ProfileLe schede di ossin, 30 maggio 2024 - Qualunque cosa accada, negoziare sarà sempre meglio che continuare la guerra. Tanto più che i torti non sono esclusivi di nessuno, e poiché dobbiamo alla Russia almeno quanto riconosciamo agli Stati Uniti e all’Ucraina: il rispetto dei suoi diritti, solo i suoi diritti, ma tutti i suoi diritti (nella foto, il giovane Zelensky)     

 

 
 
Ucraina: le questioni nascoste di una guerra prevedibile
 
Yves Bonnet (*)
 
 
 
 
La guerra moderna è meno ideologica che economica e le forme che assume sono più rassicuranti di quanto sembri. Per quanto occultato, il problema principale degli ultimi conflitti riguarda il controllo dell’energia in tutte le sue forme. La guerra russo-ucraina non sfugge a questa regola. Per comprendere appieno cosa sta succedendo oggi sulle rive del Dnepr, dobbiamo tornare agli ultimi giorni della Seconda Guerra Mondiale.
 
Ricordiamo. I due principali attori del conflitto, la coppia anglo-statunitense e l'Unione Sovietica, si separano freddamente, la loro recente amicizia non va oltre l'ultima bomba, purtroppo atomica, caduta su Nagasaki. La conferenza di Postdam, cui la Francia non viene invitata – il generale De Gaulle vi si aggiungerà poi – ratifica questa confusione e una divisione del mondo a profitto dell’URSS, che fa scivolare da est a ovest la propria frontiera occidentale e quella della Polonia.
 
L'atomo, tutti lo intuiscono senza avere capito ancora in quale modo, rappresenta la formidabile fonte di energia del domani: necessita ancora di essere addomesticato. Il generale De Gaulle – ancora – è il primo a creare una Commissione per l’energia atomica (la CEA) di cui affida l’alto commissariato al genero di Pierre e Marie Curie, Frédéric Joliot-Curie. Eppure il ragazzo, premio Nobel per la fisica insieme alla moglie Irene, ha in tasca una tessera del Partito Comunista. Il capo del governo sa che non è il momento di lanciare una caccia alle streghe. Fa bene: da parte loro, statunitensi e sovietici danno il via ad una competizione sulla competenza, quella degli scienziati atomici tedeschi che avevano quasi battuto sul tempo Oppenheimer, rischiando di consegnare all'irresponsabile cancelliere nazista la pietra filosofale del trionfo nucleare. I servizi segreti dell'OSS e dell'NKVD ficcano il naso, corteggiano, rapiscono. Conosciamo la storia. Ma l’energia nucleare ha un handicap: non sappiamo come convertire la sua sproporzionata potenza in energia utilizzabile. A dire il vero, serve solo per scopi militari.
 
Per alimentare il consumo eccessivo di energia, favorito dalla ricostruzione, ci atteniamo alle fonti tradizionali, ai combustibili fossili, al carbone, agli idrocarburi. Facili da trasportare e immagazzinare, sono abbondanti, poco costosi e ben distribuiti in tutto il mondo, non senza favorire alcune aree, la più generosa delle quali si trova in Medio Oriente. Gli Statunitensi lo sanno e intendono assicurarsi gli approvvigionamenti. Il presidente Roosevelt, che sente arrivare la morte, vuole fare un ultimo regalo al suo Paese: di ritorno dalla conferenza di Yalta, accoglie il re dell'Arabia Saudita, Ibn Saud, a bordo dell'incrociatore Quincy. I due capi di Stato firmano un patto valido sessant'anni che garantisce agli Stati Uniti, in cambio della protezione della famiglia regnante dell'Arabia, l'accesso ai più grandi giacimenti petroliferi del mondo.
 
I sovietici hanno già a loro disposizione Baku e i giacimenti petroliferi del Caucaso che Hitler teneva d’occhio, i giacimenti petroliferi rumeni della Transilvania, ma non hanno ancora un’idea delle gigantesche risorse che si trovano sotto la superficie della Siberia.
 
Ciascuna a casa propria, le cinque major mondiali (Exxon Mobil, Chevron, BP, Shell e la società francese che diventerà Total) battono la campagna e depredano sistematicamente il mondo degli idrocarburi. I profitti diminuiscono, le fortune aumentano... e iniziano le guerre.
 
Una delle prime ci tocca direttamente perché riguarda l'Algeria. Finché la Francia si è dibattuta come meglio ha potuto per tirarsi fuori dal problema coloniale, in Indocina, Marocco, Tunisia, Algeria, il mondo dell’indifferenza si compiaceva dei suoi guai. I sovietici erano apertamente estasiati, gli anglosassoni segretamente estasiati, tutti guardavano divertiti la frutta secca cadere dall'albero. E poi, prima ancora dell'esplosione nel febbraio 1960 a Reggane della bomba atomica francese, arriva il grande annuncio: il gallo gallico, a forza di graffiare la sabbia del deserto, è riuscito a far sgorgare il prezioso liquido dalle parti di Hassi Messaoud. All’improvviso, la nostra presenza in Algeria diventa una storia completamente diversa.
 
Dopo aver risolto in due mosse il problema dell’“Impero”, dando l’indipendenza a tutto questo piccolo mondo africano, De Gaulle agisce allo stesso modo con l’Algeria prendendo la precauzione di firmare degli accordi, detti di Evian, che garantiscono alla Francia l’accesso al petrolio e al gas sahariano. Come era prevedibile, l'accordo viene denunciato da Boumediene nel 1971, e viene creata una società algerina, la Sonatrach, ma resta comunque una forma attenuata di cooperazione franco-algerina. Come prezzo delle nostre rinunce otteniamo il “favore” di rifornirci di gas a un prezzo amichevole, cioè pagandolo più dei prezzi mondiali.
 
