Il declino USA in prospettiva - parte 1°
- Dettagli
- Visite: 4403
Zcommunications, 14 febbraio 2012 (trad. Ossin)
Il declino Usa in prospettiva – Parte 1°
Noam Chomsky
Gli anniversari importanti sono celebrati con solennità – è il caso per esempio dell’attacco giapponese alla base USA di Pearl Harbor. Altri vengono ignorati, e noi possiamo spesso trarne delle lezioni che ci permettono di sapere ciò che ci attende. Oggi precisamente.
Attualmente non commemoriamo il cinquantenario della decisione presa dal presidente John F. Kennedy di scatenare l’offensiva più distruttiva e più sanguinaria del dopo-guerra: l’invasione del Vietnam del Sud, poi di tutta l’Indocina, che ha provocato milioni di morti, la devastazione di quattro paesi, con conseguenze fino ai giorni nostri, dovute allo spargimento nelle campagne dei prodotti chimici più cancerogeni allora conosciuti, con l’obiettivo di distruggere nascondigli e alimenti.
Il Vietnam del Sud era il bersaglio principale. L’aggressione si è più tardi estesa al Nord, poi alla lontana società contadina del Laos, poi alla Cambogia rurale, che è stata bombardata in misura pari a tutte le operazioni alleate durante la guerra del Pacifico, bombardamenti di Hiroshima e Nagasaki inclusi. Sono stati precisamente eseguiti gli ordini di Henry Kissinger - “tutto quello che vola e tutto quello che si muove”, un appello aperto al genocidio, inabituale nella storia. Oggi non ci si ricorda affatto di tutto questo. E’ quasi del tutto ignorato oltre il ristretto cerchio dei militanti.
Quando l’invasione è cominciata cinquanta anni fa, ci si preoccupò assai poco del fatto che la sua giustificazione fosse stata estremamente evasiva, poco più che l’appassionata dichiarazione del presidente che “nel mondo intero ci contrapponiamo ad una cospirazione unilaterale e impietosa, che ricorre soprattutto a mezzi segreti per allargare la sua sfera di influenza” e che se questa cospirazione avesse avuto successo nel Laos e in Vietnam, “le si sarebbero spalancate tutte le porte”.
Peraltro si allarmava per il futuro: “Le società compiacenti e molli potrebbero finire tra le macerie della storia e solo le società forti potranno sopravvivere”; facendo riferimento al fallimento dell’aggressione e del terrorismo USA per spazzare via l’indipendenza cubana.
Quando le proteste cominciarono a crescere, sei anni più tardi, Bernard Fall, storico militare specialista del Vietnam, certamente non una colomba, avvertiva che “il Vietnam come entità culturale e storica… è minacciato di estinzione…(quando) le sue campagne muoiono letteralmente sotto i colpi della più grande macchina militare mai dispiegata su uno spazio di queste dimensioni”. Si riferiva al Vietnam del Sud.
Quando la guerra è terminata, otto orribili anni più tardi, i punti di vista dominanti si dividevano in due, quelli che descrivevano la guerra come una “nobile causa” che avrebbe potuto essere vinta con un po’ più di insistenza, e all’estremo opposto, i critici, quelli per i quali si era trattato di un “errore” che ci era costato assai caro. Nel 1977 il presidente Carter non ha suscitato commenti quando ha sostenuto che non avevamo alcun “debito” verso il Vietnam, perché la distruzione era stata reciproca.
Tutto questo costituisce una lezione per l’oggi, oltre al fatto che solo i deboli e i vinti devono rendere conto dei loro crimini. La prima lezione è che per comprendere quello che succede non dovremmo seguire solo gli avvenimenti più importanti del mondo reale, spesso nascosti dalla storia, ma dobbiamo prendere in considerazione anche le opinioni dei leader e dei commentatori autorizzati, anche se si colorano di considerazioni fantastiche. Un’altra è che, oltre alle invenzioni escogitate per spaventare e mobilitare il pubblico (e forse credute anche da qualcuno di quelli che sono caduti nella trappola della loro stessa retorica), c’è anche una pianificazione strategica, fondata su principi razionali e stabili sul lungo periodo, principi che sono elaborati da istituzioni molto solide. Ciò si verifica anche nel caso del Vietnam. Ci tornerò. Qui intendo giusto segnalare che i fattori durevoli nelle azioni dello Stato sono di solito molto ben nascosti.
