ProfileStorie di genocidio, 18 maggio 2024 - Oggi mi trovo in Egitto con mia moglie e mio figlio. Pensavo che mia madre sarebbe stata con noi. Riposa in pace, mia amata. Sono così dolente di non averti potuto salvare (nella foto, Amira Hajjaj, 72 anni, al centro)     

 

Mondoweiss, 16 maggio 2024 (trad.ossin)
 
Come la guerra genocida di Israele ha ucciso mia madre
Tareq S. Hajjaj (*)
 
 
Oggi mi trovo in Egitto con mia moglie e mio figlio. Pensavo che mia madre sarebbe stata con noi. Riposa in pace, mia amata. Sono così dolente di non averti potuto salvare
 
 
AMIRA HAJJAJ, 72 ANNI, (AL CENTRO), A CASA SUA CON I PARENTI AD AL-SHUJA'IYYA NEL 2022. (FOTO: TAREQ HAJJAJ)
 
 
La vecchia si siede sul letto accanto alla finestra. Sebbene non possa vederlo, il caldo sole della sua terra natale la inonda di luce. Si prende la testa tra le mani, pensando ad alta voce a come ha passato tutta la vita cercando di sfuggire alle bombe israeliane. Sullo sfondo, la stessa finestra che fa entrare la luce lascia entrare anche il ronzio costante degli aerei da guerra e dei droni, intervallato dallo scoppio di granate e bombe. Sebbene non possa vederle, sente le esplosioni e sente ogni volta tremare la terra. 
 
Quella vecchia vicino alla finestra era mia madre. 
 
Negli ultimi cinque anni sono stato il suo più assiduo badante, perché era cieca e soffriva di una serie di altre patologie, anche cardiache. Inoltre aveva una frattura dell’anca. Negli ultimi cinque anni ho passato quasi tutte le notti sveglio, pronto a soccorrerla in caso di necessità. 
 
Diceva sempre “perdonami”, per senso di colpa, ma io rispondevo che era il mio tesoro, che era la propiziatrice di ogni cosa benedetta e buona della mia vita. 
 
La mia famiglia e io siamo stati sfollati cinque volte finora, nel corso della guerra genocida contro i Palestinesi di Gaza. Siamo una famiglia di otto fratelli e io sono il più giovane. Sono tutti sposati e alcuni dei miei nipoti sono anche più grandi di me. 
 
Vivevamo tutti nello stesso edificio nella nostra casa ad al-Shuja'iyya, Gaza City. Eravamo in 23 in quell'edificio e altri 22 vivevano nello stesso quartiere. La guerra ci ha separato tutti in ottobre. A novembre, l'intero edificio è stato distrutto. In tutti questi disastri, la mia anziana madre è rimasta sempre con me, stretta tra le mie braccia, come era stato per tutta la mia vita.  
 
Il nostro quarto sfollamento è stato a Rafah, dove c’erano altri 1,7 milioni di Palestinesi. Mia madre, io, mio figlio Qais di un anno e mia moglie Timaa ci siamo sistemati in una casa abbandonata a Rafah insieme alla famiglia di quattro persone di mio suocero. Il resto della mia famiglia allargata, i miei fratelli e nipoti – tutti quelli che mia madre aveva sempre visto ogni giorno per tutta la vita – erano sparpagliati per tutta Gaza. 
 
A febbraio, due mesi dopo il nostro arrivo a Rafah, mia madre si ammalò. Per un colpo di fortuna e di tenacia, sono riuscito a farla visitare da un medico in mezzo ai bombardamenti, l'invasione di terra e con gli ospedali intasati. Il medico le ha prescritto farmaci che non si trovavano in tutta Rafah. Mentre la trasportavo tra ospedali e centri medici, nessuno dei quali era attrezzato per accoglierla come paziente, le sue condizioni continuavano a deteriorarsi. Mi hanno dato alcuni farmaci disponibili, ma niente funzionava. Alla fine, ha smesso di dormire la notte. Poi non è più stata in grado di camminare da sola. 
 
Ho chiamato mio fratello Osama per chiedere aiuto. È venuto immediatamente da Khan Younis. 
 
L'abbiamo portata all'Ospedale Europeo, proprio al confine tra Khan Younis e Rafah. Era l'ospedale più vicino e l'unico grande ospedale funzionante nel sud. Quando i medici l’hanno visitata, ne hanno subito ordinato il ricovero. 
 
