La tragedia di Gaza alla luce della "primavera" araba
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La tragedia di Gaza alla luce della “primavera” araba
Ahmed Bensaada
Si tratta di un nuovo rito israeliano. Tra “l’Election day” e “l’Inauguration day”, date simbolo della democrazia statunitense, Israele si fa viva e prepara le sue elezioni, bombardando senza vergogna Gaza e i suoi abitanti. Come un cacciatore maldestro che spara all’impazzata contro tutto quello che si muove in una voliera col pretesto che un uccello lo ha malignamente beccato, lo stato ebraico stermina uomini, donne e bambini di Gaza, una Terra palestinese volontariamente trasformata in prigione a cielo aperto. E la cosa non le impedisce di gonfiarsi il petto e di vantarsi delle sue “gesta guerriere” sotto gli sguardi plaudenti dei paesi occidentali che mettono sullo stesso piano gli spari all’impazzata e le beccate
E però, tra l’operazione omicida israeliana “Piombo fuso” (fine 2008 – inizio 2009) e quella stranamente battezzata “Pilastro di difesa” che ha avuto luogo recentemente, nel mondo arabo vi è stata la famosa “primavera”. E dunque si pone una questione fondamentale: questo rivolgimento politico considerato da taluni come fondamentale, ha qualche effetto sulla sorte degli abitanti di Gaza in particolare e sulla causa palestinese in generale?
Facendo la lista dei protagonisti arabi o mussulmani che si sono accaparrati i primi posti della scena mediatica e che si sono attivati sulla ipotesi di una eventuale mediazione tra Hamas e Israele, diventa possibile ricavare alcuni elementi di risposta. Da questo punto di vista, la ressa all’ingresso del Cairo che si è registrata il 17 novembre scorso è assai eloquente.
Quel giorno il presidente egiziano Mohamed Morsi, il primo ministro turco Recep Tayyip Erdogan, l’emiro del Qatar Hamad ben Khalifa Al Thani e il capo di Hamas, Khaled Mechaal, si trovavano tutti contemporaneamente nella capitale egiziana. E questo “allineamento dei pianeti” non era affatto fortuito.
Erdogan e Morsi (Il Cairo 17 novembre 2012)
Hamad e Morsi (Il Cairo, 17 novembre 2012)
Mechaal e Morsi (Il Cairo, 17 novembre 2012)
L’Egitto di Morsi
Fin dalla sua elezione “post-primaverile”, Mohamed Morsi, presidente islamista “d’emergenza” dopo la dichiarazione di ineleggibilità di Khairat al Chater (eminenza grigia della confraternita dei Fratelli Mussulmani), sa perfettamente che la soluzione del problema di Gaza sarebbe per lui di importanza capitale sotto diversi punti di vista.
Primo, gli permetterebbe di guadagnarsi una credibilità nel dossier palestinese, credibilità messa a dura prova dalla ricorrente chiusura del passaggio di frontiera di Rafah, dalla distruzione dei tunnel di contrabbando tra i due paesi (cosa che ha provocato per la prima volta l’ira dei Palestinesi da che Morsi è al potere) e, soprattutto, dalla divulgazione delle lettere “affettuosissime” tra Morsi e il presidente israeliano Shimon Peres. Infatti questo scambio di lettere apparentemente aneddotico ha scioccato profondamente gli Egiziani che riservano a quella che chiamano “l’entità sionista” un odio viscerale. Effettivamente le espressioni come “mio caro e grande amico” e “suo amico fedele” (1), indirizzate da Morsi a Peres, sono sbalorditive, soprattutto se si pensa che sono state scritte da un membro dei Fratelli Mussulmani, confraternita che ha sempre predicato la lotta contro l’occupante sionista. La reazione della piazza egiziana è stata talmente viva che la presidenza ha in un primo momento sostenuto che si trattava di falsi (2) prima di doverne riconoscere l’autenticità spiegando che le espressioni utilizzate erano di tipo “protocollare” (sic) (3)
lettera affettuosa scritta da Morsi e indirizzata a Peres
Le amabilità tra i due presidenti sono continuate in quegli stessi giorni: il presidente Peres ha dichiarato ai media che salutava gli “sforzi” del presidente Morsi “per raggiungere un cessate il fuoco” nel conflitto di Gaza.
Caricatura di Carlos Lattuf sull'amicizia tra Morsi e Peres
E’ da notare che queste familiarità inter-presidenziali contrastano nettamente con il comportamento naturale di alcune personalità egiziane sorprese, nello stesso periodo, da una trasmissione del tipo “telecamera nascosta” che aveva fatto loro credere di essere intervistate da una emittente israeliana (5). Le loro reazioni sono state tutte epidermiche, nervose e violentissimamente anti-israeliane, cosa che ha irritato la stampa dello stato ebraico ed ha riempito la blogsfera di accuse di antisemitismo (6)
Programma della televisione egiziana intitolato “El Hokm baad El Moudawala”
Per ciò che concerne la distruzione, da parte dell’esercito israeliano, dei tunnel di contrabbando nella regione di frontiera tra Egitto e Gaza, essa è stata decisa dal governo Morsi in seguito agli attentati omicidi perpetrati il 5 agosto 2012 da un commando ritenuto dalle autorità composto da jihadisti (7). Tuttavia i Fratelli Mussulmani, di cui è membro Morsi, hanno accusato il Mossad di essere dietro questi attacchi, affermazione che è stata ripresa da Ismail Haniyeh, il capo del governo di Hamas a Gaza (8). Cosa assai plausibile, tenuto conto che la demolizione dei tunnel serve soprattutto alla sicurezza di Israele. La cosa più strana in tutto questo è la tempestività con cui è stata presa la decisione di distruggere questi passaggi sotterranei. Di qui a pensare che vi sia stata della connivenza, corre poco.
Tanto più che le autorità israeliane hanno curiosamente accettato la presenza di soldati egiziani nella zona C del Sinai, zona nella quale è abitualmente ammessa solo la polizia egiziana, mentre è totalmente vietata la presenza di militari egiziani secondo gli accordi di Camp David (9). Ricordiamo che questa zona è una striscia di terra della penisola del Sinai che si sviluppa lungo la frontiera israelo-egiziana e il golfo di Aqaba e si estende da Rafah a Charm el-Cheikh.
