Contro-storia della Guerra Fredda
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Analisi, 24 settembre 2018 - Dall’Ucraina all’affaire Skripal, dalla Siria al Russiagate, l’attualità ci offre una razione quotidiana di quel che si può ben chiamare la nuova « guerra fredda ». Come ai bei vecchi tempi, il mondo si divide ancora tra buoni e cattivi, e siamo sommersi da una impressionante valanga di propaganda...
Oumma, 10 settembre 2018 (trad. ossin)
Contro-storia della Guerra Fredda
Bruno Guigue
Dall’Ucraina all’affaire Skripal, dalla Siria al Russiagate, l’attualità ci offre una razione quotidiana di quel che si può ben chiamare la nuova « guerra fredda ». Come ai bei vecchi tempi, il mondo si divide ancora tra buoni e cattivi, e siamo sommersi da una impressionante valanga di propaganda. Non è una novità. Per accreditare l’esistenza di una minaccia sovietica sospesa come una spada di Damocle sulle democrazie occidentali, si è detto, fino a tutti gli anni 1980, che l’arsenale militare dell’URSS era nettamente superiore a quello degli USA. Ebbene, è totalmente falso. « In tutto quel periodo, nota Noam Chomsky, sono stati fatti sforzi enormi per presentare l’Unione Sovietica come più forte di quanto non lo fosse realmente, e pronta a spazzare via tutto. Il documento più importante della guerra fredda, il NSC 68 dell’aprile 1950, cercava di nascondere le debolezze sovietiche che pure l’analisi rivelava, dando di essa un’immagine di Stato schiavista che perseguiva implacabilmente l’obiettivo del controllo assoluto sul mondo intero » (« L’anno 501, La conquista continua », EPO, 1994).
Questa minaccia sistemica era un’invenzione bella e buona. L’arsenale sovietico è stato sempre inferiore a quello degli avversari. I leader dell’URSS non si sono mai proposti di invadere l’Europa occidentale, e ancor meno di « conquistare il mondo ». Di fatto, la corsa agli armamenti – e soprattutto l’armamento nucleare – era di iniziativa tipicamente occidentale, una sorta di estensione al campo militare del dogma liberale della concorrenza economica. E’ per questo che siffatta competizione mortifera – che ci fece sfiorare l’apocalisse atomica almeno una volta, nell’ottobre 1962 – venne scientificamente alimentata da Washington già all’indomani della vittoria alleata contro la Germania e il Giappone. Cinicamente, il campo occidentale aveva due buone ragioni per provocare questa competizione: la guerra aveva estenuato l’URSS (27 milioni di morti, il 30% del potenziale economico annientato), e aveva invece fantasticamente arricchito gli USA (50% della produzione industriale mondiale nel 1945).
Forgiata dalla guerra, questa supremazia economica senza precedenti creava dunque le condizioni per una politica estera aggressiva. Bene inteso, questa politica aveva un rivestimento ideologico: la difesa del « mondo libero », della democrazia e dei diritti dell’uomo contro il « totalitarismo sovietico ». La serietà di tali motivazioni democratiche si può misurare alla luce del multiforme sostegno fornito da Washington, nello stesso periodo, alle dittature di destra più sanguinarie. Ma questa politica imperialista, conformemente alla dottrina elaborata da George Kennan nel 1947 (il contenimento del comunismo) aveva un obiettivo inconfessato: lo strangolamento dell’URSS – rudemente provata dall’invasione hitleriana – attraverso una competizione militare nella quale il sistema sovietico avrebbe dovuto dilapidare le risorse che avrebbe potuto invece destinare allo sviluppo. Bisogna constatare che una simile politica ha prodotto i suoi frutti, da Harry Truman (1945-1952) a George W. H. Bush (1988-1992).
Surclassata da un capitalismo occidentale che beneficiava di condizioni estremamente favorevoli all’indomani della Seconda Guerra Mondiale, l’Unione Sovietica ha dunque finito per crollare nel 1991, all’esito di una competizione persa in anticipo. Niente però sembra essere cambiato, e la guerra fredda, oggi, continua bellamente. Quasi trent’anni dopo il crollo dell’URSS, l’ostilità occidentale nei confronti della Russia non si affievolisce. « Da Stalin a Putin », una narrazione in cui la buona coscienza occidentale attribuisce tutti i difetti al campo avverso, demonizzando una potenza malefica la cui resilienza farebbe pesare una minaccia irresistibile sul mondo sedicente civilizzato. Come se le tensioni Est-Ovest dovessero assolutamente sopravvivere al potere comunista, ci si ostina a designare nella Russia attuale una sorta di nemico sistemico, con un impero del male sovietico solo opportunamente ridipinto coi colori russi.