 
Dominio mondiale del petrolio 
 
Stiamo quindi entrando nell’era del petrolio onnipotente. Le grandi imprese – che inconsapevolmente riprendono il nome delle “grandi compagnie” del Medioevo, truppe di banditi di professione – vanno in giro per il mondo e impongono i loro prezzi sia ai proprietari del sottosuolo sia a chi compra, ivi compresi gli Stati. I principali beneficiari di questo racket globale sono ovviamente i più grandi. Ciò avviene su due registri come nel grande organo di Notre-Dame. Al timone ci sono gli Stati Uniti, che strozzano ogni pretesa di autonomia dei paesi produttori di petrolio. Così, l'Iran del dottor Mossadegh impara nel modo più duro che la CIA non gli permetterà di espropriare le major.
 
Dura quanto doveva e poteva durare: lo spazio di qualche decennio. Poi arriva la rivolta, sotto la guida dello scià dell'Iran, il più intelligente del gruppo, che allo stesso tempo entra nell'era nucleare a costo di un esercizio di reciproca seduzione con il presidente francese Valéry Giscard d’Estaing. Reza Pahlavi, ingiustamente dimenticato dalla Storia, non si limita a finanziare gli impianti francesi di arricchimento dell'uranio, difende la valorizzazione degli idrocarburi, materia prima ancor prima che fonte di energia, e convince i suoi partner dell'OPEC della necessità e della legittimità di un aumento del prezzo degli idrocarburi che all’epoca appare fenomenale, passando da 4 a 16 dollari al barile. Da un giorno all’altro, tutte le luci di un’economia globale ad alta intensità energetica diventano rosse, la fine del mondo si avvicina ma poi… miracolosamente, tutto si calma. La vita torna alla normalità, ma l’allerta è stata calda e non sarà presto dimenticata.
 
Almeno non in Francia. Pochi mesi prima della crisi petrolifera, il governo di Pierre Messmer prende la coraggiosa decisione di lanciare il programma di costruzione di centrali nucleari più ambizioso che sia mai stato intrapreso. Ignora che sta facendo un dono inestimabile alle generazioni future – che sono le nostre di oggi – che salverà l’economia francese dalle vicissitudini di un secondo shock petrolifero, avvenuto effettivamente nel 1979, e da altri inconvenienti nella gestione del petrolio e del gas.
 
Gli Stati Uniti vegliano ancora gelosamente sul petrolio, proteggendo i loro amici – le monarchie del Golfo – e perseguitando potenziali ribelli – i regimi arabi secolari. Il sangue del petrolio, come lo definisce maliziosamente il generale Pierre-Marie Gallois [1], scorre nelle vene delle major statunitensi. Non è bene sfidarli. Saddam Hussein lo sperimenta. 
 
Allora qual è la strategia degli Stati Uniti per la produzione di energia e petrolio? È molto semplice: devono controllare l'economia mondiale e, per questo, il mercato mondiale degli idrocarburi, del petrolio e del gas. Ce lo spiega il professore statunitense Michael Hudson [2] nel febbraio 2022, quando scoppia la guerra russo-ucraina.
 
La linea di Washington si basa su quattro postulati:
 
  • la dottrina della Clinton Advocacy Policy che organizza il controllo statunitense sul commercio mondiale;
 
  • il divieto di qualsiasi relazione commerciale diretta tra gli europei da un lato e Cina e Russia dall'altro;
 
  • la priorità dello shale gas statunitense rispetto al gas naturale;
 
  • controllo delle vie di approvvigionamento europee di petrolio (oleodotti) e gas (gas naturale liquefatto).
 
Una volta chiariti, questi postulati ci insegnano che:
 
  • L’Advocacy Policy, un’organizzazione intelligente per la conquista dei grandi mercati mondiali ideata dal presidente Clinton – probabilmente sul modello della VPK sovietica – è il primo pilastro dell’espansione economica statunitense. Il principio è semplice: mettere al servizio delle imprese USA tutti gli strumenti per controllare i mercati globali individuando paesi target e aree di intervento. Per raggiungere questo obiettivo, l’Advocacy Center (o War Room) coinvolge tutte le amministrazioni, i servizi e le organizzazioni statunitensi, da quelle del commercio estero alle agenzie di intelligence come la CIA e la NSA. Hanno il compito di sfruttare il progresso e il potenziale delle economie più dinamiche e promettenti. Il potere politico interviene in una seconda fase deviando, anche se ciò significa farle deragliare, le transazioni in corso nel mondo, commerciali o industriali, a vantaggio delle imprese statunitensi;
 
  • Con il pretesto di impedire l’aumento della potenza militare di Cina e Russia, gli esportatori statunitensi si assicurano l’esclusiva delle forniture militari ai loro alleati. L’industria francese degli armamenti sta sperimentando questo;
 
  • Fin dalla sua comparsa negli anni '80, l'estrazione dello shale gas mediante fratturazione idraulica è diventata competitiva nonostante i gravi danni che provoca all'ambiente. Gli statunitensi sono addirittura diventati di nuovo i principali produttori mondiali di energia fossile gassosa (davanti ai russi) con una crescita impressionante della loro produzione, da 10 Bcf (miliardi di piedi cubi) al giorno nel 2006 a 42 Bcf nel 2015. L’industria statunitense ha creato oltre 2 milioni di posti di lavoro nelle energie pesanti più energivore: acciaio, vetro, cemento, petrolchimica. L'unico progresso in questo senso: il declino del carbone e la riduzione del 13% delle emissioni di gas serra tra il 2007 e il 2015. La competizione tra GNL russo e GNL statunitense si sta stabilizzando a favore del primo, meno costoso da estrarre e più vicino ai luoghi di consumo, il che comporta minori costi di trasporto, soprattutto se effettuati tramite gasdotti e non tramite navi metaniere. La Russia è desiderosa di diversificare i suoi acquirenti favorendo Cina e India;
 
  • Consapevoli del grave handicap rappresentato dalla distanza, gli Stati Uniti cercano di bloccare tutti i progetti europei di gasdotti che non controllano.
 