In secondo luogo, Morsi sa bene che qualche gesto ben orchestrato nel conflitto israelo-palestinese potrebbe ridurre questa immagine negativa di presidente “ruota di scorta” senza importanza e con scarso carisma (10). E’ ciò che spiega, per esempio, il richiamo dell’ambasciatore egiziano in Israele e la missione del suo primo ministro a Gaza fin dalle prime battute dell’aggressione a Gaza. Queste decisioni, presentate come “eroiche”, non spiegano però perché ci sia stato bisogno dei bombardamenti perché un alto funzionario egiziano fosse inviato nell’enclave palestinese. Infatti, tenuto conto della prossimità, dell’affinità ideologica tra Hamas e i Fratelli Mussulmani egiziani e dell’esultanza popolare degli abitanti di Gaza all’annuncio dell’elezione di Morsi alla suprema magistratura, ci si sarebbe aspettati che il presidente egiziano si fosse recato a Gaza subito dopo la sua elezione. Ma no: Morsi non è mai andato, mentre l’emiro del Qatar vi ha recentemente effettuato una visita ufficiale.
Nondimeno, dopo i dissapori di Hamas con la leadership siriana, il governo egiziano ha autorizzato l’organizzazione palestinese a trasferire la sua sede principale da Damasco al Cairo. Questi dissapori sono dovuti al riconoscimento da parte di Hamas della ribellione siriana, coalizione formata essenzialmente da combattenti islamisti. Nonostante la decisione egiziana di offrire una sede ad Hamas abbia fatto digrignare i denti a numerosi osservatori, essa è stata accolta favorevolmente dai Fratelli Mussulmani egiziani (11). Questi osservatori vi hanno visto un importante mutamento della politica egiziana che considerava l’OLP (Organizzazione per la liberazione della Palestina) come l’unico rappresentante legittimo del popolo Palestinese. Evidentemente non poteva essere altrimenti per la confraternita. E’ utile ricordare che la prima visita ufficiale del Primo Ministro di Hamas, Ismael Haniyeh, è stata ai Fratelli Mussulmani egiziani? E che aveva dichiarato che Hamas “era un movimento jihadista dei Fratelli Mussulmani con un volto palestinese”(12)?
E’ evidente che, nel contesto della “primavera araba”, questa decisione di ospitare Hamas al Cairo ha il senso anche di una volontà di isolamento di Bachar el-Assad da parte del presidente Morsi, oltre che del desiderio egiziano di influenzare la futura strategia di questo movimento islamista palestinese al potere a Gaza, di concerto con altri protagonisti influenti come il Qatar.
In terzo luogo, il Rais egiziano non ignora che l’ottenimento di un cessate il fuoco nel conflitto israelo-palestinese avrebbe anche come conseguenza di restituire un ruolo centrale all’Egitto nel dossier palestinese. Inoltre permetterebbe alla sua diplomazia nel mondo arabo di ridare lustro alla propria immagine, dopo essere stata molto messa nell’angolo in questi ultimi anni a profitto di quelle di alcune monarchie del Golfo. Così, oltre la questione di Gaza, la riunione tripartita Egitto-Qatar-Turchia aveva certamente un altro punto nella sua agenda: quello della Siria. Infatti due giorni dopo l’incontro cairota si apprendeva che la nuova coalizione della ribellione siriana, costituitasi a Doha, avrebbe avuto la sua sede al Cairo (13), laddove il defunto Consiglio Nazionale Siriano (CNS) aveva il suo quartiere generale a Istanbul. Quattro giorni dopo, il Qatar annunciava da parte sua la nomina di un ambasciatore della coalizione siriana, organizzazione costituita da gruppi ribelli disparati dei quali aveva, dietro pressione degli Stati Uniti, imposto la coalescenza (14).
Notiamo en passant la significativa assenza, in questa riunione cairota, dell’Arabia Saudita, principale protagonista della “primavera siriana”. Ed essa non è per niente fortuita se si osserva il diverso trattamento mediatico riservato all’aggressione israeliana di Gaza dall’emittente del Qatar Al Jazeera rispetto a quella saudita Al-Arabiya, ciò che traduce implicitamente le divergenze politiche tra i due paesi nel dossier di Gaza (15).
Nonostante avesse annunciato a più riprese la propria volontà di rivedere gli accordi di Camp David, Morsi ha cambiato opinione quando Israele ha opposto un rifiuto categorico a questo proposito (16). L’apparente successo di Morsi nella cessazione delle ostilità tra Hamas e Israele gli permetterà tuttavia di giustificare questo ripensamento, confermando anche l’idea della necessità per l’Egitto di essere “interlocutore” ufficiale e credibile dello stato ebraico e ciò grazie agli accordi firmati tra i due paesi. In questo campo, dunque, Morsi non è poi così diverso dal suo predecessore Mubarak, cacciato dall’ondata primaverile.
Ma questa assenza di audacia politica del presidente islamista non ha nulla cambiato nell’ardore di taluni militanti pro-democrazia che hanno presentato al Tribunale amministrativo del Cairo una richiesta di annullamento del trattato di Camp David, perché il loro paese potesse riconquistare una piena sovranità politica e militare nella penisola del Sinai. Il 30 ottobre scorso l’istanza è stata respinta a causa del difetto di giurisdizione del tribunale, in quanto le materie della politica internazionale della sovranità sono di competenza del presidente della repubblica (17).
Morsi si degnerà un giorno di rispettare questa promessa che era anche quella della confraternita di cui fa parte?
Nell’attuale contesto geopolitico, è lecito dubitarne.
Il Qatar e la “primaverizzazione” degli Arabi
Il 23 ottobre 2012, vale a dire esattamente tre settimane prima della selvaggia aggressione israeliana battezzata “pilastro di difesa”, l’emiro del Qatar ha effettuato una visita ufficiale a Gaza. Questa breve visita, definita “storica” da alcuni osservatori essendo la prima di un capo di Stato dal 2007, anno della presa (democratica) del potere a Gaza da parte di Hamas, non sarebbe mai stata possibile senza l’approvazione dell’Egitto e soprattutto di Israele. Con tutta evidenza questo viaggio dell’emiro è stato accompagnato da una generosa distribuzione di petro-dollari, ma appare chiaro che il suo obiettivo non era unicamente filantropico. Altrimenti come si spiegherebbe che la generosità del Qatar abbia avvantaggiato solo il governo islamista di Hamas e non tutta la popolazione palestinese? E perché l’emiro del Qatar non ha approfittato dell’occasione per andare in Cisgiordania e rendere visita all’Autorità nazionale palestinese?
cartelloni che annunciano la visita di Hamad a Gaza
D’altronde il Comitato esecutivo dell’Organizzazione per la liberazione della Palestina (OLP) non ha per niente apprezzato questa visita. “I paesi arabi non dovrebbero favorire la politica di consolidamento di una entità separatista nella striscia di Gaza, che fondamentalmente aiuta i disegni israeliani”, ha dichiarato (18).