Per le élite dirigenti occidentali, occorre credere che Mosca resta Mosca, e che la minaccia che viene dall’est resiste ai mutamenti politici. Comunismo o meno, l’agenda geopolitica del « mondo libero » resta irriducibilmente antirussa. In un certo senso, i russofobi di oggi la pensano come il generale de Gaulle, che intravvedeva la permanenza della nazione russa sotto la vernice sovietica. Ma gli ossessionati dall’orso moscovita ne tirano conclusioni diametralmente opposte. Visionario, attaccatissimo all’idea nazionale, il fondatore della Quinta Repubblica trovava in questa continuità una buona ragione per continuare il dialogo con Mosca. I russofobi contemporanei, invece, la considerano una ragione di scontro senza fine. De Gaulle voleva superare la logica dei blocchi attenuando le tensioni con la Russia, mentre i russofobi di oggi alimentano queste tensioni per consolidare intorno all’odio per la Russia il blocco occidentale.
Il discorso dominante in Occidente durante la prima « guerra fredda » (1945-1990) attribuiva la responsabilità del conflitto all’espansionismo sovietico e all’ideologia comunista. Ma se la guerra fredda continua oggi, questa è la prova di quanto quel discorso fosse menzognero. Se responsabile della guerra fredda fosse stato il comunismo, il crollo del sistema sovietico avrebbe dovuto porre termine a questo scontro, e il mondo avrebbe dovuto archiviare un conflitto le cui cause venivano attribuite – a torto – all’incompatibilità tra i due sistemi. Ebbene non significa niente. La Russia non è più comunista, e l’Occidente reso vassallo di Washington continua comunque ad accusarla dei peggiori orrori, espelle i suoi diplomatici con vari pretesti, le infligge sanzioni economiche, esercita una pressione militare alle sue frontiere, bombarda i suoi alleati in Medio Oriente, e gli attribuisce il potere machiavellico di fare eleggere un candidato di suo gradimento alla Casa Bianca.
Questa rinascita dell’isteria anti-moscovita è tanto più significativa, se si tenga conto che viene dopo un decennio, gli anni 90, caratterizzati da toni geopolitici assai differenti. Ma questa epoca è passata. Finito il tempo in cui la Russia in disfacimento di Boris Eltsin (1991-2000) godeva dal favore del « mondo libero ». Sottoposta alla « terapia d’urto » liberale, si era collocata nell’orbita occidentale. La speranza di vita della popolazione si era abbassata di dieci anni, ma questo dettaglio poco importava. La Russia entrava a far parte del mondo meraviglioso dell’economia di mercato e della democrazia occidentale. Il suo gruppo dirigente riceveva i dividendi di una resa che le aveva meritato l’adozione da parte dell’Occidente. Sfortunatamente per quest’ultimo, questa luna di miele terminò all’inizio degli anni 2000. Perché la Russia ha rialzato la testa. Con Vladimir Putin, ha recuperato la sua sovranità e difeso i suoi interessi nazionali. Torcendo il collo agli « oligarchi », ha ripreso il controllo dei settori-chiave della sua economia – soprattutto nel campo energetico – oggetto dell’avido interesse dei pescecani della finanza globalizzata.
Questa inattesa rinascita ha provocato l’indignazione dell’Occidente. Finita la parentesi provvidenziale – dal punto di vista occidentale – dell’era Eltsin, il contenimento del comunismo ha ripreso servizio sotto forma di una demonizzazione frenetica della Russia. Finché era stata fedele agli Occidentali, la Russia debilitata degli anni 90 non faceva loro ombra : aveva ripristinato il sistema giuridico delle nazioni che guardano molto saggiamente alla bandiera a stelle e strisce. Ma quando si è emancipata da questa tutela, la Russia rinsavita di Vladimir Putin ha suscitato un insolito astio. Come al tempo della guerra fredda, ci si è messi ad accusare Mosca di tutti i mali. Un’interminabile litania ha invaso i media del « mondo libero ». Minaccia sistemica per il mondo occidentale, pericolo mortale per i suoi interessi, fermento corrosivo per i suoi valori, sostanza grezza capace solo di capire il linguaggio della forza, Stato canaglia impermeabile al codice di condotta delle nazioni civili: insomma il repertorio in tutte le sue sfumature.