 
Le questioni relative al Nord Stream
 
È a questo punto che il gasdotto Nord Stream si colloca al centro della questione dei collegamenti dell’Europa con il gas russo.
 
La situazione è questa: all'inizio degli anni 2000 l'Europa era rifornita da un gasdotto chiamato Brotherhood che, partendo dalla Russia, attraversava da un lato all'altro l'Ucraina, poi la Slovacchia, la Repubblica Ceca e la Germania. Il transito attraverso l'Ucraina ha generato molteplici questioni di pagamento, con il paese attraversato che ha diritto di imporre una tassa, ma deve pagare i propri prelievi all'operatore. Per anni i due paesi hanno dovuto risolvere vari contenziosi. Questa è la principale ragione per la quale la Russia ha pensato di realizzare nuovi collegamenti verso l’Europa occidentale: il gasdotto Yamal dalla penisola di Yamal passa attraverso la Bielorussia e la Polonia, evitando l’Ucraina; e soprattutto Nord Stream, la maggior parte del quale viaggia lungo il fondo del Mar Baltico ed evita il percorso terrestre, per emergere poi nelle acque territoriali tedesche. La società russa Rosneft che lo gestisce ha nominato presidente del suo comitato degli azionisti e membro del consiglio di sorveglianza, in carica fino all'aprile 2022, Gerhard Schröder, ex cancelliere della Repubblica federale.
 
Nel 2015, la Russia ha prodotto 55,5 miliardi di piedi cubi al giorno, di cui ne ha esportato un terzo, ovvero 17,5 miliardi di piedi cubi, verso tre gruppi di clienti, l’Unione Europea, la coppia Ucraina e Bielorussia e infine la Turchia. Di fronte al GNL statunitense, il gruppo russo del gas è ampiamente competitivo grazie ai minori costi operativi e alla debolezza del rublo. Aggirare il Brotherhood raddoppiando il North Stream avrebbe potuto, a lungo termine, costare all’Ucraina fino a 2 miliardi di dollari all’anno. Un simile deficit sarebbe insopportabile per un paese con le finanze esauste. Dunque l’Ucraina, ma anche gli slovacchi, i cechi, i polacchi – che vedrebbero ridotto il traffico nello Yamal – e infine gli Stati Uniti sono contrari al raddoppio del Nord Stream che, invece, interessa molto ai Tedeschi e Russi. 
 
Questi stessi tedeschi, che possono contare sull’attivismo della presidente della Commissione Europea, Ursula von der Leyen, ex ministro federale della Difesa, chiedono all’Unione Europea di ratificare il riconoscimento del gas naturale come energia verde, riconoscimento non concesso, inizialmente, all’energia nucleare, anche se è un emettitore molto basso di gas serra.
 
Come si vede, ci sono gli ingredienti per una concorrenza senza compromessi, dapprima tra i produttori, poi tra la coppia di produttori russi e clienti tedeschi da un lato, e il blocco produttore statunitense e gli altri clienti europei dall'altro.
 
 
Lo smantellamento delle centrali nucleari francesi e tedesche 
 
Da queste minacce è stato risparmiato un paese, la Francia e il suo nucleare, che le assurde decisioni di Lionel Jospin e Dominique Voynet non sono riuscite a distruggere completamente. Lavoro che Emmanuel Macron e Nicolas Hulot stanno portando avanti impegnandosi a ridurre ancor più il numero di reattori e chiudendo una ventina di centrali elettriche. Sono loro i responsabili del sabotaggio di una produzione che da quarant'anni sostiene l'economia francese.
 
Essi sono stati molto aiutati dalla lobby antinucleare, la cui forza forse non è tutta dovuta al caso. Di fronte al forte emergere dell’opzione nucleare, le grandi compagnie petrolifere non potevano che mobilitarsi. La comparsa sulla scena mediatica di organizzazioni antinucleari misteriosamente finanziate non è forse casuale, mentre ad essere oggettivi la lotta contro le emissioni di gas serra e l’inquinamento di ogni genere dovrebbe privilegiare l’energia nucleare civile, fornitrice di energia pulita ed economica.
 
In Francia, paese di riferimento per il nucleare civile – e incidentalmente per il nucleare militare con la costruzione di SSBN interamente francesi – l’energia nucleare stava diventando una questione politica con una sinistra antinucleare, con la notevole eccezione del Partito Comunista, e una destra pro-nucleare. Rivendicando un’apoliticità andata rapidamente in frantumi, il sedicente partito ambientalista ha stretto un’alleanza con la sinistra socialista per arrivare insieme al potere.
 
Il ritorno dei socialisti al governo fu accompagnato da un improvviso impegno per la demolizione dei progetti di sviluppo nucleare. Vincitore delle elezioni legislative del 1997, Lionel Jospin è apparso accanto a Dominique Voynet nel ruolo di salvatore del pianeta. Di salvatori ne abbiamo visti di meglio: la chiusura del Superphénix, il primo reattore a neutroni veloci (FNR), è il primo brutto colpo per il settore più competitivo della nostra economia. Quella che veniva erroneamente chiamata lobby nucleare, incentrata sull’EDF e sulla CEA, non ha avuto alcuna forza politica di fronte all’antinucleare, soprattutto quando i grandi architetti dell’epopea elettrica scomparvero. Marchio e simbolo di questa inversione di tendenza, EDF e COGEMA adesso si occupano di formaggi per gli “amichetti”, Gilles Ménage, François Roussely, Anne Lauvergeon.
 
