Napoli, l'uso privato dei Beni Comuni
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Intervento, ottobre 2017 - Nonostante la proverbiale fortuna di questa amministrazione, alla fine sono venuti al pettine i complicati nodi del trasporto pubblico e, tra errori di gestione antichi e più recenti, pare siamo al disastro (nella foto, deposito dell'ANM, l'azienda napoletana del trasporto pubblico)
Corriere del Mezzogiorno (editoriale), 10 ottobre 2017
Napoli, l'uso privato dei Beni Comuni
Nicola Quatrano
Nonostante la proverbiale fortuna di questa amministrazione, alla fine sono venuti al pettine i complicati nodi del trasporto pubblico e, tra errori di gestione antichi e più recenti, pare siamo al disastro. Si spera adesso in un decreto dell’un tempo odiato governo, che vada in aiuto dei comuni meno virtuosi. Sarebbe un altro bingo! Per quanto, la vera fortuna dell’Anm è che sono pochi i napoletani che si servono dei mezzi pubblici per ragioni di lavoro a orario fisso (in una città in cui il lavoro è un miraggio), sennò saremmo alle barricate in piazza, tanto è insopportabile il disservizio erogato, a onta della retorica della «Metropolitana più bella d’Europa». La mia personale esperienza mi ha intanto suggerito, dopo molti anni, di non rinnovare l’abbonamento. Da casa mia al Tribunale impiego, in auto, 30 minuti, a piedi 55 minuti e, con la metropolitana, 1 ora e 5 minuti. Voi che cosa avreste fatto?
Vedremo come andrà a finire. A margine del dramma principale, spunta però una notizia interessante. Pare che l’amministrazione cerchi di trovare «la quadra» della complicata situazione finanziaria dell’azienda di trasporti, ricorrendo, tra l’altro, alla privatizzazione dei 24.000 stalli delle strisce blu e dei parcheggi pubblici. E questo, mentre sono già in vendita alcuni gioielli di famiglia, come la quota di partecipazione della Gesac, che rendeva alle casse comunali circa 1 milione e mezzo all’anno, cui si è rinunciato per fare cassa (rinunciando con ciò anche a mettere becco nel governo dei flussi turistici sul territorio).
E mentre si continua a parlare anche della privatizzazione della strategica rete del gas, che non è meno «comune» dell’acqua. Non si tratta – si badi - di vendite (o «esternalizzazioni», come si preferisce chiamarle forse per mettere in ombra la brutalità del loro vero significato) che vengano decise sulla base di un discutibile (ma non scandaloso) programma di riduzione dell’intervento pubblico. Sono privatizzazioni fatte, per così dire, con l’acqua alla gola, solo per fare cassa, per non affogare nel mare dei debiti fuori bilancio (che sono in definitiva il prezzo della inefficienza amministrativa), a fronte di una acclarata incapacità di riscuotere le entrate ordinarie, perfino la Tarsu e le multe.
Paradossalmente, dunque, un’amministrazione nata sull’onda della «difesa dei beni comuni», che come suo primo atto ha denunciato il contratto con la società Romeo per la gestione del patrimonio immobiliare, finirà il suo mandato lasciando una città spogliata di alcune sue importanti risorse. Ma il ricorso al «privato», o per meglio dire la riduzione del ruolo del «pubblico», sembra essere, al di là degli slogan, la vera cifra dell’attuale esperienza amministrativa. Sembra infatti che, a Napoli, il destino degli spazi comuni sia oramai quello di essere «affidati» ai privati, dal sagrato della chiesa dei Girolamini (salvato dalla Soprintendenza), fino alle installazioni di N’albero e del Corno (da cui pure la Soprintendenza ci ha salvato). Si impedisce in sostanza ai cittadini di fruirne gratuitamente, trasformandoli in merci che qualcuno sfrutterà economicamente. A Marechiaro, per dire, si può andare in macchina solo se si è residenti (e fin qui va bene), ma pure se si va a spendere in qualcuno dei suoi ristoranti e parcheggi (rigorosamente privati). Capisco le ragioni, ma resta il fatto che si è regalato a singoli operatori l’utilizzo commerciale perfino della «finestrella» e del panorama.
Anche la «partecipazione volontaria alla tenuta degli spazi verdi» si è risolta in enormi cartelli pubblicitari che troneggiano su aiuole ben tenute (e talvolta davanti a una stentata rosellina), col risultato di sottrarli alla gestione dei servizi comunali e spesso al godimento dei cittadini. Lo stesso vale per Monumentando, i monumenti anch’essi trasformati in spazi per la pubblicità, in cambio di restauri di discutibile qualità, come ha denunciato Gaetano Brancaccio. L’amministrazione per contro latita. Quando c’è stato il problema dei Rom di Scampia, non esisteva un piano comunale, c’erano solo privati pronti a gestire la crisi.
E le occupazioni di stabilimenti pubblici? Lontana è l’epopea di Officina 99, delle occupazioni antagoniste e produttive di cultura. Gli occupanti di oggi sono gestori di beni gratuitamente affidati loro dal comune, in nome di non si sa quale diritto di priorità. Saranno pure bravi, ma magari ci sono altri più bravi di loro che saprebbero fare meglio. È a questo che servono bandi e gare, o no?
Vero è che il pubblico spesso è inefficiente, ma è l’unico che può fare programmazione nell’interesse collettivo. Il privato, per quanto sia, persegue pur sempre un profitto, privato appunto, e non può farsi carico delle funzioni pubbliche. Era questa l’idea che ha ispirato la rivoluzione «arancione». Poi, forse la cruda lezione della realtà, o l’ingresso in maggioranza di variegate correnti di pensiero, sembra avere invertito la rotta. O magari era fin dall’inizio una rotta confusa.