L’efficienza dei servizi collettivi
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Intervento, 7 dicembre 2017 - Eppure non deve essere poi così difficile capire che sono proprio la consapevolezza delle conseguenze «sociali» dei propri gesti, e il senso di responsabilità che ne deriva, a formare ciò che comunemente viene chiamata «cittadinanza»...
Corriere del Mezzogiono (Editoriale), 5 dicembre 2017
L'efficienza dei servizi collettivi
Nicola Quatrano
Da anni combatto una solitaria battaglia in Tribunale per un corretto uso degli ascensori, rompendo sistematicamente le scatole ai miei compagni occasionali di salita. Già vi vedo sorridere… No, non è l’ultima fissa di un quasi pensionato già pronto a memorabili tenzoni nelle assemblee di condominio. È che prendere l’ascensore nel Palazzo di Giustizia è un vero dramma, con attese lunghissime e fermate inutili ad ogni piano. Tutti si lamentano, ma sono proprio loro il problema, il loro compulsivo prenotare tutti gli ascensori, a prescindere dalla necessità, sia in salita che in discesa. Perché il servizio è tarato sui più o meno 10.000 frequentatori giornalieri, e andrebbe benissimo se un’irrazionale gestione delle chiamate non lo decuplicasse come fossero invece 150.000.
È un piccolo esempio di come l’efficienza dei servizi collettivi dipenda in buona parte dall’uso corretto che ne fa l’utenza. Lo stesso vale, sicuramente, per gli scadenti risultati della raccolta differenziata, che vedono Napoli ai più bassi livelli della classifica. O per la mobilità cittadina in generale. Prendete il carico e scarico merci, che intralcia la viabilità nelle ore di punta. Possibile che i commercianti, anche in strade di grande traffico, si ostinino a effettuarlo fuori dagli orari consentiti (e che i vigili urbani siano più introvabili del mitico Igor)? Sono comportamenti da niente («Un poco di pazienza, faccio subito!»), capaci però, tutti insieme, di mettere in crisi il funzionamento dell’intera rete cittadina, con conseguenze dannose per la vita, e magari la salute, delle persone, e per l’economia.
Eppure non deve essere poi così difficile capire che sono proprio la consapevolezza delle conseguenze «sociali» dei propri gesti, e il senso di responsabilità che ne deriva, a formare ciò che comunemente viene chiamata «cittadinanza». Mentre esaltare una presunta capacità di autoregolamentazione dei napoletani è solo un «fake», perché vivere senza regole è l’esatto contrario della convivenza civile, è piuttosto il luogo dove vince sempre il più forte (o forse perdono tutti).
Ed è un fake, secondo me, anche l’idea che l’inefficienza del servizio pubblico di trasporto possa risolversi privatizzandolo. Ne parlava Emanuele Imperiali qualche giorno fa su queste colonne, e a Roma si terrà in primavera un referendum sul tema. Ora, è vero che molte aziende municipali sono sull’orlo del collasso, ed è vero anche che il fallimento dell’Anm renderà inevitabile la messa a bando del servizio, ma ridurre tutto al problema del risanamento aziendale e finanziario (pure indispensabili), non convince.
Il servizio di trasporto pubblico deve certamente rispettare criteri di economicità e fare i conti con risorse pubbliche limitate, ma è pur sempre, come dice la parola stessa, un «servizio». Le sue finalità non devono essere né il profitto, né necessariamente il pareggio di bilancio, quanto piuttosto il soddisfacimento del bisogno di mobilità dei cittadini. Ed è questo a renderlo, per sua natura, un classico Bene Comune . Per contro a Firenze, una delle città che ha scelto il privato, l’azienda concessionaria, senza troppo migliorare le prestazioni, ha chiuso tratte non remunerative (ma utilissime ai cittadini) e adesso parla di 200 esuberi di personale, premendo per ottenere aumenti tariffari.
C’è poi da dire che l’efficienza dei servizi di trasporto, almeno quelli su gomma, dipende da molti fattori, dalla struttura urbanistica della città, alle politiche di incentivazione dei parcheggi residenziali, al corretto funzionamento dei semafori e delle corsie preferenziali, alla scorrevolezza del traffico. Tutte questioni che interpellano necessariamente le tipiche responsabilità dell’amministrazione comunale, e vanno molto al di là della sfera di competenza e di azione di un singolo gestore privato. La soluzione del problema, al di là di facili e suggestive scorciatoie, resta un impegno straordinario dei Comuni per il risanamento delle municipalizzate e, naturalmente, una presa di coscienza da parte della cittadinanza sulla necessità di rispettare le regole, sulla «responsabilità sociale» che incombe su ciascuno, nei piccoli gesti di ogni giorno. E, anche per questa ragione, è indispensabile che il servizio resti pubblico, e che gli utenti lo considerino e lo vivano come «proprio».
Quando salgo su un convoglio Trenitalia, continuo a stupirmi nel sentirmi chiamare «cliente». Penso allo sforzo straordinario fatto dallo Stato unitario, coi soldi del contribuente, per costruire una rete ferroviaria al servizio di tutti, compresi i residenti dei più piccoli borghi. Oggi che la spa ha puntato tutto sull’alta velocità, alzando i prezzi a dismisura (nonostante la concorrenza di Italo), chiudendo centinaia di stazioni e tagliando fuori dalla rete migliaia di cittadini, avverto che qualcosa non funziona e vorrei rispondere alla voce che mi accoglie: «Badi, io non sono un cliente, sono un utente».