Di fatto il comportamento del Qatar nei confronti della Palestina è perfettamente conforme alla volontà di onnipresenza di questo emirato nella “primaverizzazione” del mondo arabo, attività che si articola nell’indefettibile sostegno degli islamisti del mondo arabo e soprattutto dei Fratelli Mussulmani. Questa politica è visibile in Egitto, in Tunisia, in Libia, in Siria e attualmente a Gaza.
D’altra parte, giacché il Qatar ha relazioni privilegiate con gli Stati Uniti e numerosi paesi occidentali (relazioni che non ha mai cercato di nascondere, al contrario), è legittimo pensare che questa visita abbia una portata politica che inferirebbe altri interessi oltre quello della Palestina. In questo ordine di idee, Jean-Pierre Bejot si è posto la seguente domanda: “Gli Statunitensi che si compiacciono di far pensare di essere i manovratori dei Qatarioti hanno dato il loro via libera a questa visita? Questa visita mira ad isolare la Siria e l’Iran che erano, fino ad oggi, il principali partner di Hamas?” (19)
Rachid Barnat va ancora oltre: “A meno che il suo gioco (quella del Qatar) non rientri nella strategia degli Stati Uniti: 1- neutralizzare gli estremisti dell’interno, sottraendoli ad una probabile influenza iraniana sciita! Ed è ciò che sta facendo l’emiro del Qatar con Hamas della banda di Gaza che flirtava con il regime degli Ayatollah e sosteneva Bachar el-Assad, l’altro “amico” degli iraniani. E 2- permettere una ripresa del dialogo tra i Palestinesi e gli israeliani affinché Obama (…) possa realizzare il suo bel discorso programmatico di inizio mandato: farla finita con un problema che intossica le relazioni internazionali da più di 60 anni!” (20)
A tal proposito, alcune fonti bene informate hanno riportato una discussione estremamente interessante tra Hamad ben Khalifa Al Thani e Ismael Haniyeh, durante la visita dell’emiro a Gaza. Secondo queste fonti l’incontro sarebbe terminato con un manifesto disaccordo in quanto l’aiuto qatariota sarebbe subordinato a precise condizioni: a) la rottura dell’alleanza con l’Iran, b) l’apertura di negoziati con l’entità sionista senza condizioni preliminari, c) il riconoscimento di Israele, d) il riconoscimento di Gerusalemme come capitale di Israele e l’abbandono della rivendicazione sulla sua parte orientale ed e) l’Annuncio della cessazione della resistenza armata e l’apertura di negoziati come unica opzione di soluzione (21)
Hamad, Haniyeh e Cheikha MOza (la terza moglie dll’emiro del Qatar) durante la visita della coppia qatariota a Gaza
In definitiva sembrerebbe che la presenza del Qatar al Cairo come mediatore importante nel dossier palestinese sia collegato ad una doppia agenda. La prima è relativa alla “primaverizzazione” della causa palestinese, favorendo il predominio di Hamas nei confronti degli altri gruppi rivali a Gaza e marginalizzando, de facto, l’Autorità palestinese in Cisgiordania. L’obiettivo finale sarebbe la costituzione di un solo governo islamista diretto da Hamas in tutti i territori palestinesi?
Il secondo riguarda l’abbandono da parte di Hamas della sua ala militare ed il suo allontanamento dall’ Iran “sciita” che gli ha sempre fornito armi.
Alla luce di quanto detto, tutto lascerebbe intendere che la trama di fondo di queste manovre sia la negoziazione di una “pace al ribasso” con lo stato ebraico con la benedizione israelo-USA.
E l’emiro del Qatar dispone di una carta importante per riuscire in questo progetto: Khaled Mechaal, il capo di Hamas che si è allineato apertamente con la politica del Qatar riconoscendo la ribellione siriana, rompendo con Bachar el-Assad (che lo ha sostenuto e finanziato per anni) e lasciando Damasco, dove viveva, per istallarsi all’hotel Four Seasons di Doha, “sotto la protezione dei suoi ospiti qatarioti” (22).
Non è forse l’emiro del Qatar un esperto corruttore di coloro che poi diventeranno i suoi scagnozzi?
Meno di una settimana dalla fine dell’operazione “Pilastro di difesa”, questa volontà di Hamas di prendere le distanze dall’Iran ha trovato conferma nelle parole di Moussa Abou Marzouk, capo aggiunto dell’ufficio politico di Hamas. Dal suo nuovo ufficio del Cairo, ha dichiarato che “l’Iran deve riconsiderare il suo appoggio al regime siriano” (23).
Questa aspirazione ad affrancarsi dall’Iran è stata anche espressa, ma con prudenza, da Ziad Nakhal, il segretario generale aggiunto della Jihad islamica palestinese. Pur riconoscendo che “senza l’aiuto militare dell’Iran, la resistenza palestinese non avrebbe potuto combattere per molti anni”, ha aggiunto che “se gli Arabi intendono rimpiazzare l’Iran, essi saranno i benvenuti e noi ringrazieremo l’Iran” (24).
Un invito indirizzato soprattutto al Qatar. Infatti come è possibile che questo ricchissimo emirato del Golfo che arma i ribelli islamisti in tutti i paesi arabi alla ricerca di una eventuale “primavera” e che sostiene la loro lotta contro dei governi arabi fino a poco prima amici, possa chiedere ai militanti di Hamas di abbandonare la loro lotta armata contro lo stato ebraico, uno stato predatore, xenofobo e assassino? Perché non arma invece i combattenti di una causa tanto giusta e tanto sacra come quella palestinese? Non fosse altro per fare loro acquisire una forza di dissuasione che consentirebbe loro di negoziare da una posizione di forza? Come fa apertamente in Siria? Bachar el-Assad sarebbe un nemico e Netanyahu un amico?
