L'illusione della Tolleranza zero
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Intervento, 18 gennaio 2018 - La “tolleranza zero” negli Stati Uniti si salda con la cifra di quasi 2,2 milioni di detenuti, tra carceri locali, statali, federali e private (nella foto, baby gang di latinos a Milano)
Il Dubbio, 17 gennaio 2018
L'Illusione della "Tolleranza zero"
Nicola Quatrano
Aveva solo 12 anni quando “Le Parisien” lo ha elevato agli onori della cronaca. Insieme alla sua banda, si era reso protagonista di tre aggressioni in otto giorni nel centro di Limoges, ai danni di coetanei e non solo. Il quotidiano deplorava che, causa l’età, era stato ogni volta rilasciato. Se ne è occupato un anno dopo “Le Figaro”, raccontandone l’infanzia in una famiglia di cinque figli (di tre padri diversi) e le varie (fallite) esperienze di affido e di adozione. All’attivo, già 60 procedimenti penali per aggressioni con coltello. Un anno ancora dopo, “France Bleu Limousine” tornava sulle nuove aggressioni, e le evasioni, del bimbo oramai noto come “il terrore di Limoges”. Il giornale si occupava anche del fratellino più piccolo, dicendo che era “ancora peggio”. Attualmente, quasi 18enne, si trova in una prigione minorile, sarà scarcerato il prossimo agosto. E potremmo anche parlare delle manifestazioni organizzate dagli abitanti del 19° arrondissement di Parigi contro le bande giovanili, o degli scontri ricorrenti tra la gendarmerie e gruppi di giovanissimi nelle banlieue parigine e di Bruxelles. O dei conflitti endemici che, negli Stati Uniti, vedono opposti giovani e giovanissimi ad una polizia che non va troppo per il sottile coi Neri.
Tutto questo per dire che la violenza a Napoli non esiste, o per cecare motivi di conforto in un consolante “tutto il mondo è paese”?
Non direi. E’ solo per cercare di capire meglio cosa è davvero questa violenza giovanile che sconvolge la nostra tranquillità e ci confronta con l’inferno di un modo nel quale bisogna guardarsi perfino dai bambini. Capire è fondamentale, sennò dovremo accontentarci degli angosciati (e sostanzialmente inutili) appelli perché qualcuno faccia qualcosa e salvi una città che non è capace di badare a se stessa. O degli editoriali non troppo in vena, che hanno riscoperto la “tolleranza zero”.
La “tolleranza zero” negli Stati Uniti si salda con la cifra di quasi 2,2 milioni di detenuti, tra carceri locali, statali, federali e private. Certo a New York si sono registrati, nel 2017, “solo” 285 omicidi, contro la media di oltre duemila della fine degli anni 1990. Ma si può dire che si è risolto il problema? Si è riusciti a rendere più tranquilla la passeggiata sulla 5th Avenue, che non è male ovviamente, si sono ripulite le strade (chissà per quanto), ma a prezzo della deportazione in carcere di oltre due milioni di persone. E sono quasi tutti neri, ispanici e bianchi poveri.
E’ terribile la violenza subita da Arturo, il diciassettenne ridotto quasi in fin di vita da una banda di ragazzini, come anche quella delle altre giovani vittime di atti insensati e crudeli. Ed è pieno di senso l’appello rivolto dalla madre alle altre madri, perché “parlino coi loro figli”, che in definitiva è un invito a farsi carico di una funzione educativa troppo spesso negletta dalle famiglie. Ma anche gli autori di questi gesti orrendi, gratuiti e sproporzionati, sono e si sentono vittime di una forma di violenza, di un’emarginazione sociale che produce rancore e senso di rivalsa.
Voglio giustificarli? Sto facendo del perdonismo? Non è mia intenzione. Vorrei invece dire che la questione è ancora più grave di quanto appaia a chi crede di poterla risolvere con più polizia, e magari con l’esercito. Io penso che ci sia oggi nel mondo una questione letteralmente esplosiva, ed è la questione giovanile.
Quando un ragazzino di origine araba si spinge fino al centro di Parigi, sa che verrà controllato ripetutamente dalla polizia perché ha la pelle olivastra. Non è solo razzismo, lo prevedono i protocolli stilati in base alle statistiche dei comportamenti criminali. Lo stesso circolo vizioso funziona negli Stati Uniti con i giovani Neri, anch’essi controllati più dei bianchi (e qualche volta uccisi). Poi ci sono i ragazzini delle periferie napoletane che, fin da piccoli, vengono svegliati in piena notte dai controlli della Polizia e fanno file interminabili davanti al portone di Poggioreale per visitare i familiari. Tutti questi bambini capiscono fin troppo bene di non appartenere al mondo bello e colorato che risplende in TV o nelle vie del centro. E questa estraneità trova continue conferme nelle esperienze frustranti di una scuola che spesso e volentieri li butta fuori e, adesso, pure nella minaccia di strapparli alla famiglia per allontanarli dalla cultura dell’illegalità. Tutto questo si traduce in rancore, il rancore in antagonismo. Ed è una novità assoluta (e preoccupante) rispetto ai caratteri della delinquenza classica, anche di quella mafiosa. Le mafie non sono mai state “antagoniste”, piuttosto fattori di controllo e di “governo” del territorio, magari in un rapporto di complicità coi Poteri costituiti. Oggi questi giovani rifiutano quel mondo che li esclude, lo sfidano con atti di teppismo. Che può diventare anche peggio, quando qualcuno decide di investirci sopra.
Quando a investire sono le reti legate all’Arabia Saudita o ai Fratelli Mussulmani, nascono i foreign fighter. Quando sono i cartelli della droga, ecco le gang del narcotraffico. Non per banalizzare questioni fin troppo complesse, ma sono convinto che, al di là delle evidentissime differenze, i due fenomeni abbiano molte somiglianze. I protagonisti, intanto: tutti giovani delle periferie emarginate che, nel jihad o nelle droghe, vedono l’unica occasione loro offerta per sottrarsi ad un destino segnato. Di povertà ed emarginazione certo, ma anche di oscurità assoluta in un mondo in cui bisogna brillare come le vedette della televisione. Un’occasione per essere qualcuno e anche, perché no, per diventare martiri e vivere in eterno, come Emanuele Sibillo che, morendo ammazzato, è diventato un altro San Gennaro.
Che fare? Non certo perdonare, non è una risposta. Come non lo è la “tolleranza zero”. C’è piuttosto un tessuto morale, civile e culturale da ricostruire, e non è poco. C’è bisogno di lavoro e sviluppo, e anche questo richiede tempo e fatica. Ma intanto potremmo cominciare a considerare il disagio dei giovani delle periferie come una malattia anche nostra. In ognuna di quelle coltellate inferte nella schiena del povero Arturo c’era un po’ della nostra inerzia, della nostra indifferenza, c’era l’assenza della politica e l’incapacità delle classi dirigenti. Sarebbe un buon inizio. E poi sforzarci di capire, senza accontentarci di spiegazioni facili. Perché la globalizzazione economica è diventata oggi anche la globalizzazione del rancore giovanile.