La volatilità dei mercati e il crepuscolo del dollaro
- Dettagli
- Visite: 4683
Russia Insider, 21 agosto 2015 (trad.ossin)
La volatilità dei mercati e il crepuscolo del dollaro
Alexander Mercouris
Il caos dei mercati finanziari mondiali e di quelli delle materie prime è provocata dalla paralisi della politica statunitense e affretta il declino della posizione preminente del dollaro come moneta di riserva mondiale
Per quelli che si interessano a questo tipo di cose, il 20 agosto 2013 è stata una giornata di passione per i mercati.
Il petrolio è affondato, il Kazakistan e il Vietnam hanno entrambi lasciato fluttuare le loro monete, la moneta kazaka si è svalutata del 20% in un solo giorno e quelle che vengono cortesemente chiamate le monete delle economie di mercato emergenti – ivi compreso il rublo – sono cadute tutte all’unisono.
In Russia, il rublo ha seguito la caduta del prezzo del petrolio, col ministro dell’Economia Ulykaev che ha dichiarato che, siccome il prezzo del petrolio potrebbe ancora calare, anche il rublo potrebbe essere soggetto ad ulteriori svalutazioni.
Nel frattempo, e contraddicendo coloro che continuano a considerare la caduta del rublo come una specie di disastro per la Russia, le riserve internazionali della Russia sono aumentate di oltre 4 miliardi di dollari nel corso dell’ultima settimana, confermando peraltro che la Banca centrale non interviene sul mercato dei cambi per sostenere il rublo. In tutto questo tempo, nonostante la svalutazione del rublo prosegua da quasi due mesi, l’effetto sull’inflazione resta moderato. Rosstat – l’ufficio di statistica russo – ha addirittura registrato una deflazione (vale a dire una caduta reale dei prezzi) durante la settimana scorsa.
Quanto alla situazione finanziaria complessiva della Russia, la bilancia commerciale resta in eccedenza e il deficit di bilancio è passato dal 3,7% del PIL al 2,7% del PIL nel corso dei primi sette mesi dell’anno, nonostante la recessione in atto e il tonfo del prezzo del petrolio.
Ciò significa che il deficit di bilancio della Russia non è attualmente superiore a quello degli Stati Uniti, che in teoria si troverebbero nel loro sesto
anno di ripresa, ed è meno della metà di quello della Gran Bretagna, la cui riduzione è stata premiata con una nuova vittoria elettorale per i conservatori.
Come ho più volte spiegato, la causa del modesto deficit di bilancio della Russia e i valori positivi della sua bilancia commerciale si devono alla decisione del governo, presa l’anno scorso, di lasciar fluttuare il rublo.
Tra le grandi economie dei mercati emergenti, io penso che quella che dà segni di preoccupazione sia la Turchia.
Contrariamente alla Russia, la Turchia registra un deficit commerciale. Esso è cresciuto nel corso dell’ultimo decennio, compensato dall’importazione di capitali del mondo arabo e dell’Occidente a un ritmo incessantemente crescente. Ciò ha prodotto una forte crescita del debito estero, che talune stime fissano a più della metà del PIL della Turchia – più di due volte quello della Russia – ma senza l’accumulazione di grandi attivi liquidi in valuta estera da parte delle imprese turche, come hanno fatto le imprese russe. Come è accaduto in Grecia prima del 2007, una gran parte del debito è andato ad alimentare il boom delle costruzioni che, come nella Grecia di prima del 2007, è stato il principale motore della crescita turca.
La forte svalutazione della moneta turca comporta un aumento del costo delle importazioni e degli interessi sul debito, annullando i vantaggi per il paese derivanti dal basso costo del petrolio. Siccome la bilancia commerciale è in deficit, facile è la previsione di un peggioramento della situazione e della possibile caduta dell’economia in una profonda recessione.
Come spiegare la straordinaria volatilità sui mercati mondiali?
La stampa finanziaria occidentale accusa la Cina e l’Arabia Saudita.
