Ritorno alle origini
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Gli economisti neoclassici riconoscono i limiti delle politiche dominanti, la Banca Mondiale finanzia workshops e studi per svelare il "mistero della crescita", ma giungono a risultati piuttosto deludenti.
La Commissione della crescita economica ha dichiarato che il programma ortodosso di stabilizzazione e liberalizzazione può anche rivelarsi controproduttivo in termini di crescita.
Le discussioni tra economisti circa la crescita economica sono tornate di moda. Ironicamente ciò accade proprio in una fase di frenata della crescita economica e di stagflazione.
Il sistema in cui generare crescita economica non sembrava essere un problema interessante già a partire dalla metà degli anni '80. Il punto non era la crescita “per se”, bensì la stabilizzazione e l'efficienza. Gli economisti neoclassici ed i politici da loro influenzati, presero per assodato che la crescita veniva dalla deregolamentazione dei mercati. La crescita veniva delegata al mercato, libero dalla “mano morta” dello stato, che avrebbe garantito un'espansione economica efficiente e dinamica.
Anche il dibattito circa la globalizzazione, sebbene non proprio “free”, si ridusse alla discussione circa nuove prospettive per le multinazionali e le nuove relazioni contrattuali con i lavoratori e i contadini.
Ma la realtà è stata crudele, i paesi che hanno abbracciato questi principi non hanno visto materializzarsi la crescita mentre i paesi che hanno adottato un approccio eterodosso e misto hanno ottenuto particolari successi. Gli economisti, senza troppo entusiasmo, hanno dovuto cominciare ad interrogarsi sulla giustezza delle proprie teorie. Adesso tornano in auge una serie di teorie di sviluppo economico che erano state emarginate.
Nel 2005, la Banca Mondiale, la colonna portante del neoliberismo, ha pubblicato un libro intitolato:”La crescita economica negli anni '90: Imparare da un decennio di riforme”. Un gruppo di economisti della Banca Mondiale ha esaminato i modelli di sviluppo e scoperto ciò che molti altri già sapevano e che affermavano da tempo:
- E' un'ingenuità credere che solo attraverso la riduzione delle tariffe e della liberelizzazione finanziaria aumenti la crescita.
- Stabilizzazione e gestione macroeconomica devo essere orientate verso lo sviluppo
- I governi devo essere responsabilizzati non deresponsabilizzati
- I governi dovrebbero abbandonare la politica basata sulle formule teoriche
Ci dobbiamo rallegrare che alcuni economisti della Banca Mondiale abbiano finalmente capito ciò, gli diamo il benvenuto nel mondo reale. Tuttavia non possiamo dimenticare le indicibili sofferenze inflitte ai popoli del mondo dalle politiche neoliberiste.
Nulla può mitigare queste scelte politiche nefaste prese non solo dalla Banca Mondiale ma dal “Consensus” tutto nei confronti dei paesi in via di sviluppo. Queste politiche hanno creato modelli di produzione e specializzazione che hanno distrutto i mezzi di sussistenza senza generare però posti di lavoro, non permettevano investimenti pubblici nelle infrastrutture e riducevano l'accesso dei poveri ai servizi di base, inclusi cibo, sanità e educazione. Questa tendenza richiede tempo per essere cambiata. L'idea della Banca Mondiale di pubblicare un libro che di fatto chiede scusa è piuttosto oltraggiosa.
L'ultimo regalo delle comunità economica internazionale è il report della Commissione della Crescita e dello Sviluppo. Questa Commissione, presso la Banca Mondiale, era composta da 21 leaders ed esperti ed era presieduta dal Premio Nobel Michael Spence. Accoglieva anche Montek Singh Ahluwahlia, Presidendete della Commissione di Pianificazione indiana. Con un budget di 4$ milioni, per più di due anni, ha organizzato workshops e meetings e ha consultato circa 200 economisti e commissionato 80 ricerche per svelare il “mistero della crescita”.
Sembra che la Commissione non abbia detto nulla di più di ciò che già sapesse un laureando in economia. Ma soprattutto il report sostituisce il fondamentalismo mercatista con un accettazione di ignoranza. Identifica 13 paesi con alta crescita per più di 25 anni: Botswana, Brasile, Cina, Hong Kong, Indonesia, Giappone, Corea del Sud, Malesia, Malta, Oman, Singapore, Taiwan e Thailandia. Sulla base di queste “success stories” ha cercato di trarne alcuni tratti comuni:
- investimenti non inferiori al 25% del PIL, finanziati soprattutto dai risparmi domestici e incluso un investimento 5-7% nelle infrastrutture;
- spesa per l'educazione il training e la salute da parte del settore pubblico e privato intorno al 7-8%;
- presenza di trafserimento tecnologico, opportunità di commercio e entrata di Investimenti Diretti Esteri;
- riconoscimento della competizione e del cambiamento strutturale e dell'urbanizzazione;
- mercato del lavoro competitivo (almeno al margine);
- riconoscimento della protezione ambientale come fattore di sviluppo e
- uguaglianza di opportunità in particolare per le donne.
Il report fornisce anche una lista di politiche da evitare:
- sovvenzionare il settore energetico;
- utilizzare l'apparato statale come strumento per assorbire la forza lavoro;
- ridurre il deficit fiscale tagliando la spesa sulle infrastrutture;
- fornire protezione ad alcuni settori;
- usare il controllo dei prezzi come strumento per controllare l'inflazione,
- frenare le esportazioni per mantenere i prezzi interni bassi;
- sottovalutare l'investimento nelle infrastrutture urbane;
- pagare bassi salari ai funzionari statali;
- lasciare che il tasso di cambio si rivaluti troppo e troppo velocemente.
Ma queste indicazioni sono semplicistiche e generalizzanti. L'idea che la crescita possa generare condizioni economiche migliori per la maggioranza della popolazione è da mettere in discussione.
L'esempio più evidente è quello del paese africano del Botswana che a tassi sostenuti di crescita ha visto tassi di povertà persistenti (più della metà della popolazione), ha visto cadere l'aspettativa di vita e il reddito assottigliarsi.
Ma se anche volessimo accettare per buona la tesi dello sviluppo, le ricette elencate potrebbero essere messe in discussione e potrebbero essere forniti esempi che provano il contrario di quanto afferma la Commissione. In ogni caso anche il report riconosce che non esiste una formula applicabile per ogni paese.
Per esempio la protezione ambientale è senza dubbio un ottimo punto, ma nessuno dei paesi elencati l'ha mai rispettato. Bisogna anche dire che le politiche “da evitare” sono invece state adottate da alcuni di qeui paesi che hanno raggiunto lo sviluppo e che invece alcune politiche “raccomanadabili” sono state seguite a da alcuni paesi (Zambia, Bolivia, Nicaragua, Ghana), ma senza successo.
Bisognerebbe anche svelare cosa non dice la Commissione, il che significa una presa d'atto della realtà. Non si parla di liberalizzazione finanziaria come necessaria condizione di crescita. Non c'è nemmeno una raccomandazione in favore della liberalizzazione del commercio e degli investimenti, viceversa le opprtunità di commercio devono essere sottoposte a controlli, stile Cina.
Il silenzio della Commissione circa le ricette della Washigton Consensus si rivelano in realtà determinanti per capire lo spirito di questo report che riconosce le politiche, un tempo, definite “insostituibili”, come dannose.
A qualcuno tutto ciò potrebbe sembrare ovvio, ma non bisogna dimenticare che questo report è stato redatto da economisti tradizionali che, fino a qualche anno fa, non avrebbero mai voluto attaccare il modello di sviluppo dominante.
JAYATI GHOSH
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