabi che avrebbero potuto eventualmente intervenire. Secondo il mito della successiva propaganda israeliana, i Palestinesi locali iniziarono a fuggire solo dopo la dichiarazione dello Stato di Israele e l’invasione degli eserciti arabi, ma in realtà a quella data circa 200 villaggi palestinesi erano già stati attaccati, e i loro abitanti uccisi o espulsi, e questa brutale pulizia etnica fu ciò che provocò l’intervento militare arabo.
Il fatto che un villaggio palestinese locale avesse o meno rapporti amichevoli con i vicini coloni sionisti era irrilevante, e furono tutti presi di mira per distruggerli. Pappe racconta i dettagli del famigerato massacro di Deir Yassin. Quel villaggio aveva concluso un patto formale di non aggressione con il principale movimento sionista, i cui leader organizzarono ugualmente l’attacco da parte delle forze dell’Irgun e della Banda Stern, attacco che si concluse con un brutale massacro degli abitanti, e con la diffusione delle notizie su atrocità orribili, che misero in fuga molti altri Palestinesi. Alla fine, più di 500 villaggi furono attaccati, di solito con l'esecuzione sommaria di alcuni dei loro uomini e l'espulsione del resto della popolazione, mentre gli edifici furono distrutti e l'intero villaggio raso al suolo.
La popolazione di tutte le città e paesi palestinesi è stata trattata in modo simile, con una sottosezione del libro intitolata “L’urbicidio della Palestina”. A volte gli abitanti dei villaggi vicini venivano deliberatamente massacrati per terrorizzare la popolazione urbana e accelerarne la fuga, ulteriormente incoraggiata da un bombardamento di colpi di mortaio o altri esplosivi ad alto potenziale. Qualsiasi proprietà palestinese è stata saccheggiata con disinvoltura, e vi sono stati anche stupri e stupri di gruppo, a volte culminati con omicidi, sebbene il numero reale di questi incidenti non possa essere determinato.
L'anno 1948 era iniziato che solo il 6% della terra palestinese era di proprietà ebraica, ma l'ONU assegnò il 55% del territorio al nuovo Stato ebraico e le sue forze militari vittoriose presto si impadronirono anche della metà del proposto Stato palestinese, restando solo deluse del fatto che non erano riuscite a impossessarsi dell'altra metà come avevano sperato. Il loro intento originale era stato quello di espellere tutti i non ebrei dal territorio sotto il loro controllo, e sebbene alla fine riuscissero all'80% in questo tentativo, il loro fallimento nel rimuovere l'ultimo 20% prima della fine della guerra portò a successive recriminazioni. Ma come spiega Pappe, dal 1948 la restante minoranza palestinese di Israele è stata legalmente confinata in appena il 2% della terra, rispetto al 94% che possedeva prima delle conquiste e delle espulsioni sioniste di quell'anno.
Un punto importante sottolineato da Pappe è che gli Inglesi avevano mantenuto per quasi tre decenni la legge e l’ordine in Palestina, e le loro forze militari e di polizia erano ancora presenti in gran numero anche dopo che il territorio venne posto sotto la responsabilità dell’ONU. Di conseguenza, i civili palestinesi avevano ingenuamente dato per scontato che sarebbero stati protetti dagli attacchi delle milizie sioniste, e rimasero quindi scioccati e impreparati quando le forze britanniche invece rimasero a guardare e non fecero nulla, ponendoli alla completa mercé di gruppi violenti che hanno rubato le loro proprietà o li hanno uccisi nella totale impunità.
Anche se non ho mai prestato molta attenzione alle riviste di moda o di celebrità, le sorelle Gigi e Bella Hadid sono top model statunitensi le cui immagini hanno abbellito le copertine di molte di quelle pubblicazioni. Le loro origini paterne sono palestinesi, e il loro anziano padre ha recentemente raccontato la dolorosa storia di come i suoi genitori avevano accolto volontariamente una famiglia di pietosi rifugiati ebrei arrivati nel loro paese dall'Europa. Ma poi sua madre si recò in una città vicina per alcuni giorni per stare con i parenti durante il parto imminente e, quando tornò, quella famiglia ebrea si era impadronita della loro casa e li aveva espropriati, rifiutandosi di permettere loro perfino di prendere le loro cose, fotografie o anche una coperta per il loro neonato.
Mohamed Hadid, father of supermodels Bella and Gigi Hadid, talks about how the Jewish refugees his family took in, eventually betrayed his family:
— Dr. Anastasia Maria Loupis (@DrLoupis) December 7, 2023
"We were locked out -- they wouldn't even let her enter the house to take a single photo of her children".
pic.twitter.com/ebAFC1e2Lb
Le Nazioni Unite avevano creato legalmente lo Stato di Israele e alla fine del 1948, dopo la fine dei combattimenti, la Risoluzione 194 dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite stabilì il diritto incondizionato al ritorno dei profughi palestinesi, cosa che avviene sempre alla fine di ogni conflitto militare. Ma, sebbene molte famiglie fossero fuggite dalle loro case solo giorni o settimane prima, il governo israeliano si rifiutò di conformarsi, portando alla minaccia di sanzioni statunitensi che tuttavia non furono mai imposte. Nel frattempo, gli Israeliani cercarono di prevenire qualsiasi possibilità del genere accelerando la distruzione dei villaggi palestinesi svuotati e reinsediando rapidamente gli ebrei nelle case abbandonate dei paesi e delle città che avevano conquistato. Per anni, gli Israeliani spararono regolarmente come “infiltrati” contro tutti i Palestinesi che tentavano di tornare alle loro case e alla loro terra, incidenti che gradualmente prepararono il terreno per guerre future.