La risposta dell’emiro del Qatar non lascia spazio ad equivoci: durante la conferenza stampa tenuta il 19 novembre 2012 (mentre Israele bombardava Gaza), in occasione della visita a Doha di Mario Monti, presidente del consiglio italiano, ha affermato che “l’aiuto del Qatar alla striscia di Gaza si limita al profilo umanitario e alla ricostruzione, ma esclude l’armamento” (25).
Le armi di Hamas e la filiera sudanese
La notte successiva alla visita dell’emiro del Qatar a Gaza (dal 23 al 24 ottobre 2912), diversi aerei israeliani hanno bombardato il complesso militare sudanese di Yarmouk, sito a sud di Khartoum. L’attacco è durato solo qualche minuto, ma le esplosioni che sono seguite si sono prolungare per diverse ore, cosa che dimostra che lo stock di munizioni che conteneva era considerevole. Le foto satellitari scattate prima e dopo l’attacco israeliano mostrano una distruzione totale del sito (26). Il ministro sudanese dell’informazione, Ahmed Bilal Osman, ha dichiarato che nell’attacco sono stati impiegati quattro aerei e che prove materiali (armi rimaste inesplose) accusano direttamente Israele (27). Benché abbia assicurato che questo complesso fabbricava solo “armi tradizionali”, numerosi rapporti dicono che il sito serviva anche da deposito di missili iraniani Shehab e che era assai plausibile che esperti iraniani fornissero assistenza tecnica per la costruzione di altri tipi di armi.
bombardamento del complesso sudanese di Yarmouk da parte dell’aviazione israeliana
Israele non ha mai rivendicato questo attacco, ma alcuni dirigenti israeliani hanno accusato il Sudan di essere un punto di transito nevralgico per il trasporto di armi iraniane destinate ai combattenti di Hamas (28). Missili iraniani come Fadjr-5 che hanno colpito Gerusalemme durante il recente conflitto Israele-Gaza, sono stati certamente inviati dall’Iran verso Gaza, passando inizialmente dal Sudan e ,poi, introdotti nell’enclave palestinese attraverso i tunnel del Sinai (29). Così risulta facile capire l’interesse di Israele a coinvolgere l’Egitto nella chiusura di questi passaggi clandestini.
armi utilizzate da Hamas (Global/Security.org)
Ma quello che più attira l’attenzione in questa vicenda è il fatto che gli aerei israeliani abbiano percorso quasi 3600 Km (andata e ritorno) senza essere stati rilevati, né dal Sudan, né dai paesi “amici” limitrofi come l’Egitto, la Giordania e l’Arabia Saudita.
In un dettagliato articolo sull’attacco al complesso sudanese pubblicato sul Sunday Times, Uzi Mahmaini e Flora Bagenal spiegano che gli aerei israeliani hanno percorso una traiettoria che costeggia il mar Rosso, eludendo il sistema di difesa aerea dell’Egitto (30). Alcuni giornalisti egiziani si sono perfino chiesti se davvero gli aerei non fossero transitati nello spazio aereo del loro paese. Nella sua cronaca dal titolo “Morsi ha paura di Israele?”, Mohamed Dassouki Rachdi scrive: “Io non metto in dubbio le capacità egiziane e non intendo farlo, ma rivendico semplicemente il diritto del popolo di sapere se il suo territorio o il suo cielo siano stati utilizzati o meno nell’attacco contro un paese fratello”. Ed ha aggiunto: “Come è stato possibile che Israele sia riuscita a realizzare l’operazione di distruzione del complesso sudanese con tutta questa precisione e in assoluto silenzio, senza che l’Egitto se ne sia reso conto e senza alcuna reazione da parte delle autorità egiziane? Come è possibile che degli aerei abbiano potuto volare quattro ore per distruggere una parte di un paese fratello senza che il sonno dei leader egiziani ne venisse turbato?” (31). E’ stata la stessa presidenza della repubblica che si è incaricata di rispondere (cosa che conferma la gravità dei sospetti), negando qualsiasi utilizzazione dello spazio aereo egiziano da parte degli aerei israeliani ma non smentendo l’informazione relativa all’itinerario ipotizzato dal Sunday Times (32).
Dettagli dell'operazione israeliana contro il complesso sudanese di Yarmouk (secondo il Sunday Times)
Se l’ipotesi avanzata dal giornale inglese è vera, è legittimo porsi seri interrogativi circa le capacità del sistema di difesa aereo dell’Egitto, salvo che il paese dei faraoni non abbia volontariamente chiuso gli occhi sul bombardamento del Sudan per essere sicuro che le armi stoccate in Sudan fossero distrutte e che i nuovi missili iraniani non passassero più per i tunnel del Sinai.
Un’altra ipotesi relativa al tragitto degli aerei israeliani è stata avanzata da Ali Akbar Salehi, il ministro iraniano degli Affari esteri. Secondo le informazioni in suo possesso, la squadriglia avrebbe sorvolato la Giordania, l’Arabia Saudita e l’Eritrea prima di bombardare l’obiettivo sudanese, il che spiegherebbe il fatto che testimoni sudanesi avrebbero notato che gli aerei nemici venivano da est (33).
Qualsiasi ipotesi si faccia, però, sorgono seri dubbi circa il coinvolgimento di diversi paesi arabi nell’aggressione al Sudan, un paese “fratello” che è, peraltro, membro della Lega Araba.
A meno che Israele non abbia utilizzato direttamente una delle sue basi situate nell’arcipelago eritreo di Dahlak (34), ma questa eventualità non è stata avanzata da alcun osservatore.
L'arcipelago eritreo dei Dahlak dove è situata una base militare israeliana
La Turchia e il neo-ottomanismo
La politica estera del primo ministro turco Recep Tayyip Erdogan e del suo ministro degli affari esteri Ahmet Davutoglu sembra essere più improntata ad opportunismo che a realpolitik. Perseguendo originariamente la dottrina degli “zero problemi” con i paesi vicini, questa politica è progressivamente evoluta da una non-ingerenza ad una ingerenza attiva mano mano che la “primavera” araba si diffondeva, dal Cairo a Damasco.
