In ricordo del procuratore Borrelli
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Intervento, 23 luglio 2019 - Un ricordo commosso, e anche molto personale, di un uomo serio che, per senso del dovere, si è infilato nelle terribili contraddizioni di una vicenda oltremodo complicata (nella foto, Francesco Saverio Borrelli)
Corriere del Mezzogiorno, 23 luglio 2019
In ricordo del Procuratore Borrelli
Nicola Quatrano
Sabato scorso è morto Francesco Saverio Borrelli, per tutta la vita un milanese ma di nascita napoletano, di quella bella razza di napoletani colti e gentili che per fortuna ancora sopravvive. Il suo rapporto con la città si era però col tempo ridotto a vaga nostalgia, più della giovinezza probabilmente che della città. Da molto tempo credo non venisse più, le ultime volte sono state di passaggio, in estate, per andare a trovare Gerardo D’Ambrosio nella sua casa di Acciaroli.
La sua figura resterà per sempre inchiodata all’epopea di Mani Pulite. Al contributo profondo dato alla demolizione della Prima Repubblica, e di una classe dirigente che, attribuendo alla Magistratura italiana prerogative del tutto originali, aveva — parafrasando Marx — praticamente costruito da se stessa il proprio becchino. E la distruzione fu davvero totale, col sale sparso sulle rovine perché non crescesse un solo filo d’erba. Ne conseguì un discredito totale delle istituzioni, che gettò i primi semi di quello che oggi chiamiamo populismo.
Ma l’uomo non era affatto un populista, né un rancoroso moralista militante. Di lui ci mancherà soprattutto l’intelligenza e la lezione morale di essersi infilato, per senso del dovere, nelle contraddizioni di un momento storico del tutto particolare. Nel quale ha svolto un ruolo politico innegabile, anche se la sua cultura e la sua formazione erano quelle del magistrato «integrale», perfino integralista.
Quando il pool di Milano elaborò una proposta di legge per combattere la corruzione, tutta imperniata su generosi sconti di pena per i «pentiti», ebbi occasione di dirgli che non ero d’accordo, che avrei visto meglio una soluzione come quella sudafricana di Nelson Mandela, «l’immunità in cambio della verità». Sostenni che non serviva a niente mettere tutti in galera, che ci serviva piuttosto di conoscere che cosa era veramente stata la storia italiana e il suo intreccio tra economia, poteri criminali, politica, magistratura stessa. E questa Verità ci era talmente indispensabile che poteva ben valere l’immunità. «Guardiamoci negli occhi — dissi — capiamo che paese siamo. È la premessa indispensabile per poter diventare un paese diverso».
Lui comprese, ma gli suonava strano. Rispose, da magistrato, che un magistrato deve limitarsi a suggerire strumenti processuali idonei a combattere il fenomeno. «Tutto il resto — concluse — è compito della politica». Peccato che la politica era sparita e che lui stesso si sia poi trasformato in capo politico con quel «Resistere Resistere Resistere», dietro cui si schierarono in tanti, non tutti nobilissimi.
Non so cosa pensasse Borrelli nella malinconia degli ultimi tempi, né cosa pensasse della «nuova magistratura», formatasi nel mito del suo pool. Ma la passione per il «Lohengrin» gli dava certo dimestichezza col dubbio. E Il fatto che fosse un magistrato integrale, il fatto che una delle sue gioie più grandi sia stata quella di essere assegnato al ruolo di Procuratore Generale della Corte d’Appello di Milano che era stata anche di suo padre, mi fa pensare che il suo giudizio non sia stato tenero. Di certo era consapevole che la stagione di cui era stato protagonista aveva portato ad un’abnorme presenza della magistratura nella vita del paese e biasimava che la sua rivendicazione di «non guardare in faccia a nessuno» si fosse drammaticamente trasformata nella pratica di dispensare anni e anni di galera senza troppo preoccuparsi di accertare la colpevolezza.
Deve essere stato amaro per un magistrato che confessava di essersi sentito «intimamente terrorizzato» alla sua prima condanna. Certamente non è un caso se, come ha ricordato Luigi Ferrarella, negli ultimi anni sia stato ossessionato da quello che era stato l’insegnamento trasmessogli dal padre: «Un giudice dovrebbe, impegnandovi l’intera sua esistenza, studiare una causa sola. E dopo 30 anni concluderla con una dichiarazione di incompetenza».