Anche se consiglio vivamente di leggere il libro riccamente documentato di Pappe, coloro che preferiscono ascoltare le sue importanti informazioni in un formato diverso possono guardare una lunga intervista dell'autore del 2018, vista quasi 300.000 volte su Youtube, seguita dalla seconda parte di quell'intervista, o anche da una esposizione più breve del libro da parte di un blogger britannico qualche settimana fa.
Analogie storiche, false e vere
Come ha dimostrato nelle sue interviste, Pappe è un individuo profondamente umano con simpatie progressiste e uno studioso eccezionale concentrato intensamente sul Medio Oriente. Quindi, su altre questioni che esulano dalla sua area di competenza professionale, condivide naturalmente opinioni diffuse nei suoi circoli ideologici. Ad esempio, sebbene il suo tema centrale sia lo spaventoso esproprio dei nativi palestinesi da parte dei coloni sionisti, ammette tranquillamente che tale vicenda non sia diversa da quanto era accaduto in precedenza negli Stati Uniti, quando i coloni europei espropriarono e pulirono etnicamente i nativi amerindi, e anche Finkelstein ha talvolta sottolineato lo stesso punto. Ma penso che questa analogia storica, così ampiamente promossa, sia dai più forti difensori di Israele che dai suoi più accaniti critici progressisti, si basi su di un profondo travisamento dei fatti.
Sebbene le società amerindiane degli Aztechi messicani e degli Inca peruviani fossero molto grandi e fortemente urbanizzate al tempo della conquista spagnola, questo non era affatto il caso del Nord America, che era scarsamente popolato da numerose piccole tribù, molte o la maggior parte delle quali manteneva ancora uno stile di vita da cacciatore-raccoglitore. Non esistevano città né centri urbani e la popolazione era completamente pre-alfabetizzata, anche se alcune tribù adottarono stili di vita civili e l'uso di una lingua scritta dopo un secolo o due di contatto con gli europei.
La stragrande maggioranza delle morti dei nativi fu dovuta alla diffusione involontaria di malattie europee per le quali essi non possedevano alcuna immunità, e la maggior parte di queste vittime probabilmente morì prima di aver mai visto un uomo bianco o anche solo sentito parlare della loro esistenza. Secondo le migliori stime, forse non più di dieci o ventimila amerindi furono uccisi dai bianchi in quasi tre secoli di guerre e massacri, una piccola frazione di coloro che morirono nella costante guerra intertribale di quello stesso periodo.
Quando il governo degli Stati Uniti iniziò le sue ondate successive di “trasferimenti di indiani” nel corso del diciannovesimo secolo, la popolazione dei coloni bianchi era cresciuta in modo esponenziale e superava quella dei nativi con un rapporto di 100 a 1. Inoltre, i matrimoni misti non erano infrequenti, tanto che le più importanti famiglie della Virginia facevano tutte risalire con orgoglio i loro antenati a una principessa indiana, e anche molti statunitensi di ceto più umile affermavano spesso di avere uno o due amerindi nel loro albero genealogico.
Nel corso della maggior parte degli anni '20, il leader della maggioranza repubblicana al Senato fu Charles Curtis, tre ottavi amerindi di origine e membro iscritto della Kaw Nation. Nel 1929 Curtis divenne vicepresidente di Herbert Hoover, e la sua elevazione politica fu considerata semplicemente una curiosità minore e non qualcosa che provocasse qualche tipo di controversia razziale. La maggior parte di questi importanti fatti storici sono stati effettivamente presentati in Not Stolen dello storico Jeff Fynn-Paul, pubblicato all'inizio di quest'anno.
Inutile dire che, se i coloni ebrei in Palestina avessero già costituito il 99% della popolazione locale alla vigilia della guerra del 1948, la situazione sarebbe stata molto diversa, e lo stesso varrebbe oggi se la maggior parte degli Israeliani si vantasse con orgoglio della propria reale o immaginaria discendenza palestinese, e magari avessero un importante leader politico per metà palestinese. Le storie degli insediamenti di Israele e degli USA non hanno quasi nulla in comune.
Tuttavia, sebbene le storie dei due paesi siano totalmente dissimili, alcuni aspetti delle loro attuali storiografie condividono tratti interessanti. Fin dai suoi albori, la società statunitense è stata governata dalla tradizionale élite dirigente anglosassone, discendente dei primi coloni e che, insieme a gruppi etnici assimilati, costituiva un’ampia maggioranza della popolazione nazionale. Ma nel corso del XX secolo, il loro dominio fu messo in discussione dalle crescenti élite ebraiche in una lotta silenziosa in cui scuole e università divennero un campo di battaglia fondamentale. Quindi è interessante che Howard Zinn e altri accademici ebrei abbiano guidato lo sforzo di promuovere una storia tendenziosa o addirittura fraudolenta dell’insediamento statunitense, forse considerandola un’arma ideologica che potrebbe distruggere la legittimità politica dei loro rivali gentili, proprio come Joan Peters cercò senza successo di fare contro i Palestinesi.