Così, benché egli avesse inizialmente dichiarato “che non aveva alcuna intenzione di immischiarsi negli affari interni dei paesi arabi” (35), Erdogan si è poi impegnato in favore dei ribelli del Consiglio nazionale di transizione libico (CNT), dimenticando che solo qualche mese prima aveva ricevuto a Tripoli il premio Gheddafi 2010 per i diritti umani, conferitogli dal colonnello Gheddafi (36). Ma il rintocco funebre della politica degli ”zero problemi”, che tutto sommato era stata effimera, è suonato allo scoppio del conflitto siriano. Dietro pressione degli Stati Uniti, Erdogan ha abbandonato il presidente siriano, quello stesso che fino a poco prima aveva considerato un “amico”, dando alla Turchia un ruolo di primo piano in questa sanguinosa guerra civile.
Erdogan mentre riceve il Premio Gheddafi per i diritti umani
Questa posizione bellicista verso un paese con il quale la Turchia aveva firmato accordi di libero scambio nel 2004 e aveva abolito il visto di ingresso nel 2009 (e che Erdogan aveva visitato l’ultima volta il 17 gennaio 2011 su invito del suo “amico” Bachar al-Assad) non ha niente a che vedere coi principi morali che mirano all’istaurazione della democrazia in Siria. Il precedente libico è molto istruttivo in proposito. La Turchia vuole piuttosto galleggiare sull’ondata della fioritura dei governi islamisti che hanno preso il potere nei paesi arabi “primaverizzati” e che desiderano ispirarsi al modello dell’AKP (Adalet ve Kalknma Partisi o Partito della Giustizia e dello Sviluppo) di Erdogan.
Bachar el-Assad accoglie Erdogan a Damasco il 17 gennaio 2011
Il neo-ottomanismo, propugnato da Erdogan e Davutoglu, si definisce come la volontà turca di ricostruire, al livello diplomatico ed economico, la sua sfera di influenza ottomana (37). E questa politica di riconquista trae profitto dall’accesso al potere dell’islam politico sunnita in un buon numero di repubbliche arabe, presentando la Turchia come un modello di riuscita economica realizzata da un governo islamista.
Deve aggiungersi che la Turchia si è costruita un rimarchevole capitale di simpatia nel mondo arabo adottando posizioni filo-palestinesi mediatizzate e popolarissime. La rottura consumata da Erdogan a Davos il 29 gennaio 2009 ne è un esempio molto esplicito (38) e la sua partecipazione alla riunione tripartita Egitto-Qatar-Turchia del 17 novembre 2012 al Cairo rientra certamente in questo quadro.
Ma occorre sottolineare che per la Turchia essere filo-palestinese non significa affatto essere anti-israeliana. E anche se le relazioni politiche tra la Turchia e Israele si sono molto raffreddate dopo l’operazione “piombo fuso” e la vicenda della fottiglia della libertà, in campo militare ed economico vi è “business as usual”.
Ecco qualche esempio eloquente. Un anno circa dopo l’incidente di Davos, Ehud Barak, il ministro della difesa israeliano, è stato ricevuto ad Ankara con tutta la sua delegazione. All’esito della visita, il ministro turco della difesa ha dichiarato che “finché noi abbiamo i medesimi interessi, lavoreremo insieme per risolvere i problemi comuni. Così siamo alleati, siamo alleati strategici, finché i nostri interessi ci obbligheranno ad esserlo”. Da parte loro, alcuni ufficiali israeliani hanno commentato la visita precisando che “nonostante le tensioni diplomatiche (…), la loro impressione è che la visita sia stata un successo e che i Turchi siano interessati a mantenere buone relazioni” (39).
Nel giugno 2011, il giornale israeliano Haaretz ha riferito di “discussioni dirette segrete Israele-Turchia per ridimensionare la rottura diplomatica”. Si apprende che “alcuni rappresentanti israeliani e turchi hanno tenuto dei pourparler segreti per tentare di risolvere la crisi diplomatica tra i due paesi” e che i negoziati hanno avuto “l’appoggio degli Stati Uniti” (40).
In un articolo dal titolo rivelatore “Israele ripara e restituisce quattro droni alla Turchia in segno di un possibile miglioramento delle relazioni”, pubblicato il 19 maggio 2012 da “Times of Israele”, si dice che Erdogan avrebbe dichiarato che “vi possono essere dei problemi tra le persone e dei risentimenti, possono evitare di incontrarsi. Tutto questo è possibile, ma quando si tratta di accordi internazionali, esiste un’etica e un commercio internazionale” (41).
Così è chiaro che il neo-ottomanismo della Turchia di Edogan e di Davutoglu non si fa a detrimento delle relazioni turco-israeliane, anche se le apparenze mostrano un atteggiamento vendicativo nei confronti dello stato ebraico, atteggiamento ad uso e consumo dei popoli arabi per i quali la causa palestinese è un soggetto molto sensibile.
Obama e i piccoli piaceri asiatici
L’aggressione israeliana contro Gaza ha coinciso con una breve ma gradevole tournée asiatica del presidente Obama. Così, tra qualche atteggiamento e sguardo malizioso della seducente prima ministra tailandese Yingluck Shinawatra e qualche bacio “rubato” all’icona dell’opposizione birmana Aung San Suu Kyi (42), il presidente USA si è goduto il suo soggiorno mentre le bombe israeliane distruggevano Gaza e i suoi abianti.
sguardi e atteggiamenti maliziosi della prima ministra tailandese Yingluck Shinawatra e Obama sorridente (Bangkok, 18 novembre 2012)
Aung San Suu Kyi e Obama: due premi Nobel si baciano (sulla gradinata della residenza dell'ex dissidente birmana a Rangoon, il 19 novembre 2012)
Bisogna arrendersi all’evidenza che i Premi Nobel per la pace non valgono più granché coi tempi che corrono. Come spiegare altrimenti l’assenza di ogni compassione da parte di due insigniti di questo prestigioso riconoscimento, nella specie Obama (2009) e Aung San Suu Kyi (1991), per le vittime di Gaza e che nessun appello alla pace sia stato lanciato, di concerto, da questa coppia nobelizzata dall’alto della scalinata della residenza dell’ex dissidente birmana a Rangoon? Al contrario Obama non ha smesso di riaffermare “il diritto di Israele a difendersi”, vale a dire a bombardare con armi pesanti un popolo assediato.
il presidente Obama e il “diritto all’autodifesa” di Israele (conferenza stampa, 18 novembre 2012, Bangkok)
Occorre ammettere che il sostegno incondizionato del presidente USA allo stato ebraico è in completa contraddizione col suo famoso discorso del Cairo, quanto sosteneva che “da più di sessanta anni (il popolo palestinese) conosce il dolore dell’allontanamento. Molti aspettano nei campi profughi in Cisgiordania, a Gaza e nelle terre vicine, che si trovi una strada per la pace e la sicurezza alla quale non hanno mai avuto diritto. Essi subiscono ogni giorno le umiliazioni (…) la situazione del popolo palestinese è intollerabile. L’America non volgerà le spalle alla legittima aspirazione del popolo palestinese alla dignità, alla possibilità di realizzarsi ad uno Stato proprio”.