La guerra in Iraq è un caso istruttivo. E’ stata venduta ad un pubblico terrorizzato con gli abituali argomenti dell’autodifesa di fronte ad una terribile minaccia per la nostra sopravvivenza. “L’unica domanda”, dichiararono George W. Bush e Tony Blair, era di sapere se Saddam volesse interrompere il suo programma di sviluppo di armi di distruzione di massa. Quando questa unica domanda ha ottenuto una risposta non gradita, il discorso del governo si è trasformato senza sforzi nel nostro “amore per la democrazia”, e le persone educate hanno docilmente seguito il nuovo corso. Tutto ciò è molto di routine.
Più tardi, quando la dimensione del fallimento statunitense in Iraq è diventato difficile da nascondere, il governo ha lentamente riconosciuto ciò che era chiaro fin dall’inizio. Nel 2007 e 2008 il governo ha annunciato ufficialmente che l’accordo finale doveva garantire la permanenza di basi militari USA e il diritto ad eventuali azioni militari. Questo accordo finale doveva inoltre privilegiare gli investitori USA nel ricco sistema energetico – richieste che sono poi state abbandonate di fronte alla resistenza irachena. Tutto questo alle spalle della popolazione.
Valutazione del declino USA
Facendo tesoro di tutte queste lezioni, è utile guardare ciò che oggi viene messo più in evidenza nei principali periodici politici. Limitiamoci a Foreign Affairs, il più prestigioso dei giornali dell’establishment. L’enorme titolo in grassetto sulla copertina del numero di dicembre 2011 era: “Is America Over?” (Gli Stati Uniti sono finiti?).
Gli autori raccomandano un “ripiegamento” delle “missioni umanitarie” all’estero, che consumano la ricchezza del paese. Ciò potrebbe interrompere il declino USA, che costituisce un tema maggiore nel discorso degli affari internazionali, generalmente accompagnato dal corollario secondo cui il potere si sposta verso est, verso la Cina e (forse) l’India.
I principali articoli concernono il conflitto israelo-palestinese. Il primo è firmato da due importanti dirigenti ed ha per titolo “The Problem is Palestinian Rejection” (Il problema è il rifiuto palestinese): il conflitto non si risolve, perché i Palestinesi rifiutano di riconoscere Israele come Stato Ebraico. I Palestinesi si attengono alle abituali pratiche diplomatiche: vengono riconosciuti gli Stati, non gli strati privilegiati nel loro seno. Queste esigenza non è altro che l’ultimo trucco per impedire un accordo politico che sconvolgerebbe gli obiettivi espansionistici di Israele.
La posizione opposta, difesa da un professore statunitense, è titolata “The Problem is the Occupation” (Il problema è l’occupazione). Il sottotitolo è il seguente: “How the Occupation is Destroying the Nation” (Come l’occupazione distrugge il paese). Quale paese? Ovviamente Israele. I due articoli compaiono sotto il titolo generale: “Israele under Siege” (Israele assediata).
Il numero di gennaio 2012 pubblica un nuovo appello a bombardare l’Iran, adesso, prima che sia troppo tardi. Segnalando “i pericoli della dissuasione”, l’autore suggerisce che “gli scettici sulla questione dell’azione militare non si rendono conto che un Iran che disponesse dell’arma nucleare rappresenterebbe un vero pericolo per gli interessi USA in Medio Oriente e altrove. E le loro cupe previsioni ammettono che il rimedio sarebbe peggiore del male – vale a dire che le conseguenze di un attacco statunitense contro l’Iran sarebbero almeno altrettanto nefaste del fatto che l’Iran raggiungesse i suoi obiettivi nucleari. Ma questo presupposto è falso. La verità è che un attacco militare diretto a distruggere il programma nucleare iraniano, gestito prudentemente, potrebbe risparmiare al mondo e alla regione una minaccia molto reale e garantire a lungo termine la sicurezza nazionale degli Stati Uniti”.