Sebbene la storia dell'insediamento europeo dell'America abbia poche somiglianze con gli sfortunati eventi raccontati da Pappe, esiste un'altra analogia storica sorprendentemente stretta, ma che non viene menzionata nel suo testo. Un paio di frasi sul retro della copertina dell'edizione tascabile ne riassumono accuratamente il contenuto:
La guerra d’indipendenza israeliana del 1948 comportò una delle più grandi migrazioni forzate della storia moderna. Circa un milione di persone fu espulso dalle sue case sotto la minaccia delle armi, i civili furono massacrati e centinaia di villaggi palestinesi furono distrutti.
Leggendo il suo libro, ho avuto la sensazione che l’autore fosse scioccato dagli eventi terrificanti che stava descrivendo, così come lo erano le stesse vittime palestinesi, e trovava difficile capire come la leadership sionista credesse di poterla fare franca con crimini di tale portata enorme, soprattutto all’indomani della solenne affermazione dei principi idealistici introdotti nella Carta delle Nazioni Unite dagli Alleati vittoriosi della Seconda Guerra Mondiale. Le prime pagine del suo libro menzionano diverse precedenti pulizie etniche, come il caso del 1913 dei 200.000 bulgari espulsi dalla Turchia. Eppure sembra del tutto inconsapevole del fatto che la più grande pulizia etnica nella storia del mondo, di portata molto maggiore di quella che racconta, aveva avuto luogo solo un paio di anni prima, attuata con il pieno sostegno politico delle organizzazioni internazionali che ammira.
Sebbene Pappe probabilmente condividesse i sentimenti umanitari di Freda Utley, è possibile che non abbia mai sentito parlare di quell'importante giornalista della metà del XX secolo. Nata inglese, Utley aveva sposato un comunista ebreo e si era trasferita in Unione Sovietica, per poi fuggire negli USA dopo che suo marito era caduto in una delle purghe di Stalin. Dopo la fine della Seconda Guerra Mondiale, si recò nella Germania occupata e descrisse le orribili condizioni che vide lì, facendo anche menzione di eventi paralleli all'argomento del libro di Pappe, ma più di una dozzina di volte più grandi, come ho discusso in un articolo del 2018.
Ron Unz • www.ossin.org • 8 novembre 2021
Ron Unz • www.ossin,org • 14 novembre 2021
Anche se le cifre esatte non sono chiare, l’impressione che ho tratto dal libro di Pappe è che diverse migliaia di civili palestinesi probabilmente morirono o furono uccisi durante i brutali eventi da lui descritti, iniziati nel 1947. Ma, secondo tutte le stime, due o tre milioni di civili tedeschi erano morti in un’operazione dello stesso tipo appena due anni prima, quando furono espulsi dalle terre che avevano occupato pacificamente per molti secoli. Sicuramente il fatto che quelle precedenti espulsioni etniche fossero state ignorate, o addirittura appoggiate, dai governi occidentali fornì ai leader sionisti la fiducia che la loro considerevole influenza politica avrebbe consentito loro di fare lo stesso in Palestina, una fiducia che si dimostrò del tutto giustificata.
L’ articolo di Wikipedia sulla pulizia etnica conta 6.000 parole e include decine di note a piè di pagina e riferimenti, ma come ci si poteva aspettare, non menziona minimamente il caso della Nakba subita dai Palestinesi, sebbene sia stato uno dei più grandi esempi di questo tipo nella storia e sia attualissima in questi giorni. E per ragioni molto simili, si accenna appena alle espulsioni tedesche avvenute in quello stesso periodo, anche se queste potrebbero essere state più grandi di tutte le altre pulizie etniche nella storia del mondo messe insieme. Inoltre, mentre la tragedia palestinese ha finalmente acquisito nei media occidentali il nome identificativo di Nakba, nessun nome designa le contemporanee e ben più ampie espulsioni dei tedeschi, che invece sono quasi del tutto scomparse dalla memoria pubblica. Per coloro che sono interessati ad esplorare l’argomento, consiglierei gli importanti libri di Alfred-Maurice de Zayas, un avvocato e storico di lunga data per i diritti umani, che ha lavorato decenni per le Nazioni Unite.
Alcuni altri libri sul conflitto Israele/Palestina
I libri di Khalidi e Pappe hanno rafforzato notevolmente la mia conoscenza della guerra del 1948, che ha portato alla fondazione dello Stato di Israele e contemporaneamente creato un vasto numero di rifugiati palestinesi. All'inizio degli anni '80 avevo letto il classico bestseller del 1970 di Dan Kurzman, Genesis 1948, un'opera assolutamente mainstream che mi aveva fornito le prime informazioni sul conflitto. Quindi, con la mia conoscenza dei fatti ora notevolmente ampliata, l’improvviso scoppio di orribile violenza all’inizio di ottobre mi ha portato a rileggere nuovamente quell’opera dopo più di 40 anni. Con mia notevole sorpresa, in realtà ha resistito abbastanza bene, con le 800 pagine della sua edizione tascabile che forniscono un resoconto avvincente e ragionevolmente imparziale della prima guerra arabo-israeliana.