Tuttavia c'è di peggio. La Germania, la cui cancelliera Angela Merkel ha confuso lo tsunami di Fukushima con un disastro industriale, ha deciso di smantellare la flotta nucleare di un Paese altamente industrializzato e di utilizzare le cosiddette energie rinnovabili, in realtà intermittenti, e il gas naturale. Si è quindi posta sotto la dipendenza della Russia, il fornitore più vicino ed economico. A Bruxelles, i tedeschi hanno avuto sufficiente influenza per far riconoscere il gas “naturale” come “energia verde”, cosa che non può essere poiché il suo utilizzo genera emissioni nocive nell’atmosfera. I Verdi – die Grünen – essendo riusciti a formare una coalizione con i socialdemocratici, potrebbero andare avanti e, con il pretesto di salvare il pianeta, perseguire il loro obiettivo principale, lo smantellamento delle centrali nucleari. Per non essere da meno, la Francia di François Hollande e Emmanuel Macron ha fissato un tetto alla produzione di elettricità nucleare al 50% per giustificare i cospicui aiuti concessi ai promotori delle turbine eoliche. A testimonianza della sua determinazione e incoerenza europea, il più giovane Presidente della Repubblica della nostra storia ha chiuso la centrale elettrica di Fessenheim, mentre la Germania ha aperto una centrale elettrica a carbone nelle vicinanze (a Datteln) che si è aggiunta alle 70 centrali elettriche, molte delle quali funzionano a lignite – che rendono questo paese vicino il principale inquinatore d’Europa, subito dopo la Polonia.
 
È stata l’epoca d’oro del gas naturale, con la vicina Russia come principale fornitore, così vicina che i gasdotti potevano trasportare la preziosa produzione a un costo inferiore. Nel 2014, anno del Maidan, il 6% delle esportazioni europee di gas russo erano destinate all’Europa, il 21% alla Bielorussia e all’Ucraina, il 15% alla Turchia, oltre alle esportazioni verso il Giappone. La rete settentrionale russa (Siberia) riforniva le isole britanniche e la Germania tramite Nordstream I e II. Per evitare il transito del gas attraverso l'Ucraina, è stato studiato il progetto di un nuovo gasdotto denominato Nabucco che collegherebbe il Bluestream, anch'esso in gasdotto, alla rete principale. Attraverserebbe il Mar Nero evitando l’Ucraina e riemergerebbe in Bulgaria.
 
Gli Stati Uniti sono poi intervenuti per dissuadere il governo di Sofia dall’acconsentire a questo nuovo servizio. Notando ciò, la Russia, a sua volta, ha chiesto alla Siria di vietare il passaggio attraverso il suo territorio di un gasdotto che collega la penisola arabica – e incidentalmente l’Iran – alla Turchia.
 
Pierre-Marie Gallois consigliava ai suoi tempi, non molto tempo fa, di prestare attenzione alla mappa degli oleodotti e dei gasdotti che secondo lui erano la chiave della maggior parte dei conflitti del Vicino e Medio Oriente. Lui aveva ragione. Ne abbiamo la dimostrazione.
 
 
Il passaggio dalla guerra commerciale al conflitto armato 
 
Tutti gli ingredienti di una nuova guerra, questa volta commerciale, tra Stati Uniti e Russia, si sono infatti messi insieme dopo il crollo dell'Unione Sovietica, e la sua frammentazione in 15 Stati indipendenti corrispondenti alle ex repubbliche sovietiche dai confini stabiliti in modo autoritario, perfino fittizio, e una Russia ora sotto la bandiera della Federazione Russa. Notiamo di sfuggita che la prima di queste secessioni, quella che ha coinvolto i tre paesi baltici, è stata effettuata in modo unilaterale, creando involontariamente il precedente che altri territori potrebbero rivendicare come, nel caso che ci interessa, le repubbliche autonome del Donbass.
 
La posta in gioco era il controllo del mercato energetico e il rilancio della vecchia ossessione russa di accesso permanente ai mari caldi. Occorreva ancora un pretesto per trascinare Putin in un’escalation che la propaganda statunitense avrebbe trasformato in aggressione deliberata e che avrebbe permesso di abbattere, una volta per tutte, l’orso russo. Fantasia, anticipazione? Ancora una volta è Victoria Nuland, citata dall'accademico Michaël Hudson, a darci la risposta. In una conferenza stampa al Dipartimento di Stato il 27 gennaio 2022, ha dichiarato: “Se la Russia invadesse l’Ucraina, in un modo o nell’altro, il Nord Stream II non andrà avanti”. Il professor Hudson continua con questa osservazione personale: "Il problema è creare un incidente sufficientemente offensivo e presentare poi la Russia come l'aggressore [3]".
 
