Fanon: I dannati della terra
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Analisi, 2 giugno 2008 - I dannati della terra è l'ultimo libro di Frantz Fanon (nella foto), pubblicato pochi giorni prima della sua morte dalle Éditions Maspero nel 1961 e tradotto in 15 lingue. È diventato il punto di riferimento per i movimenti anticoloniali africani. Sotto, l'introduzione...
Frantz Fanon – Perché il Terzo mondo non deve imitare l’Europa
da “I dannati della terra”, Torino, 2007
Forza, compagni, è meglio decidere fin da subito che è venuta l’ora di cambiare. dobbiamo scrollarci di dosso la grande notte nella quale siamo stati scaraventati, e venirne fuori. Il nuovo giorno che sta sorgendo ci deve trovare saldi, preparati e risoluti.
Dobbiamo lasciare alle spalle i nostri sogni, abbandonare le vecchie certezze e le amicizie di prima della vita. Non perdiamo tempo in sterili litanie o in trasformismi nauseanti. Dimentichiamoci di questa Europa che non ha mai smesso di parlare dell’uomo mentre lo massacrava dovunque lo incontrasse, a ogni angolo di strada, a ogni angolo del mondo.
Ecco che per secoli l’Europa ha bloccato il progresso degli altri uomini e li ha asserviti ai suoi disegni e alla sua gloria; secoli nei quali in nome di una pretesa “avventura spirituale” ha soffocato quasi tutta l’umanità. Guardatela oggi questa Europa, in precario equilibrio tra la disintegrazione atomica e la disintegrazione spirituale.
Eppure a casa sua si può dire che è riuscita a fare tutto sul piano delle realizzazioni.
L’Europa ha assunto la direzione del mondo con ardore, cinismo e violenza. E guardate quanto l’ombra dei suoi monumenti si allunga e si moltiplica. Ogni movimento dell’Europa ha forzato i limiti dello spazio e del pensiero. L’Europa ha negato ogni umiltà, ogni modestia, ma così si è negata a ogni premura, a ogni tenerezza.
Si è mostrata parsimoniosa solo con l’uomo, meschina, carnivora omicida solo con l’uomo.
Allora, fratelli, come si fa a non capire che abbiamo di meglio da fare piuttosto che seguire questa Europa.
Questa Europa che non smette mai di parlare dell’uomo, mai di proclamare che la sua sola preoccupazione è l’uomo, ora sappiamo quali sofferenze l’umanità ha pagato per ogni vittoria del suo spirito.
Forza, compagni, il gioco europeo è definitivamente finito, bisogna trovare dell’altro. Oggi possiamo fare qualsiasi cosa, a condizione di non scimmiottare l’Europa, a condizione di non farci ossessionare dal desiderio di raggiungere l’Europa.
L’Europa ha acquistato una velocità così folle e disordinata da sfuggire a ogni guida, a ogni razionalità, da precipitarsi in una vertigine spaventosa verso abissi dai quali sarebbe molto meglio allontanarsi il più presto possibile.
E tuttavia è anche vero che a noi occorre un modello, degli schemi, degli esempi. Per molti di noi il modello europeo è il più esaltante. Ora, noi abbiamo visto nelle pagine precedenti a quali inconvenienti ci espone una tale imitazione. Le realizzazioni europee, la tecnica europea, lo stile europeo devono smettere di tentarci e confonderci.
Quando, nella tecnica e nello stile europeo, io cerco l’uomo, riesco solo a vedere una successione di negazioni dell’uomo, una valanga di uccisioni.
La condizione umana, i progetti, la collaborazione tra gli uomini nell’impegno di creare l’uomo totale sono problemi nuovi che richiedono vere e proprie invenzioni.
Decidiamoci a non imitare l’Europa e tendiamo i nostri muscoli e cervelli verso una direzione nuova. Impegnamoci a inventare l’uomo totale che l’Europa non è stata capace di fare trionfare.
Da due secoli, una antica colonia europea si è posta l’obiettivo di raggiungere l’Europa. C’è riuscita così bene che oggi gli Stati Uniti d’America sono diventati un mostro nel quale le tare, le malattie e l’inumanità dell’Europa hanno assunto dimensioni spaventose.