Kurzman non era uno studioso accademico, ma come ex giornalista pluripremiato del Washington Post ha attinto ampiamente alle memorie e ai libri di alcuni dei principali partecipanti, integrati da quasi 1.000 interviste con personaggi di tutti i campi del conflitto. Sebbene la sua enfasi possa leggermente favorire gli Israeliani, in realtà ha fornito fatti di base molto diversi dalla narrativa standard dei media, menzionando la considerevole superiorità in termini di dimensioni delle forze sioniste addestrate rispetto agli eserciti arabi, e la grande quantità di nuove armi del blocco sovietico che i primi avevano ricevuto illegalmente durante una lunga tregua nei combattimenti. Ha compiutamente descritto il famigerato massacro sionista degli abitanti del villaggio di Deir Yassin, insieme ai tentativi deliberati di espellere i Palestinesi da una serie di altre comunità. Ha raccontato anche le storie dei conflitti politici interni ad entrambi i campi, con i vari Stati arabi spesso in aspro contrasto tra loro; lo stesso vale anche per le diverse fazioni sioniste, con i sionisti di destra che effettivamente organizzarono un sanguinoso tentativo di colpo di Stato nel mezzo della guerra, con molte vite perse quando un ebreo uccise un ebreo. Sia gli arabi che i sionisti commisero numerosi errori tattici e talvolta strategici, e gli alti comandanti militari di ciascuna fazione furono uccisi dalle loro stesse truppe in circostanze piuttosto sospette.
Il libro di Kurzman fu molto apprezzato all'epoca della sua pubblicazione e, sebbene non possa essere considerato una storia accademica del conflitto, dopo più di mezzo secolo ritengo che costituisca ancora un eccellente resoconto giornalistico della prima guerra, molto meno parziale di quanto non lo sia la stragrande maggioranza di tutto quanto venne scritto in quel periodo e successivamente.
Un tipo di libro molto diverso che consiglio vivamente è Against Our Better Judgment, autopubblicato nel 2014 da Alison Weir, giornalista e attivista antisionista. Proprio come indicato dal sottotitolo, il suo lavoro riassume in modo molto succinto la “storia nascosta” della creazione di Israele, fornendo fatti importanti ignorati o gravemente distorti dai principali media occidentali. Nella sua prefazione, l'autrice spiega che quello che originariamente era iniziato come un lungo articolo di sintesi alla fine è diventato un libro molto breve, con il testo principale composto da meno di 100 piccole pagine tascabili, facilmente leggibili in appena un paio d'ore, ma comprendente anche ampie note e copiosi riferimenti per coloro che desiderano approfondire.
Anche se contiene alcuni gravi errori di battitura – in termini attuali il valore in dollari delle proprietà palestinesi sequestrate dal nuovo Stato israeliano ammonta ovviamente a miliardi anziché a trilioni – e fa una o due affermazioni storiche che trovo dubbie, Weir è generalmente un scrittrice molto attenta e quasi tutto nel suo libro sembra abbastanza solido e affidabile, certamente molto più di alcuni bestseller generosamente promossi, pubblicati da importanti editori e contenenti quarti di copertina firmati da famosi letterati. Se tutti gli statunitensi istruiti leggessero questo breve libro come correttivo a decenni di propaganda mediatica distorta, penso che le nostre politiche in Medio Oriente sarebbero in condizioni molto migliori.
La prova che il trattamento estremamente unilaterale da parte degli USA del conflitto in Medio Oriente risale a generazioni è fornita da Violent Truce, un breve libro del 1956 che ho recentemente riletto diversi anni dopo essermici imbattuto per la prima volta. L'autore è il comandante EH Hutchison, un ufficiale navale statunitense, incaricato di dirigere la forza internazionale di mantenimento della pace, autorizzata dalle Nazioni Unite, tra israeliani e arabi all'indomani dell'accordo di tregua del 1949.
All’inizio, l’autore spiega che, a causa della copertura del conflitto nei media statunitensi, era partito con un’impressione fortemente favorevole degli israeliani, credendo che avessero pienamente ragione, mentre nutriva molti sospetti nei confronti dei loro oppositori arabi. Ma una volta sul posto, gli incidenti quotidiani che ha dovuto affrontare lo hanno portato rapidamente a una conclusione opposta. Praticamente tutte le azioni illegali e le violazioni della tregua sono avvenute da parte israeliana, compresi anche una serie di incidenti potenzialmente mortali diretti contro le forze di pace internazionali, per non parlare dei poveri civili palestinesi. Tali conclusioni ovviamente differivano molto nettamente da quanto presentato all’epoca nella maggior parte delle pubblicazioni statunitense, ma il suo resoconto fu pienamente approvato e corroborato da molti altri ufficiali militari delle Nazioni Unite, compreso il comandante generale, e questi individui fornirono tre distinti Forward al suo libro.