Il paradosso è che la signora Nuland, che ha appena lasciato lo staff del presidente Biden e che ha pronunciato parole assai volgari nei confronti dell'Unione europea, è per il resto cauta riguardo all'intervento diretto della NATO nella guerra. Sarebbe imprudente e disonesto attribuirgli, come al presidente Biden, intenzioni aggressive contro Mosca. Diciamo più semplicemente che tutto è successo dopo le sconsiderate promesse del signor Barroso, come se la ripresa con la forza delle province autonome dell'est fosse diventata una priorità nazionale ucraina:
 
  • Colpo di Maidan, generosamente finanziato dall’esterno secondo le dichiarazioni di Victoria Nuland (5 miliardi di dollari),
 
  • Fuga del presidente filo-russo Victor Yanukovich,
 
  • Ascesa al potere di Petro Poroshenko, deposto nel 2019, poi elezione di Volodimir Zelenskyj,
 
  • Secessione della Crimea (16 marzo 2014),
 
  • Secessione degli Oblati di Donetsk e Luhansk, (aprile 2014),
 
  • Protocolli di Minsk (5 settembre 2014), garantiti da Germania e Francia “per guadagnare il tempo necessario” alla ripresa della lotta contro le repubbliche autonome e la Russia, secondo le confessioni di Angela Merkel e François Hollande,
 
  • Bombardamento per sette anni delle province secessioniste dell’est (16.000 morti),
 
  • Preparazione intensiva dell’esercito ucraino con l’assistenza statunitense (5.000 consiglieri USA ed europei),
 
  • Consegna di attrezzature militari e armi all’Ucraina,
 
  • Creazione di dodici basi CIA su richiesta dei Servizi ucraini,
 
  • Ripresa dei combattimenti nel febbraio 2022, ciascuna parte incolpa l’altra, un aumento molto significativo (sic) dei bombardamenti e delle esplosioni (ucraine) nel Donbass registrato il 17 febbraio, con l’intervento della Russia il 22 febbraio
 
In realtà gli accordi di Minsk non furono mai rispettati, l'Ucraina è giunta perfino a bandire la lingua russa nei territori contesi e a non concedere, come aveva promesso, alcuna autonomia a Donetz e Luhansk. Ha completato il quadro bombardando il Donbass, cioè quella che rivendicava come propria popolazione. Da parte sua, la Russia ha segretamente sostenuto questi territori inviando loro “volontari”.
 
Dobbiamo essere chiari su questo punto. Inizialmente, fino al Protocollo di Minsk, gli oblast di Donetz e Luhansk chiedevano la loro autonomia e non la loro indipendenza. L’Ucraina ha promesso di concederla, ma non ha mai mantenuto la promessa. La secessione della Crimea ha cambiato la situazione. Costituisce lo scoglio di un imbroglio giuridico insolubile.
 
Gli elementi sono i seguenti: durante la disgregazione dell'URSS, il 12 febbraio 1991 in Crimea fu organizzato un referendum sulla questione se questa repubblica intendesse diventare nuovamente una Repubblica socialista sovietica autonoma dell'URSS: il risultato fu inequivocabilmente positivo. 94,3% “sì” e 81,37% di partecipazione. L'RSSA di Crimea venne tuttavia sciolta il 26 febbraio 1992 e ricevette la qualifica di Repubblica autonoma. Da parte di Kiev si dimentica che fu una decisione personale di Nikita Krusciov a portare all’annessione della Crimea all’Ucraina.
 
Due anni dopo, la Repubblica Autonoma di Crimea indisse un nuovo referendum sulla possibile annessione alla Federazione Russa. Ancora una volta il risultato fu inequivocabile con il 96,6% di “sì”. Il carattere maggioritario del voto è innegabile. Tuttavia, il governo ucraino nega alla Crimea il diritto all’autodeterminazione mentre lo riconosce ai bosniaci e ai kosovari. Il presidente della Serbia, Aleksandar Vucic, non ha esitato a denunciare l’ipocrisia dell’Occidente dal podio dell’Assemblea generale delle Nazioni Unite nel settembre 2023.
 
Il contenzioso giuridico non è destinato a concludersi a causa dell'incapacità degli organismi internazionali di scegliere tra il principio dell'intangibilità delle frontiere e quello del diritto dei popoli all'autodeterminazione. Sarebbe quantomeno opportuno mantenere la moderazione in un conflitto in cui dal dibattito sostanziale non emerge nulla di conclusivo.
 
Questi dati indiscutibili pongono chiaramente l’equazione che le parti in conflitto devono risolvere, o con la forza, o con i negoziati, o con l’una e gli altri insieme. Prima di continuare una guerra fratricida, i protagonisti hanno cercato vie di dialogo. Oggi sappiamo che i colloqui si sono effettivamente svolti in Turchia nell’aprile 2022 e che russi e ucraini erano vicini a un accordo. Ma la pressione statunitense è stata sufficientemente forte e convincente da dissuadere Kiev dal firmare qualsiasi documento. Ciò è comprensibile: gli Stati Uniti avevano bisogno di un conflitto che indebolisse permanentemente la Russia. Una conclusione rapida non conveniva. Le dichiarazioni del ministro Lemaire che promette di “mettere in ginocchio la Russia” in pochi mesi corroborano questa tesi. Le truppe russe, infatti (135.000 uomini di cui 60.000 per la prima ondata d'assalto), insufficienti ad occupare un territorio come l'Ucraina, hanno ripiegato dopo i primi scontri per mettere in sicurezza ciò che sembrava loro essenziale, la sicurezza delle repubbliche divenute secessioniste, poi la loro integrazione nella Federazione Russa. La loro avanzata verso ovest era intesa solo come un diversivo per ridurre la pressione del potere centrale di Kiev sul Donbass.
 
I belligeranti hanno quindi attuato due strategie opposte:
 
Dopo aver ricostituito la propria potenza di fuoco grazie all'artiglieria e all'aviazione, il comando russo ha scelto una linea difensiva, ancorando le sue posizioni al suolo con tre linee di difesa successive che sono diventate assai difficili da smantellare. Si è scelto di indebolire le forze ucraine, sapendo che le perdite dell'avversario sarebbero state sempre più difficili da compensare. Questa è la strategia di logoramento, nella quale i russi, il cui esercito ha una strategia militare di natura difensiva, sono diventati maestri.
 