Si ritiene che l’economia cinese rallenti e si trovi confrontata ad un “atterraggio brutale” che la costringerebbe, asseritamente, a svalutare la sua moneta per guadagnare competitività. Ciò che accrescerebbe sempre di più il rischio di una “guerra delle monete”, vale a dire una spirale di svalutazioni competitive da parte di paesi che cercano di ottenere dei vantaggi commerciali sugli altri – come è accaduto con conseguenze disastrose durante la Grande depressione degli anni 1930. La riduzione della domanda cinese di materie prime, provocata dal rallentamento di questa economia, viene considerata come la causa della caduta del prezzo del petrolio e delle altre materie prime.
L’Arabia Saudita viene accusata di avere provocato la crisi del mercato petrolifero, asseritamente perché avrebbe sottovalutato la resilienza del produttori del petrolio scisto degli Stati Uniti ed esageratamente accresciuto la produzione di petrolio in un periodo di saturazione del mercato, invece di ridurla.
Io non considero convincenti queste argomentazioni.
Le preoccupazioni relative alla Cina non tengono conto di quanto risulta dalle statistiche che vengono da questo paese e non trovano fondamento in quella che finora è stata solo una modesta svalutazione, la cui finalità sembra soprattutto quella di rafforzare l’aspirazione cinese a vedere la propria moneta, lo yuan, inserito nel paniere delle monete di riserva del FMI.
Come è per il caso della Russia, non bisogna confondere le pie illusioni dell’Ovest a proposito della Cina con la realtà economica di quest’ultima, che continua ad avere un’aria robusta.
Quanto all’Arabia Saudita, pie illusioni e confusione a proposito dei suoi progetti sono, se possibili, ancora maggiori.
Prima di tutto, sono sconcertato dalla persistenza del mito secondo cui l’Arabia Saudita avrebbe rifiutato di ridurre la sua produzione l’anno scorso con il proposito di nuocere alla Russia, nell’ambito di un complotto statunitense-saudita. I Sauditi hanno chiarito che non era la Russia, ma i produttori di petrolio scisto statunitense i veri obiettivi. Ecco una ragione del tutto soddisfacente per spiegare l’iniziativa saudita, e non v’è alcun bisogno di andare al di là di essa.
Cosa pensare dell’opinione secondo cui i Sauditi avrebbero sottovalutato la resilienza dei produttori statunitensi di petrolio scisto e che adesso si trovano nella necessità di cambiare rapidamente rotta, a rischio di mettere in pericolo la loro economia?
I Sauditi sono gli attori più esperti e più informati a proposito del mercato del petrolio e sarebbe incredibile che non lo siano anche sulle condizioni dell’industria petrolifera degli Stati Uniti – compresa l’industria del petrolio scisto.
E’ difficile credere che i Sauditi possano essersi illusi che solo qualche mese di caduta del prezzo del petrolio sarebbe bastato a distruggere un’intera industria. Il senso comune e la conoscenza dei mercati di base hanno senz’altro loro suggerito che occorreva un periodo prolungato di bassi prezzi del petrolio – ed una aspettativa generale da parte del mercato di un lungo periodo di bassi prezzi del petrolio – per convincere investitori e creditori dell’industria del petrolio scisto che non ha senso proseguire nella loro attività.
Quando i Sauditi hanno deciso l’anno scorso di mantenere la produzione ai livelli attuali, devono avere calcolato che i prezzi sarebbero rimasti bassi per un lungo periodo – due, forse tre anni almeno. Altro non avrebbe senso.
Cosa pensare della pretesa dell’industria del petrolio scisto di potere attraversare la tempesta attraverso una accresciuta efficienza produttiva?
Io non sono un economista di questioni energetiche. Mi sento però di potere affermare che i produttori di petrolio scisto dicono esattamente quello che ci si può aspettare che dicano in questo stadio del ciclo del prezzo del petrolio. Devono dire che la situazione è sotto controllo, rassicurare creditori e investitori per mantenerli dalla loro parte, e dunque non sorprende che questo facciano.
Ricordo di avere ascoltato esattamente le stesse cose nel pieno del boom delle dot.com (bolla informatica) e della bolla immobiliare, che cominciavano già a scoppiare, e non ho alcun motivo di ritenere che questa volta sarà diverso.
Nonostante le affermazioni contrarie, le riserve dell’Arabia Saudita e la liquidità del suo sistema bancario significano che, a onta delle spese crescenti, essa è in grado di sopportare un lungo periodo di prezzi bassi.