Questo resoconto di prima mano fatto da un ufficiale militare statunitense non è riuscito a trovare alcun editore importante ed è stato pubblicato solo da Devin-Adair, un piccolo stampatore irlandese-statunitense disposto a pubblicare materiale così controverso. Nonostante la sua apparizione poco dopo la crisi di Suez del 1956 e la guerra arabo-israeliana, esso attirò poca attenzione e pochi lettori rispetto ai successivi best-seller che glorificavano Israele in termini propagandistici, come Exodus di Leon Uris. Il manoscritto è stato ultimato alla fine del 1955, e chiunque lo avesse letto non si sarebbe certo sorpreso che l’anno successivo Israele avrebbe intrapreso una guerra di aggressione contro molti dei suoi vicini.
Allora come oggi, i principali editori quasi invariabilmente chiudevano le porte ai libri critici nei confronti di Israele, che potevano essere pubblicati solo da piccole case editrici, spesso caratterizzate ideologicamente, o addirittura dovevano essere autopubblicati. La terribile violenza della Seconda Intifada durante i primi anni 2000 ha indotto Counterpunch Press a pubblicare diversi brevi libri di questo tipo, che ho riletto recentemente dopo alcuni anni.
The Case Against Israel del filosofo politico canadese Michael Neumann è apparso nel 2005 ed era ovviamente inteso come una risposta al best-seller di Dershowitz del 2003 con il titolo opposto. L’autore ha efficacemente esposto la palese immoralità della creazione dello Stato di Israele così come l’ingiustificato sostegno politico e finanziario che ha continuato a ricevere nonostante la dura oppressione dei Palestinesi. Ma, anche lasciando da parte le questioni filosofiche di giusto e sbagliato, il testo ha utilmente fornito una grande quantità di importanti informazioni storiche e fattuali racchiuse nel suo breve testo, che può essere facilmente letto in poche ore.
Chiunque critichi fortemente le politiche israeliane, ancor più se giudichi immorali le sue origini e il suo status attuale, si troverà sicuramente ad affrontare aspre accuse di antisemitismo, una parola recentemente estesa fino a comprendere perfino le critiche al massacro in corso dei civili di Gaza. The Politics of Anti-Semitism, a cura di Alexander Cockburn e Jeffrey St. Clair, è stato pubblicato nel 2003 e tratta appunto in modo molto approfondito queste questioni ricorrenti, esso contiene saggi di Finkelstein e Neumann, insieme a più di una dozzina di altri che hanno affrontato le stesse accuse, compreso particolarmente il Prof. Edward Said della Columbia University. Non è cambiato molto negli ultimi vent'anni, tranne il fatto che la censura sui media è diventata molto più severa, resa necessaria dai recenti crimini di guerra ben più gravi di Israele.
L’“industria dell’Olocausto” e Israele
Esiste una connessione stretta ed evidente tra l’Olocausto – lo sterminio pianificato di sei milioni di ebrei europei durante la Seconda Guerra Mondiale – e la creazione dello Stato di Israele, avvenuta appena tre anni dopo. Infatti, nel 1993 lo storico israeliano Tom Segev pubblicò The Seventh Million (Il settimo milione) che tratta proprio il tema di quel rapporto di causa-effetto, con un titolo che ha un chiaro significato. Quindi non dovremmo sorprenderci che riferimenti all’Olocausto appaiano in quasi tutti i libri sopra citati, perché esso spiega e giustifica, in gran parte, la creazione di Israele. Quel precedente evento storico è servito come arma ideologica estremamente potente per i sionisti, esentandoli da qualsiasi grave ripercussione per la loro conquista ed espulsione dei Palestinesi.
Senza la realtà dell’Olocausto, il decennale progetto sionista di creare uno Stato ebraico quasi certamente sarebbe fallito. Ad esempio, Pappe sottolinea che, sebbene gli Inglesi mantenessero un’enorme forza militare in Palestina, con 100.000 soldati a presidio di un paese di meno di due milioni di abitanti, le conseguenze politiche dell’Olocausto li hanno resi impotenti di fronte ai diffusi attacchi sionisti, contro i quali non sono stati in grado di impiegare gli stessi metodi duri che avevano impiegato con successo, dieci anni prima, per reprimere la rivolta araba.
Questa stretta connessione tra Olocausto e Nakba ha avuto alcune conseguenze paradossali. Nel 1999, Peter Novick pubblicò The Holocaust in American Life, un lavoro fondamentale in cui osservava che, durante gli anni immediatamente successivi alla fine della seconda guerra mondiale, l'Olocausto era stato quasi totalmente assente dalla consapevolezza pubblica negli USA, anche tra gli stessi ebrei statunitensi, e solo nel corso degli anni '60 esso è gradualmente diventato un argomento importante di discussione pubblica e di copertura mediatica, nonché una questione centrale per gli ebrei statunitensi. In una recensione appassionata, Norman Finkelstein sostenne che questo processo si deve alla guerra arabo-israeliana del 1967, quando i sionisti pensarono di resuscitare quella storia dimenticata per giustificare e scusare la loro guerra di conquista e l’oppressione dei Palestinesi che ne seguì, usando quella narrativa di minaccia e vittimizzazione anche per cementare la lealtà dei loro vacillanti sostenitori statunitensi.