Gli ucraini, al contrario, hanno impegnato le loro migliori truppe nell’offensiva, seguendo l’ordine dato dal presidente Zelenskyj, contro il parere dei militari, di avanzare a tutti i costi. Ciò ha provocato combattimenti inutili che sono costate vite umane. La battaglia di Bakhmout è emblematica di questa scelta. Perso o vinto, è stato soprattutto mortale per entrambi gli schieramenti. La cosiddetta offensiva “di primavera” – in realtà nel giugno 2023 – non si è discostata da questo schema. Almeno in parte per convincere i suoi partner occidentali ad aiutarlo massicciamente, Volodimir Zelenskyj ha impegnato i suoi corpi da battaglia in assalti volti a conquistare o riconquistare la città di Bakhmout. I russi si solo limitati a inviare in soccorso i mercenari ben addestrati della compagnia Wagner. Le perdite si sono rivelate insopportabili per gli ucraini e le loro migliori unità hanno subito molte perdite. Estesa su un intero fronte di oltre duemila chilometri, la strategia di Zelenskyj non ha convinto del tutto. L'annuncio dell'offensiva di primavera, con mesi di anticipo, ha lanciato l'allarme nel campo opposto che ha compiuto un grande sforzo di intelligence, sapendo che 260 satelliti del sistema NATO monitoravano le sue forze, schierate in profondità su tre linee di difesa. In un'intervista rilasciata il 20 febbraio 2024 all'agenzia Tass [ 4], il ministro della Difesa russo, il generale Shoigu, ha spiegato che la strategia perseguita nel conflitto ucraino è stata quella di essere pazienti e di minimizzare le perdite russe massimizzando quelle degli ucraini. Ha fornito cifre impossibili da verificare e probabilmente esagerate. L' agenzia Tass fornisce rapporti giornalieri sulle perdite nemiche in attrezzature e personale, ma nessun dato relativo alle forze russe. Secondo esperti indipendenti come il colonnello Jacques Baud, ex capo dei servizi segreti svizzeri, o Alain Juillet, ex direttore dei servizi segreti della DGSE e promotore della sicurezza economica in Francia, e in assenza di conteggi contraddittori, sembra accettabile affermare che il rapporto delle perdite sarebbe di circa 1 a 5 a favore dei russi, il che porterebbe il numero dei morti ucraini a circa 500.000 e quello dei russi a 100.000. Ciò che è invece dimostrato è che l’incredibile sottostima delle perdite subite da parte dal presidente Zelenskyj, che le limita ad oggi a sole 31.000.
 
Mentre sono in corso i combattimenti a terra, nel settembre 2022 si verificano attacchi marittimi e anche subacquei contro obiettivi civili. Sono i due attacchi commessi nel Mar Baltico contro i gasdotti Nord Stream I e II, il primo il 26 settembre 2022, il secondo pochi giorni dopo. Facilmente attribuibili, questi atti terroristici (è la parola giusta) sono stati oggetto di indagini tedesche, danesi e svedesi, i cui risultati non sono stati pubblicati. Evidente prova di imbarazzo generale. Fonti occidentali hanno addebitato il fatto agli ucraini, ma sembra improbabile che la marina ucraina disponga delle attrezzature e del personale per effettuare una missione del genere ad un centinaio di metri sott'acqua che richiede grandi quantità di esplosivi.
 
Si è cercato di sostenere la tesi secondo cui sarebbero stati i russi a ordinare l'attentato: tale accusa non regge all'analisi, per tre ragioni: l'entità dei danni; l'esistenza evidente di un principale beneficiario dell'interruzione del traffico di gas tra Germania e Russia; infine e soprattutto il luogo degli attentati, nei pressi dell'isola danese di Bornholm, dove si trovano sensibilissime stazioni di rilevamento statunitensi, che monitorano le entrate e le uscite dei sottomarini russi nel Mar Baltico. Ciò che si può dire senza rischio di errore è che non si sarebbe potuto fare nulla senza che gli statunitensi lo sapessero. E ciò significa che hanno approvato. Forse non sapremo mai con certezza chi ha fatto cosa, ma questo non ha più tanta importanza di fronte all’immensa sfida che attende la comunità internazionale: quella di una guerra mondiale totale che cancellerebbe dalla mappa l’Europa e gli Stati Uniti, altamente urbanizzati, meno duramente la Russia delle immensità, ancor meno la Cina e il resto del mondo.
 
Per i guerrafondai dichiarati la soluzione sarebbe combattere fino all'ultimo soldato... ucraino. Essi possono contare sul sostegno di quasi tutti i media, sulla propaganda ufficiale e sul denaro. All’inizio della guerra l’opinione pubblica li ha seguiti quasi all’unanimità, tanto più facilmente in quanto i media russi sono stati puramente e semplicemente banditi a livello europeo. Questa stessa opinione si è modificata man mano che i combattimenti si prolungavano, e si delineava una indifferenza statunitense e si approfondivano i dissensi europei.
 