Altri evocano i costi troppo elevati, e qualcuno giunge perfino a segnalare che un attacco violerebbe il diritto internazionale – i moderati che minacciano regolarmente di ricorrere alla violenza violano anch’essi il diritto internazionale e violano la Carta delle Nazioni Unite.
Vediamo queste inquietudini
Il declino degli USA è reale, ma il sentimento apocalittico è dovuto al fatto che la classe dominante ritiene che da quando essa non ha più il controllo totale, vi sia il disastro totale. Nonostante queste pietose lamentazioni, gli Stati Uniti conservano il loro potere dominante nel mondo e in assoluto non vi sono concorrenti in vista, non solo sul piano militare, ambito nel quale gli USA hanno una supremazia totale.
La Cina e l’India hanno avuto delle rapide crescite (anche se molto diseguali), ma restano paesi assai poveri, che mantengono enormi problemi interni che l’Occidente non ha. La Cina è il più grande centro manifatturiero del mondo, ma in gran parte è solo un’officina di assemblaggio per le potenze industriali asiatiche e le multinazionali occidentali. Si tratta di una realtà che certamente potrà modificarsi a lungo termine. La manifattura offre generalmente le basi per una futura innovazione, spesso avanzata, come già accade in alcuni casi in Cina. Un esempio che ha impressionato gli specialisti occidentali è stata la conquista da parte della Cina del controllo del mercato dei pannelli solari, non in ragione di una mano d’opera a buon mercato, ma grazie alla pianificazione e, sempre più, alla innovazione.
Ma la Cina ha seri problemi. La principale rivista scientifica USA, Science, ricorda il problema demografico. Lo studio dimostra che la mortalità infantile si è fortemente ridotta durante il periodo maoista, “soprattutto come conseguenza dello sviluppo economico e dei progressi nell’educazione e nei servizi sanitari, soprattutto l’impegno per l’igiene pubblica che ha fortemente ridotto la mortalità dovuta a malattie infettive”. Questo progresso si è interrotto quando sono cominciate le riforme capitaliste trenta anni fa, e il tasso di mortalità è di nuovo cresciuto.
Peraltro la recente crescita economica della Cina era fortemente basata sul “bonus demografico”, una enorme porzione della popolazione in età di lavoro. “Ma la fine del ciclo di questo bonus è prossima”, con “un profondo impatto sullo sviluppo”; “L’eccedenza di mano d’opera a buon mercato, uno dei principali fattori del miracolo economico cinese non esisterà più”.
La demografia non è che uno dei numerosi gravi problemi della Cina. Per l’India i problemi sono ancora maggiori.
Alcune voci importanti non concordano affatto sulla prospettiva di declino USA. Il Financial Times di Londra, il più serio dei media internazionali, ha recentemente dedicato una pagina intera alle ottimistiche previsioni per l’estrazione del gas fossile negli Stati Uniti. Questo gas, estratto con le nuove tecnologie, potrebbe rendere gli Stati Uniti indipendenti in termini energetici e dunque permettere loro di mantenere la loro egemonia globale per un secolo. Non ci dice niente del mondo che gli Stati Uniti dominerebbero, non a causa di assenza di prove.
Più o meno contemporaneamente, l’Agenzia internazionale dell’energia (AIE) segnalava che, a causa dell’aumento accresciuto delle emissioni di carbonio proveniente dal gas fossile, il limite di sicurezza sarà raggiunto nel 2017 se il mondo continua allo stesso ritmo. “La porta si richiude”, dichiara il responsabile economia dell’AIE e senza indugio “la finestra sarà per sempre chiusa”.
Poco prima il dipartimento energia degli Stati Uniti riportava che le più recenti cifre delle emissioni di diossido di carbonio, “con nuovi record” hanno raggiunto un livello ancora più elevato del peggiore degli scenari presi in considerazione dal Gruppo di esperti intergovernativi sull’evoluzione del clima (GIEC). Per molti scienziati ciò non costituisce una sorpresa, è il caso per esempio del programma di studio sul cambiamento climatico del Massachusetts Institute of Technology (MIT), che per anni ha affermato che le previsioni del GIEC erano troppo conservatrici.