L'anno successivo Finkelstein espose alcune di quelle stesse idee in un libro breve ma violento intitolato L'industria dell'Olocausto, ed è conosciuto soprattutto per quell'opera, che avevo letto originariamente circa una dozzina di anni fa e ora ho riletto. Secondo il primo paragrafo della sua Introduzione, l’Olocausto è diventato “un’arma ideologica indispensabile” che Israele usa per difendere la sua “orrenda situazione in materia di diritti umani” contro i Palestinesi e, nelle pagine che seguono, ha documentato la massiccia corruzione e disonestà delle organizzazioni ebraiche coinvolte nell'attivismo contro l'Olocausto, che hanno estorto molti miliardi di dollari a paesi di tutto il mondo sulla base di affermazioni totalmente fraudolente. Nel il suo secondo capitolo intitolato “Imbroglioni, imbonitori e storia”, ha anche sottolineato che molte delle vittime dell’Olocausto di più alto profilo sono veri e propri bugiardi e truffatori.
Parte dell'indignazione di Finkelstein derivava dal suo legame personale con quegli eventi storici, dato che entrambi i suoi genitori soffrirono nei campi tedeschi e la maggior parte della sua famiglia allargata morì durante quegli anni di guerra. Ma egli è uno specialista del Medio Oriente piuttosto che della Seconda Guerra Mondiale o dell’era nazista, e la sua prospettiva generale sull’Olocausto sembra essere assolutamente tradizionale e convenzionale, con il suo lavoro che ha ottenuto le lodi di Raul Hilberg, fondatore e decano degli studi sull’Olocausto.
Sebbene il suo libro fosse inserito nella lista nera e quasi totalmente ignorato dalle riviste statunitensi, a quell'epoca la stampa europea era molto meno controllata e The Holocaust Industry ebbe un enorme successo editoriale lì, e in gran parte del resto del mondo esso raggiunse la vetta della classifica dei bestseller e fu tradotto in almeno sedici lingue diverse.
Finkelstein aveva certamente ragione nel sostenere che l’Olocausto era diventato una delle armi ideologiche più potenti di Israele nell’ultimo mezzo secolo, un salvacondotto universale che permetteva allo Stato ebraico di violare regolarmente tutti i principi stabiliti della normativa internazionale, senza incorrere in alcuna grave sanzione, vincolando però strettamente la lealtà degli ebrei della diaspora negli USA e nel resto del mondo. Ma anche lo strumento di propaganda più potente ha una data di scadenza, e sono trascorse più di tre generazioni dagli eventi in questione, quindi nel corso degli anni i sostenitori di Israele hanno naturalmente cercato qualche sostituto efficace.
In circostanze diverse, la teoria di Joan Peters, poi ripresa da Alan Dershowitz, avrebbe potuto affermarsi con successo, e le società occidentali avrebbero effettivamente potuto cadere vittima della palese bufala secondo cui i Palestinesi non erano originari della Palestina, una “grande bugia” che Hollywood ci avrebbe poi propinato fino alla nausea. Se così fosse stato, film del genere “La negazione della Nakba” avrebbero potuto gradualmente sostituire quelli sugli orrori dell'Olocausto, minando così completamente qualsiasi sostegno pubblico a milioni di vittime palestinesi del sionismo. Non sorprende affatto che la ridicola frode di Peters sia stata fortemente appoggiata da una figura imponente dello studio sull’Olocausto come Lucy Dawidowicz, insieme a Walter Reich, il direttore fondatore del Museo dell’Olocausto degli Stati Uniti, e al Premio Nobel del 1986 Elie Weisel. Ma lo stesso Finkelstein ha smascherato con successo quella bufala prima che diventasse troppo radicata per poterla sfidare con successo.
Pertanto, durante l’attuale conflitto di Gaza, gli Israeliani e i loro numerosi alleati mediatici sono stati costretti a fare affidamento su una serie di bufale di atrocità totalmente grottesche e infondate, per impedire qualsiasi critica al loro massacro in corso di decine di migliaia di civili palestinesi indifesi. Innanzitutto, ci è stato detto che i militanti di Hamas avevano decapitato quaranta bambini israeliani, una storia che presto è svanita nel nulla, per essere sostituita dalla storia di un bambino ebreo arrostito in un forno. Più recentemente, i media mainstream sono stati inondati dall’improvvisa scoperta che Hamas aveva commesso numerosi brutali stupri di gruppo e orribili mutilazioni sessuali il 7 ottobre, eventi che avrebbero talmente traumatizzato tutte le vittime e i testimoni, che non se ne era mai fatta menzione fino a quando fonti anonime si sono finalmente fatte avanti per rivelare quei fatti sorprendenti quasi due mesi dopo.
Alcuni di questi macabri racconti sulle atrocità di Hamas sembrano riecheggiare passate affermazioni sull’Olocausto che parlavano di ebrei trasformati in paralumi di pelle umana e saponette, diaboliche atrocità naziste che dovevano essere il lurido piatto forte del processo di Norimberga e di altra propaganda alleata, ma che alla fine bisognò ammettere che erano totali invenzioni.