 
 La fine annunciata della supremazia occidentale 
 
Chi dice NATO dice Stati Uniti. I bravi soldatini dell’Organizzazione Nord Atlantica seguono ciecamente le ingiunzioni provenienti da Washington. Hanno reagito nei confronti dell’Ucraina come hanno fatto con l’Iraq, la Libia o l’Afghanistan. Hanno maggiori difficoltà con la Cina, che ora si è affermata come l’unico rivale della potenza più ricca, ma anche più indebitata del mondo. Questa lenta modificazione delle sfere d'influenza nel mondo fa bene alla Russia, che non disdegna di uscire dall'aureola statunitense. Perché questo significa che Washington non sarà così aggressiva nella difesa di Kiev come lo sarebbe stata quarant’anni fa. Fino ad allora sicuri di imporre la pax americana al resto del mondo, Asia, Africa, America Latina, e di installare il dollaro – anzi l’euro – come moneta universale, oggi gli alleati della NATO hanno perso le loro certezze. Quanto alle loro posizioni geostrategiche, capiscono che adesso devono tenere conto dei BRICS – Brasile, Russia, India, Cina, Sud Africa – ai quali dal 1° gennaio si sono aggiunti Egitto, Etiopia, Iran, Arabia Saudita ed Emirati Arabi Uniti, che stanno mettendo insieme le loro risorse per indebolire l’Occidente confuso con la NATO, soprattutto da quando i paesi scandinavi hanno aderito a quest’ultima. La loro alleanza, da quella economica a quella politica, mira a controbilanciare il G7. Con i loro tre miliardi e seicentoundici milioni di abitanti, rispetto ai 783 milioni di occidentali, i BRICS controllano gran parte del mercato petrolifero, soprattutto perché ospitano i due principali fornitori della penisola arabica e detengono buona parte del debito statunitense ed europeo.
 
I primi effetti di questo capovolgimento degli equilibri di potere si possono osservare in Africa e nella Penisola Arabica. La Francia si è vista espellere senza troppe cerimonie dall’Africa sub-sahariana nel corso di un decennio e due presidenze. Quelle di François Hollande ed Emmanuel Macron. Basta guardare una di queste mappe di Vidal de La Blache che mostrava in tutte le aule scolastiche l'opera coloniale della Terza Repubblica, per misurare cosa è diventata l'influenza della Francia, oramai confinata al solo Esagono. In meno tempo di quello necessario per passare da CM 1 al corso di filosofia, il presidente di tutti gli abbandoni – ENA, corpo prefettizio, corpo diplomatico – avrà ridotto a nulla il lavoro di tanti amministratori, metropolitani e d'oltremare, a tal punto che De Gaulle nemmeno si rivolterà nella tomba. Perché la “sua” Francia, quella di Charles De Gaulle, indipendente – o sovrana che dir si voglia – politicamente, economicamente, militarmente, energeticamente – non è ormai nulla più che una semplice traccia sul grande libro della Storia. Il sentimento europeo di appartenenza ad un’entità considerevole – nel senso primario del termine – non basta a cancellare la consapevolezza del declino. L’Europa coloniale è un ricordo, il che non è necessariamente un male, ma non ha prosperato nemmeno l’idea gallica di Comunità, di cui egli fu il primo presidente. Non riuscendo a mostrare solidarietà ai loro amici francesi, anche i paesi dell’UE hanno perso la loro credibilità mentre gli Stati Uniti spaziavano nella grande prateria della decolonizzazione.
 
Chi potrebbe biasimarli? Gli statunitensi non sono cambiati granché da quando Tocqueville ne sottolineava il vibrante patriottismo. Dalla Dottrina Monroe ai tardivi ma decisivi interventi nelle due guerre mondiali, gli Stati Uniti sono riusciti a mantenere la linea di rettitudine e onestà morale ereditata dalle loro origini WASP [5], coltivando al tempo stesso la propria sete di business: gli affari sono affari. Semplicemente, dalla fine della Seconda Guerra Mondiale, hanno adottato quella che potremmo chiamare la “dottrina Patton”. Questo generale, campione dell'offensiva alla testa della sua unità corazzata, consigliò, mentre le operazioni militari non erano ancora finite, di mettersi in rotta con l'Armata Rossa che aveva appena inferto i colpi più duri alla Wehrmacht. Harry Truman, appena insediatosi alla Casa Bianca, fece propria questa dottrina che avrebbe dato origine al maccartismo e congelato le relazioni tra gli Stati Uniti e l'URSS in una postura di reciproca sfiducia. È chiaro che la personalità di Stalin e la natura dittatoriale del regime comunista hanno giocato un ruolo decisivo nell'avvento della Guerra Fredda e nella chiusura della cortina di ferro.
 
Quarantacinque anni dopo, il 25 dicembre 1991, lo smembramento dell’URSS registrato a Minsk (!) da parte di Russia, Bielorussia e Ucraina avrebbe potuto e dovuto aprire una nuova era, quella della convivenza pacifica, invocata dalla Russia di Gorbaciov e poi di Boris Eltsin. La risposta statunitense è stata la Dottrina Wolfowitz che prendeva atto della supremazia USA e stabiliva le condizioni per mantenerla. Tutto ebbe inizio con lo smembramento, questa volta della Federazione Russa, in quindici entità indipendenti. In realtà, era una Russia moribonda, derisa e umiliata.
 
 
La rinascita della Russia 
 
Ciò significava pregiudicare la capacità di ripresa di un paese con risorse gigantesche e un patriottismo inestirpabile. Un uomo la incarnava, scelto da Boris Eltsin, in un raro colpo di genio, il kgbista Vladimir Putin.
 
Di quest'uomo riservato ma moderno nella sua percezione del potere è stato detto tutto, e non è necessario ritornarvi sopra. Salvo sottolineare che ha restituito al popolo russo il suo orgoglio.
 
La Russia di Vladimir Putin è molto lontana dal modello sovietico, anche se presenta aspetti discutibili per quanto riguarda i diritti umani. Tuttavia, la sua evoluzione è avvenuta nella direzione di una certa liberalizzazione, mentre gli Stati Uniti, unici padroni del mondo e inconsapevoli del risveglio della Cina, hanno seguito la strada opposta e hanno schiacciato gli ostacoli reali o presunti al loro potere assoluto con una pesante storia di aggressioni contro Stati sovrani – Iraq, Vietnam, Grenada, Panama, Somalia, Afghanistan – le dubbie attività della CIA e l’apertura di campi di detenzione fuori dal loro territorio, mentre la Russia si ricostruiva.
 