Queste critiche alle previsioni del GIEC non hanno per niente attirato l’attenzione del pubblico, al contrario di qualche teoria negazionista sostenuta da alcune grandi imprese, attraverso grandi campagne di propaganda che hanno collocato i cittadini degli Stati Uniti in una singolare posizione nel mondo, di negazione delle minacce esistenti. Il business si traduce direttamente in potere politico. Il negazionismo fa parte del catechismo che deve essere recitato dai candidati repubblicani nel teatro della campagna elettorale attualmente in corso; e nel Congresso sono abbastanza potenti per far fallire tutti i tentativi di avviare indagini sul riscaldamento globale, per non parlare del minimo tentativo di assumere una qualsiasi misura sul punto.
Insomma, il declino USA può forse essere bloccato se abbandoniamo la speranza di una sopravvivenza decente – prospettive ahimè molto reali alla luce dei rapporti di forza nel mondo.
“La perdita” della Cina e del Vietnam
Se si mettono da parte questi fatti spiacevoli, un’analisi più precisa sul declino degli USA mostra che la Cina gioca in effetti un ruolo importante, e ciò da sessant’anni. Il declino che oggi provoca tanta inquietudine non è un fenomeno recente. Risale alla fine della Seconda Guerra mondiale, quando gli USA possedevano la metà della ricchezza mondiale, disponevano di una sicurezza incomparabile su scala planetaria. I pianificatori erano certamente al corrente dell’enorme disparità di potere e hanno fatto di tutto per farla perdurare.
La considerazione di base è stata enunciata con una franchezza ammirevole in un importante state paper (documento ufficiale di Stato) del 1948 (PPS 23). L’autore era uno degli architetti del “nuovo ordine mondiale” dell’epoca, il capo del gruppo di pianificatori del dipartimento di Stato, universitario e uomo di Stato rispettato, George Kennan, una colomba moderata tra i pianificatori. Egli osservava che il primo obiettivo della politica era di conservare “una posizione di disparità” tra la nostra enorme ricchezza e la povertà degli altri. Per raggiungere questo obiettivo, segnalava, “dobbiamo smetterla di parlare di obiettivi vaghi e irreali, come i diritti umani, la crescita del livello di vita e la democratizzazione” e dobbiamo attenersi a “semplici considerazioni di potenza”, non “riempite di slogan idealisti” evocanti “l’altruismo e il benessere del mondo”.
Kennan si riferiva specificamente all’Asia, ma l’osservazione era di portata generale, con qualche specifica eccezione per i partecipanti al sistema globale diretto dagli Stati Uniti. Era ben chiaro che gli “slogan idealisti” dovevano essere utilizzati quando si parlava degli altri, la classe intellettuale doveva promuoverli lì.
I piani che Kennan ha contribuito a formulare ed a realizzare ritenevano evidente che gli Stati Uniti controllassero l’emisfero occidentale, l’Estremo oriente, l’ex impero britannico (incluse le incomparabili risorse energetiche del Medio oriente), la più gran parte possibile dell’Eurasia, soprattutto i suoi poli industriali e commerciali. Non erano obiettivi irrealistici, dati rapporti di forza. Ma il declino cominciava già.
Nel 1949 la Cina ha dichiarato la propria indipendenza, un evento conosciuto nel discorso occidentale come “la perdita della Cina” – negli Stati Uniti vi sono state amare recriminazioni e querelle a proposito delle responsabilità per questa perdita. La terminologia è rivelatrice. Si può perdere ciò che si possiede. Il presupposto tacito era che gli Stati Uniti possedessero la Cina, di diritto, come la maggior parte degli altri paesi del mondo, assolutamente come avevano ritenuto i pianificatori del dopoguerra.