Solo pochi giorni fa, il redattore di Grayzone, Max Blumenthal, ha pubblicato un eccezionale resoconto delle fonti assolutamente poco affidabili delle attuali accuse di atrocità di Hamas, un articolo che dovrebbe essere letto da tutti i giornalisti.
Max Blumenthal • www.ossin.org • 17 dicembre 2023
Ha anche discusso dello stesso materiale in un segmento del suo recente podcast.
La volontà di tutte le nostre élite politiche e mediatiche di accettare e fare propria la maggior parte delle attuali bufale sulle atrocità di Hamas ha consentito che continuasse il massacro di decine di migliaia di Palestinesi indifesi a Gaza. Leggere il lungo articolo di Blumenthal che svela quali sono stati gli autori di quelle storie inventate, mi ha fatto venire in mente un duro giudizio che avevo espresso in un articolo del 2018:
Chiunque legga dei libri di storia seri sa che gli ebrei hanno la reputazione di saper realizzare truffe colossali, cosa che non deve sorprendere data la loro notoria tendenza a mentire e a distorcere la realtà. Tra l’altro la comunità ebraica registra un abnorme numero di persone che soffrono di turbe psichiche e malattie mentali. Qualsiasi indagine sull’Olocausto conferma certamente questa valutazione negativa.
Negazione dell'Olocausto, esplicita e implicita
Penso che Blumenthal e altri abbiano completamente ragione nel considerare queste attuali storie di atrocità come propaganda assai inverosimile, ovviamente architettata a sostegno delle politiche israeliane. Ma potrebbero essere molto sorpresi nello scoprire che, subito dopo la creazione di Israele, individui ben informati avevano condannato l’intera narrativa tradizionale dell’Olocausto in termini molto simili.
Nel suo bestseller The Holocaust Industry, Finkelstein ha documentato la enorme disonestà e la corruzione che hanno permeato tanti degli aspetti più importanti di quel presunto evento storico, ma non ha mai messo in discussione i suoi presupposti più profondi e ha liquidato con disinvoltura i cosiddetti “negazionisti dell’Olocausto” in poche battute. Tuttavia, dopo aver molto indagato, sono arrivato a conclusioni molto diverse:
Qualche anno fa, mi sono imbattuto in un libro che mi era del tutto sconosciuto, pubblicato nel 1951 e intitolato Iron Curtain Over America di John Beaty, un rispettatissimo professore universitario. Beaty aveva servito negli anni di guerra nei servizi segreti militari, incaricato della preparazione dei rapporti di briefing quotidiani distribuiti a tutti gli alti responsabili e contenenti un sunto delle informazioni raccolte nel corso delle 24 ore precedenti, un incarico dunque di notevole responsabilità.
Pertanto, il bestseller di enorme successo di Beaty del 1951 attirò un'enorme attenzione e massicce critiche da parte di ebrei e liberal, ma sebbene fosse aspramente attaccato su ogni altra questione, nessuno di loro osò criticarlo per le parti in cui liquidava l'Olocausto come una semplice bufala propagandistica in tempo di guerra cui pochi credevano ancora. Inoltre, un lungo elenco dei nostri principali comandanti militari della Seconda Guerra Mondiale ha fortemente sostenuto il libro di Beaty.
Come ha documentato Novick, nei primi due decenni successivi alla fine della Seconda Guerra Mondiale, l’Olocausto sembrava essere quasi del tutto scomparso dalla coscienza occidentale, un fatto molto strano per un evento di così enorme portata. A favore di una simile conclusione, uno dei pochissimi libri sopra menzionati che non ne ha fatto menzione nel contesto di Israele è il resoconto scritto da Hutchinson nella metà degli anni '50 della sua esperienza come ispettore della tregua delle Nazioni Unite in quella regione. Nessuno, leggendo la sua storia, avrebbe mai sospettato che gli ebrei di Israele fossero “il settimo milione”, il miserabile residuo sopravvissuto all’annientamento di quasi tutta la comunità ebraica europea. I corrispondenti capitoli postbellici di un’indagine esaustiva sull’esercito statunitense condotta dallo studioso dell’Olocausto Joseph Bendersky riflettono un’assenza molto simile di tale consapevolezza.
Come ho continuato a spiegare durante la mia analisi del 2018 sulla “negazione dell’Olocausto”:
E ancora:
Prendiamo l’interessante caso del maresciallo Erhard Milch, numero due dopo Hermann Goering della Luftwaffe. Il padre era certamente ebreo e, secondo Robert Wistrich et Louis Snyder, vi sono prove di archivio che lo fosse anche la madre. Non è certo impossibile che un III Reich, ritenuto votato al fanatico progetto di sterminio di tutti gli ebrei, avesse un ebreo completo, o almeno a metà, collocato al vertice della sua gerarchia militare, ma certamente questa sconcertante anomalia richiederebbe una spiegazione minuziosa, e le origini ebraiche di Milch erano certamente conosciute durante il processo di Norimberga.