In una situazione unica a Gaza, e inimmaginabile per altre persone, è stato a causa del peggioramento delle sue condizioni di salute e del suo ricovero all'ospedale europeo che è riuscita finalmente a ricongiungersi con i miei nipoti - i suoi nipoti - che non vedeva da mesi, e ciò in quanto adesso noi eravamo a Rafah e loro avevano trovato rifugio nei pressi dell’ospedale. 
 
Quando arrivarono in ospedale, i miei familiari la videro per la prima volta dallo scoppio della guerra. Corsero da lei e l'abbracciarono.
 
Nonostante tutto, è stato un momento gioioso. A quel tempo, non sapeva che mio fratello maggiore era rimasto ferito nel bombardamento della sua casa, e che lui e tutta la sua famiglia erano rimasti intrappolati sotto le macerie per un'intera notte, prima che venissero salvati. Non sapeva che suo fratello, mio zio, era stato ucciso, e che la nostra casa di famiglia era stata distrutta. Erano notizie che dovevo nasconderle per paura degli effetti che avrebbero potuto provocare. Per mesi ho temuto che tutte le sue paure, tutti i momenti terrificanti che aveva vissuto, lo sfollamento, il terrore costante delle bombe: tutto ciò sarebbe stato troppo per il suo cuore stanco. 
 
E quel giorno all'Ospedale Europeo, penso di aver avuto ragione. Quando qualcuno le parlò dell'infortunio di mio fratello, la sua tristezza fu inconsolabile. 
 
Alla fine di quella giornata in ospedale, sono stato costretto ad una scelta insopportabile: restare in ospedale e lasciare mia moglie e mio figlio a Rafah, oppure raggiungerli e abbandonare mia madre a Khan Younis. Ho cercato di trovare una soluzione, lasciando mia madre con mio fratello Osama. Ogni mattina, per le settimane successive, lasciavo la mia famiglia a Rafah e, prima di sera, lasciavo l'altra mia famiglia all'ospedale di Khan Younis e tornavo dalla mia famiglia a Rafah. 
 
Per un mese ho vissuto quell'agonia, salutando ogni volta mio figlio come se fosse l'ultima volta. E ogni notte vivevo la stessa agonia quando salutavo mia madre. Sarei sopravvissuto alla notte e l'avrei rivista l’indomani?
 
Col passare dei giorni, l'ospedale non era più un ospedale. Era stato invaso da famiglie sfollate che avevano preso possesso di tutte le stanze e dei letti dei pazienti non occupati. Anche i corridoi erano pieni di gente, che dormiva su coperte e qualunque cosa riuscisse a trovare. Non era un ambiente sano per nessuno, tanto meno per i pazienti. I pavimenti erano sporchi e i bambini che avevano trascorso mesi nei corridoi dell’ospedale senza nulla con cui giocare ora costruivano giocattoli con i rifiuti sanitari e correvano a piedi nudi nell’ospedale e nei suoi giardini. Mia madre non poteva vedere niente di quanto accadeva, ma sentiva il trambusto, il rumore delle bombe che piovevano in lontananza, il frastuono della folla e le grida e le urla dei feriti intorno a lei. 
 
Un gruppo di medici è riuscito a somministrarle una quantità minima di farmaci e ho iniziato a pensare che fosse stato un errore trasferirla in ospedale. Ma pensavo anche che sarebbe stato peggio se fosse morta a casa, indifesa e senza cure mediche. Ha bisogno di cure, mi sono detto. Questa è l'unica opzione che abbiamo. 
 
Tre settimane dopo, i suoi reni iniziarono a cedere. I medici hanno detto che avrebbero fatto del loro meglio per evitare di arrivare al punto di aver bisogno della dialisi, “perché non c’è alcuna possibilità che possa resistere alla dialisi renale”, mi ha detto un medico. Il suo corpo era troppo debole per sopportare il processo. Era la stessa cosa che ci aveva risposto un medico molti anni fa, quando chiedevamo che fosse sottoposta a un trattamento che le salvasse la vista. 
 
Nel corso dei primi due mesi di trattamento non ha mostrato miglioramenti, ma nemmeno peggioramenti. Io cominciavo a rendermi conto che non poteva più restare in ospedale, perché le sue condizioni psicologiche influivano negativamente sulla sua salute fisica. Le ho detto decine di volte che saremmo dovuti tornare a Rafah, nella casa dove si trovava la nostra famiglia, ma lei non voleva.  
 