A proposito di questa famoso diritto “all’autodifesa” di Israele, la giornalista israeliana Amira Hass l’ha definita una “formidabile vittoria della propaganda”, aggiungendo che “sostenendo l’offensiva israeliana su Gaza, i leader occidentali hanno dato carta bianca agli Israeliani per fare ciò che sanno fare meglio di ogni altra cosa: stravaccarsi nel loro statuto di vittime e ignorare la sofferenza dei Palestinesi” (43).
Dopo una settimana di conflitto, Hillary Clinton si è recata a Israele e in Egitto per discutere coi protagonisti del conflitto. Il cessate il fuoco tra Hamas e Israele è stato proclamato il giorno stesso del suo arrivo al Cairo e tutto il merito è stato riconosciuto al presidente Morsi. Strana consacrazione per il presidente egiziano che aveva, senza successo, annunciato la fine delle ostilità per il giorno prima e che non era riuscito nemmeno a fermare i bombardamenti su Gaza (salvo che momentaneamente e nonostante le promesse israeliane) mentre il suo primo ministro Hicham Kandil si trovava in visita nell’enclave palestinese (44)
Clinton e Morsi (Il Cairo, il 21 novembre 2012, giorno dell'annuncio del cessate il fuoco tra Israele e Hamas)
All’indomani dell’annuncio del cessate il fuoco, il New York Times pubblicava un articolo sulle reali motivazioni dell’operazione “Pilastro di difesa”. Gli autori, David E. Sanger e Thom Shanker, hanno spiegato che “per Israele, il conflitto di Gaza è un test per lo scontro con l’Iran”. Infatti, secondo alcuni dirigenti USA e israeliani, questa operazione militare durata una settimana è un’esercitazione per un eventuale futuro scontro con l’Iran (45). Questa esercitazione ha consentito di verificare bene l’efficacia dei nuovi razzi di fabbricazione iraniana capaci di colpire Gerusalemme e di testare la debolezza del sistema anti-missile “Duomo di ferro”, realizzato da Israele. Fatto molto interessante: l’articolo riferisce che il bombardamento israeliano del complesso sudanese di Yarmouk era solo la prima fase di un piano più generale di indebolimento dell’Iran, che è proseguito col conflitto di Gaza.
Deve constatarsi che, per Israele, i due attacchi hanno avuto obiettivi strategici simili: i) la distruzione di stock di armi nemiche e ii) l’esercitazione delle truppe israeliane in vista di un eventuale conflitto diretto con l’Iran. In effetti la precisione e la padronanza con la quale l’operazione contro il sito sudanese è stata realizzata (distanza percorsa, rifornimento in volo, disturbo delle comunicazioni nemiche, attacchi chirurgici) dimostrano che lo stato ebraico dispone dei mezzi tecnici per operare un attacco aereo sui siti nucleari iraniani che sono situati a distanze uguali o inferiori a quelle che separano Israele da Yarmouk. D’altra parte, l’annientamento delle riserve di armi destinate o utilizzate (rispettivamente in Sudan e a Gaza) dalla resistenza palestinese permette di minimizzare il rischio di apertura di fronti supplementari se dovesse essere presa la decisione di attaccare l’Iran. Se si aggiunge a questo la partecipazione attiva dell’Egitto nella chiusura dei tunnel del Sinai e il coinvolgimento del Qatar nell’opera di convincimento verso Hamas per un cambiamento di programma rivoluzionario, le condizioni per un attacco israeliano contro gli obiettivi iraniani diventa sempre più favorevole per Israele e, evidentemente, per gli Stati Uniti, suo alleato indefettibile in questa “crociata”.
Effettivamente, commentando l’articolo di David E. Sanger e Thom Shanker, Lucio Manisco ha scritto che “l’inchiesta del New York Times chiarisce la stretta collaborazione tra Washington e Gerusalemme nei preparativi dell’offensiva contro Gaza, e in quella di più ampia portata prevista nei prossimi mesi contro l’Iran” (46).
Vi sono poi forti sospetti di una collaborazione tra questi due paesi nell’attacco contro il complesso di Yarmouk. Così il quotidiano arabo Al-Hayat ha citato alcuni dirigenti sudanesi che hanno affermato che gli Stati Uniti erano al corrente dell’attacco in quanto hanno rapidamente chiuso la loro ambasciata a Khartoum per paura di rappresaglie (47).
Se si tiene conto di tuto questo, si comprendono agevolmente la nonchalance e la flemma del presidente Obama durante il suo viaggio asiatico; egli attendeva pazientemente che l’esercitazione pianificata dalle forze israelo-USA terminasse per inviare il suo segretario di stato ad arrangiare un cessate il fuoco tra i belligeranti.
Si comprende anche perché Israele, contrariamente alle sue abitudini, non abbia posto in essere rappresaglie dopo l’attentato del 21 novembre 2012 che ha colpito un autobus a Tel Aviv, né rinviato la data della cessazione delle ostilità.
Sunnismo-Sciismo: uno scisma politico
La riconfigurazione politica della regione MENA (Madio oriente e Africa del Nord) dopo le primavere arabe ha provocato uno scisma politico sunnita-sciita. Questo scisma, che è diventato preponderante nel conflitto siriano a causa delle diversità culturali presenti in quel paese, ha una incidenza diretta sulla causa palestinese. Due assi sono emersi nella regione: l’asse sunnita, rappresentato tra gli altri dall’Egitto, il Qatar e la Turchia, e l’asse sciita, costituito dall’Iran, la Siria e Hezbollah.
Il primo asse ha ottime relazioni con i paesi occidentali, mentre il secondo rappresenta attualmente “l’asse del male” per questi stessi paesi.