In effetti l’affascinante e apprezzatissimo libro Hitler’s Jewish Soldiers di Bryan Mark Rigg, del 2002, nota che, oltre a Milch, nell’esercito di Hitler c’era più di una dozzina di generali e ammiragli per metà ebrei, e altrettanti che lo erano per un quarto, più un totale di circa 150 000 soldati ausiliari per metà o un quarto ebrei, gran parte dei quali ufficiali. Tutti avevano dei genitori o dei nonni interamente ebrei e la cosa pare strana in un regime che si pensa avesse l’obiettivo del totale sterminio degli ebrei.
La mia convinzione è che chiunque legga attentamente i libri dei principali studiosi dell’Olocausto come Peter Novick, Deborah Lipstadt, Lucy Dawidowicz e Joseph Bendersky con una mente aperta e un occhio scettico arriverà inevitabilmente alla mia stessa conclusione:
Penso che sia molto più probabile che la narrativa standard sull’Olocausto sia almeno sostanzialmente falsa, e molto probabilmente, quasi del tutto falsa.
Ron Unz • www.ossin.org • 25 gennaio 2019
Ron Unz • www.ossin.org • 27 gennaio 2019
Inversioni della realtà, ora e nel passato
Per più di due mesi, le forze israeliane hanno bombardato incessantemente Gaza, commettendo il più grande massacro in diretta televisiva di civili indifesi nella storia del mondo. I leader israeliani hanno sistematicamente utilizzato un linguaggio genocida per descrivere i loro piani, ipotizzando addirittura l’uso di armi nucleari per annientare completamente la popolazione di Gaza, che supera i due milioni di persone. Molte decine di migliaia di edifici sono state distrutte, inclusi ospedali, scuole, università e tutte le altre strutture civili il cui farne un bersaglio deliberato durante i conflitti militari è sempre stato considerato un crimine di guerra.
Eppure, quando il procuratore capo della Corte penale internazionale ha recentemente visitato Israele, si proponeva soprattutto di preparare le accuse contro Hamas e altri gruppi palestinesi per la morte di civili israeliani all’inizio di ottobre.
E anche a questo proposito, ci sono prove crescenti che molti o la maggior parte dei civili israeliani disarmati uccisi nell’attacco di Hamas siano in realtà morti per mano delle forze israeliane dal grilletto facile. Resta fermo comunque che il rapporto vero di vittime è oramai maggiore di 100 a 1 a danno dei Palestinesi.
Tutti questi fatti sono facilmente accessibili a chiunque investighi sulla questione. Ma la stragrande maggioranza degli statunitensi che si informano sui nostri principali mezzi di comunicazione continua probabilmente a vedere gli Israeliani come vittime indifese e sofferenti, una notevole inversione della realtà. Come avevo spiegato nel 2018, la sfortunata storia del XX secolo fornisce esempi ancora maggiori di tali strani capovolgimenti della realtà:
La nostra falsa immagine della realtà storica è costruita e divulgata quotidianamente dai giornalisti, ma sospetto che la maggior parte di loro ignori la realtà dei fatti, al pari di tutti gli altri.
Consideriamo il caso di Emily Bazelon, che in prima pagina sul New York Times Magazine ha rievocato il tragico fallimento di tre decenni di tentativi per raggiungere una pace giusta tra Israeliani e Palestinesi.
Per quello che so di lei, ritengo sia una liberal convinta, assolutamente orgogliosa di suo nonno David L. Bazelon, che fu per più di due decenni giudice capo della più importante corte d'appello statunitense, un giurista la cui enorme influenza sulle questioni delle libertà civili lo ha consacrato come una delle figure giudiziarie più importanti del ventesimo secolo, un grande eroe dei progressisti statunitensi. In quel ruolo, era stato anche mentore di Alan Dershowitz, che aveva lavorato per lui, e sicuramente aveva contribuito a plasmare le nozioni di onestà e giustizia di quest'ultimo.
Non avevo mai messo in dubbio questi fatti. Ma diversi anni fa ho letto un paio di volumi molto consistenti sulla storia della criminalità organizzata di Gus Russo, uno dei nostri principali reporter investigativi su quell'argomento, e ho scoperto che la storia ufficiale di Bazelon era stata depurata da importanti fatti. Bazelonm, a soli 40 anni, diventò il più giovane giudice d'appello nella storia statunitense. Ma in precedenza aveva svolto attività legali di tipo piuttosto diverso.
Dopo aver iniziato la sua carriera come giovane avvocato della mafia per il Sindacato di Chicago di Al Capone, aveva poi rivestito un ruolo centrale nel saccheggio delle proprietà dei giapponesi-statunitensi della California e nella distribuzione dei loro beni sequestrati per miliardi di dollari ad altre famiglie ebree legate al sindacato, diventando molto ricco grazie alle enormi tangenti ottenute. Pertanto, esattamente negli stessi anni in cui i coloni sionisti espropriavano e saccheggiavano le proprietà degli sfortunati abitanti della Palestina per motivi razziali, i loro cugini ebrei in USA stavano facendo più o meno la stessa cosa ad un diverso gruppo etnico negli Stati Uniti:
Ron Unz • www.ossin.org • 15 ottobre 2019
Letture correlate:
Ossin pubblica articoli che considera onesti, intelligenti e ben documentati. Ciò non significa che ne condivida necessariamente il contenuto. Solo, ne ritiene utile la lettura. |