“Finché mi cureranno, rimarrò. Forse guarirò e potrò camminare di nuovo, sono molto malata e stanca”, ha detto quando ho insistito perché tornassimo a Rafah. "Non ti perdonerò se mi porti via prima che sia concluso il trattamento."
 
E così è rimasta lì. 
 
E io ho continuato ad andare avanti e indietro tra l'Ospedale Europeo e la mia famiglia a Rafah. Non avevo considerato il fatto che l'esercito genocida stava bombardando la strada di Salah al-Din e stava lentamente invadendo Khan Younis. 
 
Era mia madre. Non potevo lasciarla, nemmeno per un solo giorno. Lei è l'unica persona che mi ama più di se stessa. Nell'Islam, crediamo che le nostre madri siano le nostre chiavi per il paradiso e che il paradiso si trovi ai loro piedi. So che questo è vero. Mia madre era essenziale perché le mie preghiere fossero esaudite, il punto di contatto tra me e Dio. Lei è stata e sarà sempre la fattrice di ogni mia fortuna nella vita.
 
E anche se era mia madre, a volte la sentivo come fosse una figlia piccola. Sapevo che stava invecchiando e peggiorando, quindi volevo regalarle i momenti migliori possibili, anche in questa orribile guerra genocida.
 
Quindi non ho perso nessuna occasione di vederla, nemmeno un giorno, tranne uno. È stata una giornata terribile quella in cui ho dovuto stare in fila per ore davanti a un bancomat. C’erano solo tre bancomat a Rafah, e praticamente nessun contante per 1,7 milioni di persone. 
 
Quello è stato l'unico giorno in cui non ho visto mia madre, non solo durante il mese che ha trascorso in ospedale, non solo durante la guerra, ma durante tutta la mia vita a Gaza. Mi è mancata quel giorno.
 
Il giorno dopo entrò in coma. 
 
Oltre ai problemi ai reni, ha subito un ictus, il secondo in pochi anni. Aveva bisogno di essere intubata e che le venisse somministrata una nutrizione speciale attraverso un sondino che l'ospedale non aveva. Il medico ha scritto la prescrizione per l'integratore - Guarantee Plus - e mi ha chiesto di andare a cercarlo. Speravo che la mia ricerca tra le farmacie di Rafah non mi lasciasse a mani vuote. Sono rimasto deluso. 
 
Quando mi resi conto che non l’avrei mai trovato, tornai dal medico frustrato e gli chiesi come fosse possibile che un ospedale così grande non riuscisse a garantire la nutrizione ai suoi pazienti e come si aspettava che fossi io a trovarla. Il dottore capì la mia rabbia. Sapeva cosa stavo perdendo e sapeva che non era giusto che andasse così.  
 
Giorno dopo giorno, senza cibo o cure adeguate, il suo corpo ha smesso di rispondere ai farmaci. I medici iniziarono a dire che non potevano fare più nulla. Ha trascorso 10 giorni in coma, respirando, aprendo gli occhi, a volte senza rispondere ad alcuna sollecitazione. Ma anche se non reagiva, il suo corpo tremava allo scoppio di ogni bomba, ad ogni urlo dei ricoverati. La paura che l’aveva portata lì produceva ancora i suoi effetti.  
 
È stato un saluto durato 10 giorni. Ogni giorno, prendevo ogni momento per tenerla tra le mie braccia. Volevo sentire il suo viso caldo accanto al mio, prima che facesse freddo. Imprimevo il suo sorriso nella mia mente e la sensazione dei suoi capelli grigi tra le mie dita. Rivivevo ogni giorno della mia intera vita, mentre le tenevo le mani e giacevo accanto a lei nel suo letto d'ospedale.  
 
So che la morte incombe su tutti noi. Non sappiamo come e quando, ma a volte possiamo vederne i segnali. Ho assistito alla morte di mio padre due anni fa, ma speravo che avrei passato più tempo con mia madre. Ogni giorno però in quell’ospedale la speranza svaniva sempre di più. Quando ho iniziato a perdere la speranza che sopravvivesse, ho cominciato almeno a sperare di poterla seppellire accanto a mio padre nel cimitero di Gaza. Ma sapevo che era ancora più improbabile di quella della completa guarigione. 
 