Si vede bene che la riunione del 17 novembre al Cairo raggruppava esclusivamente paesi sunniti e che la presenza di Khaled Mechaal aveva certamente la funzione di sottrarre Hamas all’influenza sciita (soprattutto l’Iran) che gli fornisce armi. E’ chiaro che USA ed Europa giocano su questa divisione per meglio isolare, e dunque indebolire, l’asse sciita.
Lo scisma politico ha il suo pendant religioso, meno subdolo ma assolutamente virulento. Così il telepredicatore vedette della televisione qatariota Al-Jazeera, Cheick Al-Qardaoui, ha attaccato gli Iraniani per il ruolo svolto in Siria, dichiarando che “hanno mancato alla loro missione e oramai uccidono i mussulmani sunniti (i Siriani sunniti) che non sono della loro stessa corrente religiosa”. Ha invitato poi tutti i pellegrini mussulmani a implorare Dio di punire l’Iran (48).
Sono lontani i tempi in cui lo Sceicco fustigava Israele, pregando Dio di dargli l’opportunità, al crepuscolo della sua vita, di “sparare contro i nemici di Allah, gli ebrei” (49). Col passaggio della “primavera araba”, la sua sottomissione all’emiro del Qatar non gli permette di emettere condanne a morte se non contro gli Arabi o i mussulmani: un allineamento esemplare di politica e religione.
E’ senza dubbio per questo motivo che non lo si è inteso in alcun modo condannare l’aggressione israeliana contro il popolo di Gaza.
Discorso di Al-Qardaoui su Israele
Si può affermare in conclusione che la causa palestinese è innegabilmente influenzata dalle “primavere” arabe. Il blocco sunnita rappresentato dall’Egitto, il Qatar e la Turchia (paesi che hanno tutti e tre eccellenti relazioni con gli Stati Uniti) cerca di sottrarre Hamas alla influenza sciita iraniana che gli ha fornito le armi necessarie per la resistenza contro l’occupazione israeliana. La rottura di Khaled Mechaal con Bachar al-Assad, la sua sottomissione all’emiro del Qatar e il trasferimento della sede centrale di Hamas da Damasco al Cairo sono tutti segni premonitori che non possono ingannare. La sola incognita in questa vicenda è la posizione della resistenza palestinese che opera all’interno di Gaza e che ha un bisogno vitale di armi per rafforzare la propria legittimità conformemente all’ideologia del suo movimento. A meno che il Qatar non riesca nell’impresa di convincerli ad abbandonare le armi ed optare per una posizione più pacifista, cosa che potrebbe comportare l’affrancamento dall’accusa di essere una “organizzazione terroristica”, loro attribuita da molti paesi occidentali, e la possibilità di unirsi al tavolo dei negoziati. Tuttavia, considerando gli scarsi risultati ottenuti dall’Autorità Palestinese adottando un simile approccio, non ci si può attendere che Hamas abbia maggior successo. Cosa di più chiaro della dichiarazione di Leila Shalid, la delegata generale dell’Autorità Palestinese presso l’Unione Europea: “La nostra strategia non violenta nei confronti di Israele è un fallimento (…) non ha fermato la lotta armata (…) e Israele ci ha dato una sberla” (50).
Per altro, e contrariamente alle apparenze: i) il governo islamista di Morsi sembra intrattenere relazioni privilegiate con lo stato ebraico (corrispondenza affettuosa, distruzione dei tunnel del Sinai, nessuna reazione all’attacco del complesso sudanese); ii) la politica neo-ottomanista della Turchia non si realizza a detrimento delle relazioni turco-israeliane che restano strategiche; iii) le relazioni Israele-USA sono ottime e, sui dossier iraniano e palestinese, la collaborazione è esemplare.
Quanto alla Lega araba, che un tempo considerava la questione palestinese centrale, è attualmente completamente infeudata agli interessi USA. Cosa che fa dire a qualcuno che questa istituzione non può realmente decidere se non atti che danneggino il Mondo arabo!
Infine è interessante osservare il movimento di bilanciere che si realizza in Palestina: a Gaza si fa di tutto per rendere Hamas frequentabile con gran vantaggio per Israele e gli Stati Uniti; in Cisgiordania l’Autorità palestinese provoca l’ira di Tel Aviv e Washington ottenendo, nonostante le pressioni e le intimidazioni, il suo statuto di Stato osservatore dell’ONU.
Cosa che ci riporta alla questione esistenziale: prima di discutere del ruolo di paese terzo, si può immaginare una qualsiasi soluzione del problema della Palestina senza la riunificazione dei due territori palestinesi?
Note:
1. May Al-Maghrabi et Noha Ayman, « Morsi joue la realpolitik », Al Ahram Hebdo, 24 ottobre 2012, http://hebdo.ahram.org.eg/NewsContent/0/1/130/532/Morsi-joue-la--realpolitik.aspx
2. Jonathan-Simon Sellem, « Égypte: " la lettre amicale de Morsi à Peres est une fausse " », JSSNews, 1à agosto 2012, http://jssnews.com/2012/08/01/egypte-la-lettre-amicale-de-morsi-a-peres-est-une-fausse/
3. Al-Masry Al-Youm, « Morsy’s letter to Peres not friendly, just protocol, say diplomats », Egypt Independent, 18 ottobre 2012, http://www.egyptindependent.com/news/morsy-s-letter-peres-not-friendly-just-protocol-say-diplomats
4. L’Orient le jour, « Peres salue les "efforts " de Morsi pour une trêve », 19 novembre 2012, http://www.lorientlejour.com/category/Moyen+Orient+et+Monde/article/788325/Peres_salue_les_%3C%3C+efforts+%3E%3E_de_Morsi_pour_une_treve.html
5. Si tratta di un programma della televisione egiziana intitolato « El Hokm baad El Moudawala ». E’ possibile vedere alcuni estratti di trasmissione di grande successo all’indirizzo URL seguente : http://www.youtube.com/watch?v=KmUBWkDdXx4