Questo discorso bellicista, un concentrato di tutti i cliché russofobi, purtroppo non è stato solo un discorso. Sono seguite le azioni. Da quindici anni gli USA organizzano deliberatamente lo scontro globale con Mosca che ha due caratteristiche: nessun presidente USA vi si è sottratto, ed esso si sviluppa su tre fronti principali. Complesso militare-industriale oblige, è prima di tutto sul terreno della corsa agli armamenti che Washington ha aperto le ostilità. Nel 1947, gli USA volevano « contenere » il comunismo stringendo intorno all’URSS una rete di alleanze militari sedicenti difensive (NATO, OTASE, Patto di Bagdad). Dagli anni 90, l’URSS non esiste più. Però la politica statunitense è sempre la stessa, e l’alleanza atlantica sopravvive miracolosamente alla minaccia che avrebbe dovuto scongiurare. Peggio, Washington allarga unilateralmente la NATO fino alle frontiere della Russia, violando l’impegno preso con Gorbaciov che accettò la riunificazione della Germania in cambio della promessa che l’alleanza atlantica non sarebbe stata estesa alla ex area sovietica.
Questa offensiva geopolitica della NATO aveva evidentemente un corollario militare. Che fu dapprima l’istallazione nei nuovi Stati membri di uno scudo antimissile statunitense. Impensabile ai tempi dell’URSS, questo dispositivo espone Mosca alla minaccia di un primo attacco e rende inutile qualsiasi accordo di disarmo nucleare. Poi si manifestò con un crescente numero di manovre militari congiunte alle frontiere occidentali della Federazione di Russia, dal Baltico al Mar Nero. Senza dimenticare, ovviamente, lo sfondo di questa dimostrazione di forza: una colossale spesa USA per armamenti, che rappresenta – da sola – la metà delle spese militari mondiali, superando nel 2018 i 700 miliardi di dollari. In costante aumento, essa equivale a 9 volte quella della Russia (13 volte, se si tiene conto del budget militare della NATO). En passant, va evidenziato che la maggior parte delle nuove spese è rivolta al potenziamento della capacità di attacco e non ha alcun carattere difensivo, in conformità con la dottrina dell’ « attacco preventivo » sostenuta dai neoconservatori dal 2002. In questo ambito non c’è nulla che fermi la costante progressione di spesa, e Donald Trump ha annunciato, nel luglio 2018, che avrebbe istituito una « forza spaziale » distinta dall’US Air Force, per evitare che possano essere i Russi e Cinesi a dominare questo nuovo teatro di operazioni.
Dopo la corsa agli armamenti, il secondo fronte aperto dagli USA e dai loro vassalli contro Mosca è stata la destabilizzazione dei paesi confinanti. Fomentando un colpo di Stato in Ucraina (febbraio 2014), intendevano allontanare questo paese dal suo potente vicino per isolare ancor più la Russia, mentre imperversavano le « rivoluzioni colorate » in Europa orientale e nel Caucaso. Dal 2014, l’Ucraina è quindi in preda ad una gravissima crisi interna. Il colpo di Stato ha portato al potere una cricca di ultra nazionalisti che ha umiliato la popolazione russofona delle regioni orientali. Questa deliberata provocazione delle autorità usurpatrici di Kiev, sostenute da gruppi neonazisti, ha spinto i patrioti del Donbass alla resistenza e alla secessione. Ma nessun carro armato russo è entrato in territorio ucraino, e Mosca ha sempre privilegiato una soluzione negoziata di tipo federale. La NATO stigmatizza e sanziona la Russia per la sua politica ucraina, laddove il solo esercito che ammazza degli Ucraini è quello di Kiev, pure portato in palmo di mano dalle potenze occidentali. In questo spazio di confine, è chiaro che è l’Occidente a sfidare oltraggiosamente la Russia alle sue frontiere, e non l’inverso. Che cosa si direbbe a Washington se Mosca effettuasse manovre militari congiunte col Messico e il Canada, e promovesse apertamente la destabilizzazione dell’America del Nord?
Dopo la corsa agli armamenti e la destabilizzazione del paesi confinanti, è sul terreno siriano che Washington ha iniziato a contrastare Mosca. Il progetto di destabilizzazione del Medio Oriente rimonta in realtà all’inizio degli anni 2000. Ex comandante in capo delle forze USA in Europa, il generale Wesley Clark ha rivelato il contenuto di un memo classificato del Pentagono, proveniente dall’ufficio del Segretario alla Difesa Donald Rumsfeld : « Diceva che avremmo attaccato e distrutto i governi di sette paesi in cinque anni: avremmo cominciato con l’Iraq, poi saremmo andati in Siria, Libano, Libia, Somalia, Sudan e, infine, in Iran ». Clark rivela anche il vero obiettivo dei neoconservatori del Pentagono: « Volevano che destabilizzassimo il Medio Oriente, per rivoltarlo come un calzino e farlo finalmente cadere sotto il nostro controllo. » (citato da F. William Engdahl, « Le charme discret du djihad », Demilune, 2018) Questa strategia segreta mirava – come ancora oggi – a spezzettare il Medio Oriente in una miriade di entità etniche e religiose rivali, deboli e manipolabili a volontà.
