Referendum sulla valutazione dei magistrati
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Intervento, 4 settembre 2021 - Il quesito numero 3 del referendum sulla giustizia chiama i cittadini a votare Sì per cambiare l’attuale sistema di valutazione dei magistrati. Se vincesse il Sì anche avvocati e professori potrebbero esprimere pareri sul loro operato. Una intervista a Nicola Quatrano (nella foto)
Il Riformnista, 28 agosto 2021
Intervista a Nicola Quatrano
Referendum sulla valutazione dei magistrati
Francesca Sabella
“Volete voi che sia abrogato il Decreto Legislativo 27 gennaio 2006, n. 25 (Istituzione del Consiglio direttivo della Corte di cassazione e nuova disciplina dei Consigli giudiziari, a norma dell’articolo 1, comma 1, lettera c) della legge 25 luglio 2005 n. 150), risultante dalle modificazioni e integrazioni successivamente apportate, limitatamente alle seguenti parti: art. 8, comma 1, limitatamente alle parole “esclusivamente” e “relative all’esercizio delle competenze di cui all’articolo 7, comma 1, lettere a)”; art. 16, comma 1, limitatamente alle parole: “esclusivamente” e “relative all’esercizio delle competenze di cui all’articolo 15, comma 1, lettere a), d) ed e)”?”.
Il quesito numero 3 del referendum sulla giustizia chiama i cittadini a votare Sì per cambiare l’attuale sistema di valutazione dei magistrati. Sistema assai curioso e che è così articolato: la professionalità di un magistrato oggi viene valutata solo da altri magistrati, ma se vincesse il Sì anche avvocati e professori potrebbero esprimere pareri sul loro operato. I magistrati, infatti, difficilmente diranno qualcosa di negativo su un collega, insomma canis canem non est dicevano i latini, ovvero cane non mangia cane. E così le valutazioni negative si contano sulle dita di una mano, quelle che abbondano invece recitano più o meno tutte la stessa cosa “lavoro eccellente” o “molto buono”, mai uno che abbia lavorato semplicemente “bene” o “male”. Eresia. Ora, la domanda sorge spontanea: godono tutti del dono dell’infallibilità oppure c’è qualcosa nel sistema delle valutazioni che non funziona? Risponde alla domanda Nicola Quatrano, avvocato con alle spalle una lunga carriera da magistrato, ruolo che lo ha visto protagonista di numerosi processi entrati a far parte della storia giudiziaria del nostro Paese.
In che modo avviene oggi la valutazione dei magistrati?
La cultura del magistrato è autoreferenziale, e ciò anche perché nella valutazione di professionalità non si attribuisce alcuna importanza ai risultati del suo lavoro. Non troverete mai, ad esempio, nella valutazione di un PM alcuna menzione del numero di persone inquisite o arrestate che sono poi state assolte con formula piena. Molto spazio invece alle “complesse e delicate indagini”, che hanno portato all’arresto di un rilevante numero di soggetti accusati di “crimini gravissimi”. E poi? Che esito hanno avuto i processi? Nessuno se ne preoccupa.
Si privilegiano quindi i numeri piuttosto che la qualità del “prodotto”, e non si fa alcuna differenza tra un magistrato scrupoloso e attento e un altro che magari sbaglia frequentemente o prende decisioni affrettate e irresponsabili.
Ma questo è ancora niente, perché il problema di gran lunga maggiore è che la valutazione del magistrato è affidata esclusivamente ad altri magistrati. La “pratica” si compone infatti di un’autorelazione, un documento nel quale il candidato ha modo di esaltare il suoi molti meriti, senza fare menzione dei demeriti, dal “parere” del capo dell’Ufficio e da quello del Consiglio Giudiziario (i cui pochissimi componenti laici, quando ci sono, non possono interloquire), fino alla decisione del CSM, composto in stragrande maggioranza da magistrati.
Quali sono le conseguenze dell’attuale sistema di valutazione?
Il primo è che il “punto di vista” che li ispira è esclusivamente quello dei magistrati, che sono sempre assai indulgenti con se stessi (mentre si dimostrano esigentissimi con tutti gli altri) e non prestano alcuna attenzione alla qualità del loro lavoro e ai risultati. Il secondo è che la comunità dei magistrati è assai piccola, e tutti si conoscono. Difficilmente si è disposti ad esprimere un parere negativo su qualcuno con cui si lavora quotidianamente, che magari è stato collega di concorso, o è un amico. Sono stato quasi 40 anni in magistratura e ricordo la battuta frequente secondo cui, in simili pareri, quando si vuole parlar male di qualcuno, si definisce il suo lavoro come “molto buono”, piuttosto che “eccellente”.
Il terzo, e più grave, è che una valutazione affidata esclusivamente ai magistrati è il campo d’azione ideale per quelle combine correntizie oggi note come “sistema Palamara”, ma che ci sono sempre state e continueranno ad esserci, se la legge non cambierà.
Cosa propone il quesito?
Il quesito vuole rendere piena la partecipazione dei componenti laici ai lavori dei Consigli giudiziari e del Comitato direttivo della Corte di cassazione, estendendola anche alla formulazione dei pareri sulle valutazioni di professionalità dei magistrati, oggi riservata solo ai togati.
Attualmente, il disegno di legge delega del Ministro Bonafede prevede il diritto dei componenti laici solo ad “assistere”, senza possibilità di voto. E già questo diritto di “ascoltare senza interloquire”, riconosciuto allo sparuto gruppo di laici presenti nei Consigli Giudiziari, è stato una conquista difficilissima, che ha dovuto superare fortissime ostilità da parte dell’omertosa categoria dei magistrati, gelosissima dell’opacità che avvolge le proprie decisioni.
Cosa cambierebbe con la vittoria del Sì?
Il referendum vuole appunto attribuire ai componenti laici dei Consigli Giudiziari e del Consiglio Direttivo della Corte di Cassazione gli stessi diritti dei togati, consentendo anche a loro di interloquire, esprimere pareri e votare sulla valutazione di professionalità dei magistrati. Niente di rivoluzionario, giacché sarebbe impossibile per lo sparutissimo gruppo di laici ribaltare la volontà della stragrande maggioranza di togati, ma può contribuire a limitare i giochetti di corrente, oggi favoriti dall’opacità che avvolge simili decisioni.
Qualcuno ha motivato il “No” sostenendo che dare voce in capitolo anche ai componenti laici minerebbe la serenità del candidato
Sì, questa è la principale obiezione. Il magistrato Nello Rossi, tra gli altri, si dice preoccupato del fatto che la partecipazione al voto anche di avvocati (in realtà uno solo) che esercitano la professione nello stesso distretto potrebbe privare il candidato della “necessaria serenità”. Io direi che, se questa “serenità” significa la certezza di ottenere una valutazione positiva anche se non meritata, essa mi sembra tutt’altro che “necessaria”. In realtà penso che la magistratura soprattutto non sopporti di dover rendere conto del suo operato. Che dire, non c’è abituata. Considera la giurisdizione come “cosa sua” e non riesce a capacitarsi che si tratta di un “servizio” di cui dover rendere conto alla collettività.
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