La “perdita della Cina” fu il primo passo verso il “declino degli Stati Uniti”. Ha avuto ulteriori conseguenze politiche. Una delle quali fu la decisione di sostenere la Francia per riconquistare la sua ex colonia indocinese, in modo che non fosse, anch’essa “perduta”.
La stessa Indocina non era importantissima, nonostante le affermazioni di Eisenhower, o di altri, che parlavano delle sue ricche risorse. La vera ragione era la “teoria del domino”, di cui spesso ci si prende gioco quando i pezzi non cadono, ma che resta un principio politico di base perché è molto razionale. Per stare alla versione di Henry Kissinger, una regione che si sottrae al controllo può diventare un “virus” che “semina il contagio” tra gli altri popoli.
Nel caso del Vietnam, l’inquietudine era che il virus dello sviluppo indipendente potesse infettare l’Indonesia, che detiene realmente delle ricche risorse. E questo avrebbe potuto indurre il Giappone – il super domino come lo chiamava lo storico dell’Asia John Dower – ad accettare un’Asia indipendente nella misura in cui sarebbe il suo centro tecnologico e industriale in un sistema che sfuggirebbe al controllo degli USA. Questo avrebbe veramente significato che gli Stati Uniti avrebbero perso la guerra del Pacifico, che aveva appunto come obiettivo quello di stabilire in nuovo ordine in Asia.
Il modo di gestire un simile problema è chiaro: distruggere il virus e “inoculare” quelli che conviene si propaghino. Nel caso del Vietnam, la scelta razionale era di distruggere ogni speranza di sviluppo indipendente riuscito e imporre delle dittature brutali nelle regioni vicine. Questi obiettivi sono stati raggiunti, benché la storia, giocando talvolta degli scherzi, qualcosa di simile a ciò che s’era temuto ha in seguito fatto sì che si sviluppasse in Asia orientale, lasciando gli Stati Uniti costernati.
La più importante vittoria delle guerre di Indocina vi è stata nel 1965 con un colpo di stato sostenuto dagli Stati Uniti, realizzato dal generale Suharto, che ha provocato crimini di massa paragonati dalla CIA a quelli di Hitler, di Stalin e di Mao. Il “massacro stupefacente”, come lo ha definito il New York Times, venne raccontato con trasparenza dai media dominanti, con una non dissimulata euforia.
Si trattava di un “raggio di luce in Asia”, come scriveva nel New York Times il famoso commentatore liberal James Reston. Il colpo di stato aveva posto fine alla minaccia democratica, distruggendo il partito delle masse povere; si istallò allora una delle peggiori dittature del mondo in termini di diritti umani che ha consegnato le ricchezze del paese agli investitori occidentali. Dopo molti altri orrori, come l’invasione quasi genocida di Timor orientale, non si attribuirà alcuna importanza al fatto che Suharto venne accolto dal governo Clinton nel 1995 come un “ragazzo cui vogliamo bene”.
Anni dopo i grandi avvenimenti del 1965, Mc George Bundy, consigliere di Kennedy e di Johnson, ritenne che sarebbe stato giudizioso fermare in quel momento la guerra del Vietnam, essendo stato quasi completamente distrutto il “virus” e il primo pezzo del domino solidamente mantenuto, rafforzato dalle dittature sostenute dagli Stati Uniti in tutta la regione.
Procedure dello stesso tipo sono state impiegate in modo routinario altrove. Kissinger ha fatto esplicito riferimento alla minaccia rappresentata dalla democrazia socialista del Cile. Questa minaccia è stata eliminata in una data anch’essa caduta nell’oblio, che i Latino Americani chiamano “il primo 11 settembre”, e che supera di gran lunga, in termini di violenza e distruzione, l’11 settembre commemorato in Occidente. Una terribile dittatura è stata imposta al Cile, come parte dell’ondata repressiva che ha investito tutta l’America Latina e che è giunta fino in America Centrale con Reagan.
Altri virus hanno provocato molte preoccupazioni in altri luoghi, come in Medio oriente, dove la minaccia del nazionalismo laico inquietava i pianificatori inglesi e statunitensi, cosa che li ha indotti a sostenere il fondamentalismo islamico per contrastarlo.
