La camorra è questione sociale
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Analisi, gennaio 2017 - È il fallimento delle politiche esclusivamente repressive, quelle militari del «tutti in galera e buttiamo via la chiave». Gli arresti non hanno mai fermato nemmeno una piazza di spaccio, perché non hanno ridotto nemmeno di una unità la domanda di droga (nella foto, inaugurazione dell'anno giudiziario a Napoli)
Corriere del Mezzogiorno, 31 gennaio 2017 (editoriale)
La camorra è questione sociale
Nicola Quatrano
Il rituale è identico, si ripete col medesimo copione ad ogni sparatoria, o «stesa», o uccisione più o meno eclatante. L’ultima è l’agguato in cui ha perso la vita Renato Di Giovanni, un ventunenne ex promessa del calcio, vittima di un qualche regolamento di conti nel mercato dello spaccio. In casi del genere, i giornali usano intervistare le Autorità, riservando un pastone più o meno ampio (democrazia volgare oblige, direbbe Pierluigi Barrotta) alle opinioni dei «semplici» cittadini. Quasi mai, dagli uni e dagli altri, viene fuori qualche opinione interessante.
Irritante sì. È il caso del Questore di Napoli quando si è «scagliato» contro l’omertà dei cittadini di Forcella e, come ha acutamente osservato Isaia Sales sulle colonne de Il Mattino, ha pensato di risolvere il problema colpevolizzando i cittadini spaventati (cui nessuno dovrebbe imporre l’eroismo), piuttosto che fare i conti con l’evidente inefficacia delle misure repressive di propria specifica competenza. Maggiore sobrietà può cogliersi nella relazione di apertura dell’anno giudiziario del Presidente della Corte d’Appello, Giuseppe De Carolis, e nell’intervento del Procuratore Generale, Luigi Riello. Entrambi hanno piuttosto puntato il dito sulle carenze della politica, riconoscendo che la criminalità giovanile è un problema sociale prima che criminale. Finendo poi — ma era scontato — col declinare con soddisfazione le cifre in crescita di arresti e condanne.
Eppure i caratteri preoccupanti che va assumendo la criminalità a Napoli, e il suo livello di violenza, meriterebbero ben altre analisi. Essi soprattutto interpellano (e denunciano) un clamoroso fallimento: quello delle politiche di sicurezza. «Stese», «paranze dei bambini» e sparatorie in pieno centro cittadino non sono emergenze che possano imputarsi ad una qualche forma di lassismo nella gestione dell’ordine pubblico. Intervengono infatti dopo un ventennio nel corso del quale le porte del carcere si sono aperte fin troppo frequentemente, accogliendo migliaia di arrestati, rapidamente condannati da Tribunali che hanno talvolta sacrificato alle esigenze della sicurezza la rigorosa valutazione delle prove. Il fallimento, dunque, non è nella applicazione della strategia, ma nella strategia stessa.
È il fallimento del proibizionismo e della guerra alla droga, per esempio, che ha prodotto, quale unico effetto, quello di accrescerne a dismisura il valore aggiunto e, combinandosi con la polveriera dell’emarginazione sociale e giovanile, ha generato la violenza che insanguina oramai non solo Napoli, ma ogni altra periferia del globo.
È il fallimento delle politiche esclusivamente repressive, quelle militari del «tutti in galera e buttiamo via la chiave». Suggerei alle Autorità, quelle che invitano i cittadini a denunciare, o declinano con soddisfazione le cifre di una carcerazione sempre più massiva, a misurarsi anche con un’altra questione, piccola piccola, ma che rischia però di mettere in crisi tutto l’impianto. Gli arresti hanno una forte efficacia repressiva, certo, ma non hanno mai fermato nemmeno una piazza di spaccio, perché non hanno ridotto nemmeno di una unità la domanda di droga. Essi piuttosto paradossalmente contribuiscono all’enorme ampliamento dell’area della illegalità, favorendo l’immissione di nuove leve, sempre più giovani, nei circuiti dello spaccio decimati dai blitz. Una sorta di metastasi dell’illegalità, in qualche modo alimentata dalla «lotta all’illegalità».
Basterebbe questa considerazione per dimostrare che la questione criminale è una questione sociale. Ancora di più oggi che coinvolge intere generazioni di giovani dei quartieri periferici. Hanno fatto dunque bene i vertici giudiziari napoletani a puntare il dito sulla latitanza della politica. Si sono dimostrati per qualche verso più «politici» del nostro sindaco, che non è più da tempo magistrato e che però, sul tema, si mostra più magistrato di loro. Le sue dichiarazioni alternano infatti una sostanziale minimizzazione del fenomeno, che evidentemente mal si concilia con la narrazione della «rinascita» napoletana, con l’enunciazione di proposte, quali l’intervento dell’esercito e un auspicato rafforzamento della Polizia urbana, che tradiscono una completa incomprensione del suo carattere «sociale».
I giovani delle periferie di Napoli non devono essere considerati come delinquenti genetici e irrecuperabili. Il disagio e la violenza che esprimono richiedono interventi giustamente repressivi, ma anche tanto ascolto ed attenzione. Non solo da parte di poliziotti e magistrati, ma anche del Governo, della Regione e del Comune.