6. Salma Abdelaziz, « Egyptian prank show exposes anti-Israeli sentiment », CNN, 11 agosto 2012, http://edition.cnn.com/2012/08/10/world/africa/egyptian-prank-show/index.html?hpt=hp_t3
7. Hélène Jaffiol, « Gaza: la fin des tunnels », Slate.fr, 29 settembre 2012, http://www.slate.fr/story/61031/gaza-fin-tunnels
8. AFP, « Égypte : selon les Frères musulmans, l'attaque du Sinaï peut être attribuée au Mossad », Radio-Canada, 6 agosto 2012, http://www.radio-canada.ca/nouvelles/International/2012/08/06/003-egypte-deuil-attaque-sinai.shtml
9. Una eccellente carta interattiva del Sinai può essere consultata sul sito della FMO (Forza Multinazionale di Osservatori in Sinai) all’indirizzo URL : http://mfo.org/sinai
10. Ian Black, « Mohammed Morsi: Brotherhood's backroom operator in the limelight », The Guardian, 25 maggio 2012, http://www.guardian.co.uk/world/2012/may/25/mohammed-morsi-muslim-brotherhood
11. Majdi Abou Eleil et Ahmed Tahar, « Le Hamas transfèrera au Caire son principal siège », El Watan News, 12 settembre 2012, http://www.elwatannews.com/news/details/48396
12. Ramzy Baroud, « Hamas and the Brotherhood: Reanimating History », Palestine Chronicle, 2 gennaio 2012, http://www.onislam.net/english/politics/middle-east/455243-hamas-and-the-brotherhood-reanimating-history-.html
13. AFP, « La nouvelle Coalition syrienne basée en Égypte », 24 Heures, 19 novembre 2012, http://www.24heures.ch/monde/nouvelle-coalition-syrienne-basee-egypte/story/16399120
14. Dedefensa.org, « Les dessous coquins de l’accord de Doha », 14 novembre 2011, http://www.dedefensa.org/article-les_dessous_coquins_de_l_accord_de_doha_14_11_2012.html
15. Amin Hamadé, « Comment Al-Jazira et sa rivale Al-Arabiya couvrent-elles la guerre à Gaza ? », Courrier International, 22 novembre 2012, http://www.courrierinternational.com/article/2012/11/22/comment-al-jazira-et-sa-rivale-al-arabiya-couvrent-elles-la-guerre-a-gaza
16. Ria Novosti, « Égypte: aucune révision des accords de Camp David (officiel) », 26 settembre 2012, http://fr.rian.ru/world/20120926/196154839.html
17. Chimaa El Karanchaoui, « Le tribunal administratif se déclare non compétent dans l’annulation ou la modification de "Camp David" », El Masry El Youm, 30 novembre 2012, http://www.almasryalyoum.com/node/1208641
18. AFP, « Visite "historique" de l'émir du Qatar à Gaza », Le Monde.fr, le 23 ottobre 2012, http://www.lemonde.fr/proche-orient/article/2012/10/23/visite-historique-de-l-emir-du-qatar-a-gaza_1779825_3218.html
19. Jean-Pierre Bejot, « Qatar est-il le nouveau nom de "l’impérialisme", de "la mondialisation", de "l’Internationale islamique"… ? (3/4) », La Dépêche diplomatique, 31 ottobre 2012, http://www.lefaso.net/spip.php?article50905
20. Rachid Barnat, « Quale è il gioco dell’emiro del Qatar? », www.ossin.org, novembre 2012, http://www.ossin.org/qatar/emiro-qatar-wahabismo-saudita-mohamed-abdelwahhab.html
21. Al Manar, « Hamad bin Khalifa à Haniyeh: rompez votre alliance avec l’Iran et… », 17 novembre 2012, http://www.almanar.com.lb/french/adetails.php?eid=85451&cid=18&fromval=1&frid=18&seccatid=20&s1=1
22. Georges Malbrunot, « L'émir du Qatar affiche son parti pris pro-Hamas à Gaza », Le Figaro.fr, 23 ottobre 2012, http://www.lefigaro.fr/international/2012/10/23/01003-20121023ARTFIG00323-l-emir-du-qatar-affiche-son-parti-pris-pro-hamas-a-gaza.php
23. AFP, « Hamas: L'Iran devrait reconsidérer sa position à l'égard du régime syrien », Al-Masry Al-Youm, 26 novembre 2012, http://www.almasryalyoum.com/node/1270486
24. Déclaration de Ziad Nakhal à Nile News, il 27 novembre 2012
25. Qatar Ministry of Foreign Affairs, « The joint press conference by H.E. Sheikh Hamad Bin Jassim Bin Jabr Al Thani, the Prime Minister and Minister of Foreign Affairs and Italian Prime Minister Mario Monti regarding the situation in Gaza », 19 novembre 2012, http://english.mofa.gov.qa/minister.cfm?m_cat=2&id=163
26. Alain Rodier, « Israël-Soudan-Gaza : Frappe aérienne et riposte du Hamas », Note d’actualité n°291, Centre Français de Recherche sur le Renseignement, Novembre 2012
27. AFP, « Le Soudan accuse Israël de l'avoir bombardé », Le Monde.fr, 24 ottobre 2012, http://www.lemonde.fr/afrique/article/2012/10/24/le-soudan-accuse-israel-de-l-avoir-bombarde_1780414_3212.html
28. AFP, « Le Soudan nie tout rôle de l'Iran dans son usine d'armes de Yarmouk », Courrier International, 29 ottobre 2012, http://www.courrierinternational.com/depeche/newsmlmmd.d6c0a760d0f4e9b5a7145c93a75c54a6.501.xml
29. Global Security.org, « Hamas Rockets », Novembre 2012, http://www.globalsecurity.org/military/world/para/hamas-qassam.htm
30. Uzi Mahmaini and Flora Bagenal, « Israeli Jets Bomb Sudan Missile Site in Dry Run for Iran Attack », The Sunday Times, 28 ottobre 2012, http://www.thesundaytimes.co.uk/sto/news/world_news/Middle_East/article1156457.ece
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48. Al-Quds Al-Arabi, « Al-Qardaoui: l'Iran, la Russie et la Chine sont les ennemis de la Nation et les pèlerins doivent implorer Dieu pour les punir », 13 ottobre 2012, http://www.alquds.co.uk/index.asp?fname=online%5Cdata%5C2012-10-13-10-07-51.htm
49. Youtube, « Al-Qaradawi praising Hitler's antisemitism », Vidéo mise en ligne le 10 febbraio 2009, http://www.youtube.com/watch?v=HStliOnVl6Q&feature=player_embedded
50. Leïla Shahid, « Notre stratégie non-violente face à Israël est un échec », RTBF, 18 novembre 2012, http://www.rtbf.be/info/monde/detail_violences-a-gaza-entretien-exclusif-avec-leila-shahid?id=7876355