La concentrazione della ricchezza e il declino USA
Nonostante queste vittorie, il declino degli USA è proseguito. Intorno al 1970, la quota degli Stati Uniti nella ricchezza mondiale era sceso al 25%, pressappoco la stessa percentuale di oggi, ancora enorme ma molto più bassa di quella immediatamente successiva alla Seconda Guerra mondiale. Il mondo industrializzato era allora tripolare: l’America del Nord, col pilastro statunitense, l’Europa col pilastro tedesco e l’Asia orientale, già la regione industrialmente più dinamica, allora organizzata intorno al Giappone, mentre oggi comprende le ex colonie giapponesi, Taiwan, la Corea del Sud e, ultima arrivata, la Cina.
Più o meno in questa epoca, il declino USA è entrato in una nuova fase: il declino deliberatamente auto-inflitto. A partire dagli anni 1970 si assiste ad un significativo cambiamento dell’economia statunitense, quando i pianificatori, al servizio dello Stato o dei privati, hanno scelto l’opzione della finanziarizzazione e della produzione delocalizzata. Queste decisioni hanno provocato la nascita di un circolo vizioso nel quale la ricchezza era molto concentrata (specialmente tra lo 0,1 più ricco della popolazione), facilitando la concentrazione del potere e, con l’aiuto di riforme legislative, permettendo di condurre il ciclo al suo termine: le politiche fiscali, la deregulation, i mutamenti nelle regole di funzionamento delle grandi imprese, il tutto offrendo degli enormi guadagni alle élite.
Tuttavia per la maggioranza le entrate reali sono globalmente restate uguali, e la gente non ha potuto risolvere che lavorando di più (ben più che in Europa), un debito insostenibile, e bolle finanziarie a ripetizione fin dagli anni di Reagan, creando così una ricchezza di carta che è inevitabilmente sfumata quando la bolla è scoppiata (e i responsabili sono stati risarciti dai contribuenti). Nello stesso tempo il sistema politico ne è stato ancora più distorto perché i due partiti sono ancora di più subalterni alle grandi imprese a causa dei costi sempre più elevati delle elezioni – per i repubblicani ciò raggiunge un livello comico, per i democratici (oggi si tratta di “ex repubblicani moderati”) solo un po’ diverso.
Un recente studio pubblicato dall’Economic Policy Institute, che ha costituito per anni il principale punto di riferimento su queste questioni, è stato intitolato
“Faillure by Design” (“Il Progetto di fallimento” o “Fallimento deliberato” o “La Concezione di un fallimento”). L’espressione “by Design” è ben scelta. Altre scelte erano certamente possibili. E come segnalato dallo studio, il “fallimento” ha una dimensione di classe. Non c’è stato fallimento per gli ideatori. Lontano sia. Queste politiche sono state piuttosto un fallimento per la grande maggioranza – i 99% dello slogan del movimento Occupy - e per il paese, che ha proseguito il suo declino e che proseguirà il suo declino con queste politiche.
Uno dei fattori è la delocalizzazione della produzione. Come l’esempio dei pannelli solari di cui ho parlato più su dimostra, la capacità produttiva offre le condizioni e lo stimolo per l’innovazione e ciò porta a livelli superiori e più sofisticati nella produzione, nell’ideazione, nell’invenzione. Anche queste ultime sono delocalizzate, cosa che non costituisce un problema per i mandarini della finanza che, sempre di più, prendono anche le decisioni politiche, ma un problema serio per i lavoratori e per le classi medie, e un vero disastro per le più povere, la comunità nera degli Stati Uniti che non è mai sfuggita del tutto all’eredità della schiavitù e dei terribili fatti che ne sono seguiti, e i cui magri redditi sono quasi spariti dopo lo scoppio della bolla speculativa immobiliare nel 2008, dando avvio all’ultima crisi finanziaria, la peggiore fino ad oggi.
Titolo originale : American decline in perspective, part 1
http://www.zcommunications.org/losing-the-world-by-noam-chomsky
Il declino USA in prospettiva- parte 2°