Mia madre, la mia bella, dolce amata madre, colei che mi fa credere che le buone azioni torneranno sempre da me in forme diverse e più generose, avrei desiderato che non morisse mai. Ma in questi giorni a Gaza i desideri raramente si avverano. 
 
Alle 2 del mattino del 4 marzo mio nipote mi ha chiamato da Khan Younis. Dormivo a Rafah.
 
"Le mie condoglianze", ha detto. Ho chiesto: "per chi?" Mi ha detto che era morta. Non potevo crederci. Come poteva essere morta senza che io le tenessi la mano? 
 
"Come?" ho chiesto. Stavo cercando di dirgli che ero stato lì tutto il giorno. Continuavo a ripetere: "Non parli sul serio, vero?"
 
Poi mi ha chiamato mio fratello Osama. Ha confermato la sua morte e ha cercato di consolarmi dicendo che oramai si trovava in un posto migliore. 
 
Oh, mamma, ho fatto del mio meglio. Ho provato con tutte le mie forze a portarti fuori da Gaza, a portarti in qualsiasi ospedale in Egitto, ma non ci sono riuscito. Ho provato a procurarti le medicine e gli integratori di cui avevi bisogno, ma non ci sono riuscito. Oh mamma, anche morire in una tomba decente è impossibile. I cimiteri sono pieni e ora la gente seppellisce i propri cari in cimiteri temporanei vicino all'ospedale. Alcune persone seppelliscono i loro cari negli spartitraffico tra le autostrade o ai bordi delle strade. Sarà così anche per noi? Dovrò metterti in un sacco di plastica e seppellirti sul ciglio della strada, in una tomba improvvisata costruita con pietre e ricoperta di cemento? 
 
I miei pensieri mi torturano per tutta la notte.
 
Tutti intorno a me dormono. Sono le tre del mattino e non posso spostarmi da Rafah a Khan Younis. Non è sicuro. Non troverò nessuno che mi accompagni, ed è troppo lontano e pericoloso per andarci.
 
Mentre il sole comincia lentamente a entrare dalla finestra, comincio a realizzare di aver perso mia madre. Mi sdraio lentamente sul materasso, coprendomi la testa con la coperta, e non riesco a trattenere le lacrime. Ogni momento della mia vita con mia madre mi attraversa la mente.
 
Ricordo quanto mia madre abbia lavorato duramente tutta la sua vita per mantenere la sua grande famiglia e garantirci una bella vita. Ricordo ogni momento da bambino in cui mi sdraiavo accanto alla sua testa sul cuscino e lei mi abbracciava. Ricordo quell'anno in cui feci del mio meglio per insegnarle a scrivere il suo nome. Non ha mai avuto la possibilità di ricevere un'istruzione, ma mi ha insegnato ad essere umano. Mi ha insegnato come avere misericordia nel mio cuore e come perdonare. E mi ha insegnato come essere un bravo figlio.
 
L'ultima settimana della sua vita, quando non rispondeva a nulla intorno a lei, le parlavo come al solito e le dicevo: "Se stai ascoltando, per favore muovi semplicemente il dito". E lo ha fatto.
 
Quindi le ho detto tutto quello che volevo che sapesse. Le ho detto che pregavo affinché sopravvivesse, anche se avessi dovuto trascorrere tutta la mia vita a servirla e a prendermi cura di lei. Le ho detto che ero fortunato ad essere suo figlio e quanto l'amavo. Le ho detto che avevo registrato il suo nome in una lista per andare in Egitto e che stavamo aspettando il nostro turno.
 
Oggi mi trovo in Egitto con mia moglie e mio figlio. Pensavo che mia madre sarebbe stata con noi. Non avrei mai immaginato che avrebbe scelto una destinazione diversa. 
 
Riposa in pace, mia amata. Sono così dolente di non averti potuto salvare.
 
 
AMIRA HAJJAJ, 72 ANNI, CON SUO NIPOTE QAIS AD AL-SHUJA'IYYA, 2022. (FOTO: TAREQ HAJJAJ)
 
 
 
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(*) Tareq S. Hajjaj è il corrispondente di Mondoweiss da Gaza e membro dell'Unione degli scrittori palestinesi. Seguitelo su Twitter all'indirizzo  @Tareqshajjaj .
 
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