All’inizio del terzo millennio, l’immagine che gli ex alleati contro l’hitlerismo riflettono l’uno dell’altro è quindi più sfumata di quanto comunemente venga presentata. La guerra in Ucraina, il cui scoppio è di moda attribuire alla sola Russia e necessariamente a Putin, non è scoppiata per caso, così come i suoi protagonisti non dovrebbero essere tutti collocati nello stesso campo. In particolare, non è affatto sicuro che la statura di Putin si adatti all’immagine che i media occidentali gli hanno spudoratamente confezionano. Il manicheismo si muove a disagio tra gli alti e bassi delle relazioni internazionali, soprattutto se a questo si aggiunge una sconcertante mancanza di cultura come quella che ha portato il capo della Renaissance (il partito di Macron, ndt) a dire agli europei che Edouard Daladier era un disfattista, un'affermazione assolutamente falsa nei confronti del solo uomo politico della Terza Repubblica che ha fato del riarmo il proprio credo indefettibile. Allo stesso modo, è diventato pericoloso osare avanzare dubbi sui giudizi correnti a proposito del conflitto attuale.
 
Per i presunti filo-ucraini (sic), l’intera responsabilità ricade su Vladimir Putin. Non sono mancati i paragoni – non molto lusinghieri –: Hitler, Stalin, ma non Napoleone, che pure non aveva l’abitudine di dichiarare guerra. Anche senza considerare il mancato rispetto della parola data da parte dei leader statunitensi, Putin ha comunque mosso le sue truppe contro un avversario che da sette anni bombardava due province del suo stesso territorio, al modico costo di 16.000 morti. L’avanzata delle forze russe, riprovevole secondo il diritto internazionale – ma non più degli interventi statunitensi in quattro continenti – pone paradossalmente più problemi che vantaggi per i russi. Sono infatti diventati bersaglio di guerrafondai da salotto, l'osare esprimere riserve sulla democrazia dell'Ucraina viene considerato un crimine, il minimo accenno di comprensione nei confronti della politica russa viene considerato una vergognosa apologia. Le voci autorevoli di Alain Juillet, Caroline Galactéros, Éric Denécé o del colonnello Jacques Baud non vengono più ascoltate ma stigmatizzate. In attesa di meglio.
 
Raramente avremo assistito a una tale esplosione di propaganda contro un paese che non è certo un tradizionale alleato della Francia, ma di cui non è facile dimenticare il ruolo decisivo nel rovesciamento del nazismo. I dieci milioni di soldati con la stella rossa pesano meno dei quattrocentomila soldati statunitensi. C'è quindi da scommettere che, per commemorare l'80° anniversario dello sbarco in Normandia, sarà invitata la Germania, che allora era nostra nemica, ma non la Russia che era nostra alleata, e anche l'Ucraina sarà presente alla festa, nonostante abbia fornito alle SS decine di migliaia di uomini e centinaia di migliaia di guardie dei campi della morte, ma non la Jugoslavia, soprattutto la Serbia, che ha avuto più morti degli Stati Uniti.
 
Senza dubbio, le autorità russe non sono più rispettose del diritto di protesta o, più semplicemente, di informazione. Non si tratta di assolvere Vladimir Putin dai crimini che avrebbe commesso. A una condizione, però: che questi crimini siano provati e che lui abbia avuto modo di spiegarli.
 
Le accuse non sono verdetti. Quelle intentate contro i leader russi indicati per nome sarebbero valide solo se confermate da un tribunale che non sia di comodo. Ma ricordiamo che Stati Uniti, Russia, Israele, Cina e India non hanno ratificato la creazione della Corte penale internazionale. Ammettiamo che la morte in carcere di un avversario possa richiedere spiegazioni. Ma ricordiamo a questo proposito che la morte nel carcere dell'Aja del presidente della Serbia Slobodan Milosevic, nel 2006, non ha suscitato alcun interrogativo e ancor meno indignazione. Da parte mia, posso modestamente attestare che, poche settimane prima di questo esito fatale, il presidente serbo (che, ricordiamolo, non era stato condannato) sembrava in buona forma.
 
Come democratici, abbiamo il dovere di dare l’esempio e di essere onesti. Ascoltare tutte le versioni, smettere di imbavagliare gli avversari, far valere le nostre opinioni senza eccezioni.
 
C'è ancora qualcosa di ancora più importante.
 
In nome della semplice umanità, dobbiamo spegnere il fuoco il più rapidamente possibile. Dobbiamo porre fine alle terribili perdite subite dagli ucraini, dalle quali ci vorranno decenni per riprendersi. Tanto peggio per i russi, se dovessero mettere a tacere le armi. Tanto meglio per i soldati che rivedranno le loro famiglie. La porta dei negoziati non è aperta, ma non è nemmeno doppiamente chiusa. Sta a noi girare la maniglia e dare un senso alla parola diplomazia.
 
Jean-Pierre Chevènement e Hubert Védrine, grandi servitori dello Stato, invitano al dibattito. Qualunque cosa accada, negoziare sarà sempre meglio che continuare la guerra. Questa osservazione, per nulla originale, si rivela tanto più imperativa in quanto i torti non sono esclusivi di nessuno, e poiché dobbiamo alla Russia almeno quanto riconosciamo agli Stati Uniti e all’Ucraina: il rispetto dei suoi diritti, solo i suoi diritti, ma tutti i suoi diritti.
 
 
Note:
 
 
 
 
 
 
[5] Bianco Anglo-Sassone Protestante. 
 
 
 
(*) Prefetto onorario, ex direttore del DST (Servizio di Intelligence francese), ex deputato, consigliere regionale della Normandia, membro del Consiglio strategico CF2R
 
 
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