Ebbene la realizzazione di questo programma comporta la distruzione o lo smembramento degli Stati sovrani della regione, e soprattutto quelli che persistono a non volersi allineare con l’asse Washington-Tel Aviv. Il tentativo di annientamento dello Stato laico siriano, principale alleato arabo dell’URSS, poi della Russia, è l’ultima faccia di questa strategia, della quale l’Afghanistan, l’Iraq, il Sudan, la Libia e lo Yemen hanno subito le conseguenze – e continuano ancora oggi a subirle. Per realizzare i suoi scopi, l’impero del caos ha organizzato una violenza generalizzata che si proponeva di destabilizzare gli Stati recalcitranti – come la Siria – preoccupandosi di fornire il pretesto per un suo intervento militare – diretto o indiretto – con la scusa di sradicarvi il terrorismo. Insomma la strategia dei « neocon » mirava ad alimentare il terrore mentre diceva di combatterlo, con Washington che doveva trarre profitto si entrambi i tavoli, in quanto ogni crescita del terrorismo avrebbe giustificato l’intervento armato degli USA, e ogni sconfitta del terrorismo avrebbe accreditato la fermezza di questi ultimi nei confronti delle forze malefiche.
Questo straordinario gioco di prestigio strategico ebbe il suo banco di prova nell’organizzazione del « jihad » antisovietico in Afghanistan fin dalla fine degli anni 70. Consigliere per la sicurezza nazionale di Jimmy Carter, Zbigniew Brzezinski organizzò il reclutamento di jihadisti provenienti da tutto il mondo, e li fece trasportare illegalmente fino all’Afghanistan attraverso il Pakistan. L’obiettivo confessato di questa manovra era di creare un « Vietnam sovietico ». Washington fece montare la tensione all’interno dell’Afghanistan per forzare l’URSS a reagire, intervenendo a sostegno del governo filocomunista di Kabul. Di origine aristocratiche polacche, Brzezinski era ossessionato dall’Unione Sovietica. Teorizzò la strategia statunitense consistente nella destabilizzazione della « cintura verde » (musulmana) che contorna il fianco sud della Russia. Ai suoi occhi i jihadisti, ribattezzati « combattenti per la libertà », erano reclute di prima scelta per una « guerra santa » contro il comunismo ateo. Mosca cadde nella trappola tesale da Washington, e la cosa le costò assai cara. Per attuare la destabilizzazione del governo afghano, gli strateghi della CIA si affidarono alla potenza finanziaria saudita, che versò somme faraoniche alle bande armate. Infine la logistica del jihad antisovietico vide anche la partecipazione di Osama Bin Laden, la cui organizzazione fornì un canale di reclutamento per i combattenti provenienti da tutto il mondo musulmano. Fin dall’inizio degli anni 1980, era dunque già operativo il dispositivo terrorista che presto assumerà il nome di Al Qaeda, coordinato e sponsorizzato dall’asse Washington-Riyad.
In realtà la « guerra fredda » non è mai finita. Corsa frenetica agli armamenti, destabilizzazione dei paesi confinanti e caos organizzato nella « cintura verde » che costeggia il fianco sud della Russia sono i tre fronti aperti dagli strateghi di Washington, dagli anni 2000, per rilanciare lo scontro Est-Ovest. Questa impresa egemonica è un’opera di ampio respiro che prolunga la strategia di contenimento delineata da George Kennan fin dal 1947. Questa tensione serve a giustificare spese militari delle quali il presidente Eisenhower non aveva nemmeno idea quando allertò l’opinione pubblica statunitense sui pericoli del « complesso militar-industriale ». Aggrappati al loro sogno di egemonia planetaria, gli USA compensano oggi con un attivismo a tutto campo il declino della loro economia e il crollo del loro modello di società. Sostenuto dall’alleanza russo-cinese e russo-iraniana, la resistenza vittoriosa della Siria è riuscita a impartire una lezione ai bellicisti di Washington. Gli USA si vantano di aver vinto la prima guerra fredda. Che vincano anche la seconda è poco probabile. Come la precedente, l’hanno cominciata per imporre al resto del mondo il modello liberale – o preteso tale – che ha loro garantito dal 1945 un accesso privilegiato alle materie prime e ai mercati mondiali. Ma i successi economici della Cina e la rinascita politica della Russia sono sassi monumentali gettati nello stagno di questa egemonia declinante. E le litanie sulla « democrazia » e i « diritti dell’uomo » finiranno presto per stancare tutti coloro che si rendono conto di quale uso ne facciano i « Dottor Stranamore » di Washington.