Camorra e immoralità pubblica
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Intervento, ottobre 2017 - Il crimine organizzato non sarebbe infatti come è oggi, senza il retroterra economico della globalizzazione e della deregulation dei mercati finanziari. Ma c’è anche un retroterra sociale, e culturale... (nella foto, Duello rusticano, di Francisco Goya)
Corriere del Mezzogiorno (editoriale), 17 ottobre 2017
Camorra e immoralità pubblica
Nicola Quatrano
Alla sua prima uscita pubblica da procuratore di Napoli, Giovanni Melillo ha parlato, ovviamente, di camorra. Lo ha fatto in occasione della commemorazione dello scomparso generale Gennaro Niglio e, per fortuna, non ha chiesto né l’introduzione di nuovi reati, né più uomini e mezzi. È una novità! Per anni, infatti, magistrati e investigatori ci avevano inflitto una litania di allarmi e moniti, diventati col tempo tanto rituali, tanto incapaci di guardare oltre l’angusto perimetro professionale dell’ammonitore di turno, da finire col rassomigliare agli argomenti di quel venditore di ventilatori che, per rilanciare l’economia, pensava bastasse proibire i condizionatori d’aria.
Il nuovo capo dei pm napoletani non ha invece dispensato (facili) ricette. Lamentando «una rassicurante narrazione della camorra ridotta a mera devianza», l’ha definita piuttosto un «fenomeno criminale che si inserisce in una rete di relazioni socio-economiche spesso non configurabili in una fattispecie giuridica», aggiungendo (e questo è importante) di «non essere ottimista sulle capacità del diritto penale di affrontare il fenomeno, perché la rete repressiva è insufficiente». Qualcuno ci ha visto un rimprovero alle organizzazioni delle professioni, che non si farebbero troppo carico dei pericoli di infiltrazione camorrista. Può darsi. A me piace pensare che le parole del procuratore debbano interpretarsi soprattutto come un invito a considerare i fenomeni criminali nella loro vasta complessità, inquadrandoli nel contesto di diffusa immoralità pubblica nel quale nascono e prosperano.
Il crimine organizzato non sarebbe infatti come è oggi, senza il retroterra economico della globalizzazione e della deregulation dei mercati finanziari. Ma c’è anche un retroterra sociale, e culturale, che può individuarsi in quel deficit di cittadinanza, di cui ha scritto Enzo d’Errico domenica scorsa. Ecco il riferimento di Melillo all’edilizia illegale, che in Campania pare raggiunga la considerevole percentuale del 70%, ma si potrebbero ugualmente citare la diffusa evasione fiscale, e le logiche nepotiste o di cordata che, dalle università al Csm, pare siano l’unico criterio che presiede alla distribuzione di incarichi e promozioni. E qui entra in gioco il «non ottimismo» sulla capacità del diritto penale di affrontare il fenomeno.
Perché qui non stiamo parlando solo dei delitti e delle pene, ma di reti e blocchi sociali, di economia e, naturalmente, anche di etica e cultura. Assurdo tentare di rinchiudere tutta la variegata fantasia dei comportamenti sociali in ulteriori fattispecie criminose, in una rincorsa senza fine, e tanto meno potenziare all’infinito gli apparati repressivi. Si tratta invece di percorrere nuove strade, bisogna in definitiva interpellare la politica, l’unica in grado di affrontare adeguatamente la complessità.
La politica dispone di strumenti incomparabilmente più efficaci di qualsiasi intervento repressivo. Basterebbe, per dire, estendere la tracciabilità delle transazioni, magari riducendo la pressione fiscale a livelli ragionevoli, per ottenere risultati incomparabilmente migliori delle più raffinate tecniche investigative contro l’evasione. Basterebbe, forse, disporre per legge la non trasmissibilità agli eredi delle costruzioni abusive, per ottenere effetti dissuasivi straordinariamente maggiori di condanne e ordini di demolizioni mai eseguiti. Continuo inoltre a pensare che una buona legge di regolamentazione delle droghe (almeno quelle leggere) colpirebbe gli interessi delle cosche più di mille blitz.
Ovviamente la politica dovrebbe essere capace di costruire un consenso su queste misure e, per farlo, dovrebbe saper parlare ai suoi elettori, influenzarne gli orientamenti e i comportamenti, perseguire un progetto di «cittadinanza», in nome del quale si possa ben accettare di rinunciare a qualche immediato beneficio in vista di risultati migliori per tutti. E qui sta il vero problema. La politica attuale assomiglia drammaticamente al «Duello rusticano» di Francisco Goya, due popolani che si scontrano con violenza grezza e immediata, cercando di uccidersi. Intanto però affondano nelle sabbie mobili e si capisce bene che l’esito sarà letale per entrambi.
Allo stesso modo, i nostri politici battibeccano senza esclusione di colpi su questioni immediate, e non si accorgono di correre inesorabilmente verso il baratro. E si capisce anche perché preferiscano affidare le questioni criminali alla cura esclusiva di magistrati e forze dell’ordine (nonostante siano cosa troppo seria — parafrasando Clausewitz — per lasciarla nelle mani degli addetti ai lavori). In primo luogo non hanno uno straccio di idea, e comunque non avrebbero sufficiente forza e autorevolezza per sostenerla. Infine la cosa viene anche comoda: quando i magistrati arresteranno qualche avversario, si potrà esaltarne l’opera, se capita a un amico, potranno sempre riscoprire il garantismo.