Compagni, non abbiamo niente di meglio da fare se non creare una terza Europa? L’Occidente ha voluto essere un’avventura dello Spirito. E’ in nome dello Spirito, dello spirito europeo s’intende, che l’Europa ha giustificato i suoi crimini e legittimato la schiavitù nella quale mantiene i quattro quinti dell’umanità.
Certo, lo spirito europeo ha ben singolari fondamenta. Tutta la riflessione europea si è svolta in luoghi sempre più desertici, in luoghi sempre più ripidi. E’ così che si perde l’abitudine di incontrare l’uomo.
Un dialogo continuo con se stesso, un narcisismo sempre più osceno non hanno cessato di preparare il terreno a una specie di delirio nel quale il travaglio celebrale diventa una sofferenza; le realtà dello spirito europeo non erano quelle dell’uomo vivo, che lavora, che si costruisce, ma solo parole, parole diverse assemblate, tensioni nate dai significati contenuti nelle parole. E tuttavia qualche europeo ha tentato di convincere i lavoratori a spegnere questo narcisismo, a rompere con questo travisamento della realtà.
In linea generale i lavoratori europei non hanno risposto a questo appello. Perché i lavoratori hanno creduto essi stessi di essere partecipi dell’avventura prodigiosa dello Spirito europeo.
Tutti gli elementi per una soluzione dei grandi problemi dell’umanità sono esistiti, in momenti diversi, nel pensiero dell’Europa. Ma l’azione degli uomini europei non ha realizzato la missione che gli competeva e che consisteva nel riflettere con violenza su queste questioni, modificare i loro accomodamenti, il loro modo di essere, a cambiarli, fino a portare il problema dell’uomo a un livello incomparabilmente superiore.
Oggi assistiamo a uno stallo dell’Europa. Rifuggiamo, compagni, da questo movimento immobile dove la dialettica, poco a poco, si è trasformata in logica di equilibrio. Riprendiamo la questione dell’uomo. Riprendiamo la questione della realtà cerebrale, della massa cerebrale di tutta l’umanità della quale occorre moltiplicare i collegamenti, diversificare le reti e riumanizzare i messaggi.
Forza fratelli, abbiamo troppo lavoro da fare per divertirci con giochi di retroguardia. L’Europa ha fatto quello che doveva fare e tutto sommato l’ha fatto bene; smettiamola di accusarla ma diciamole con fermezza che non deve più continuare a fare tanto rumore. Non abbiamo più motivo di temerla, smettiamo dunque di invidiarla.
Il terzo mondo oggi è di fronte all’Europa come una massa colossale il cui progetto deve essere quello di tentare di risolvere i problemi che l’Europa non è riuscita a risolvere.
Ma allora è importante non parlare di utili, non parlare di accelerazione, non parlare di ritmi. No, non si tratta di un ritorno alla Natura. Si tratta molto concretamente di non spingere gli uomini in una direzione che possa mutilarli, di non imporre ai cervelli ritmi che rapidamente possano annullarli e sconvolgerli. Non bisogna, col pretesto di raggiungere, confondere l’uomo, strapparlo da sé stesso, dalla sua essenza intima, farlo a pezzi, ucciderlo.
No, noi non vogliamo raggiungere nessuno. Vogliamo piuttosto camminare sempre, giorno e notte, in compagnia dell’uomo, di tutti gli uomini. Non bisogna diradare la carovana, perché allora ciascuno si accorgerebbe a malapena solo di chi lo precede e gli uomini che non si riconoscono, si incontrano sempre meno, si parlano sempre meno.
Si tratta, per il terzo mondo, di ricominciare una storia dell’uomo che sappia tenere conto sia delle teorie a volte prodigiose sostenute dall’Europa, sia dei suoi crimini, tra i più odiosi che si siano mai visti, dello scollamento patologico dalle sue funzioni, dello sbriciolamento della sua unità, della rottura di una collettività, delle stratificazioni, delle tensioni sanguinose tra le classi e, infine, alla sommità della scala, degli odi razziali, della schiavitù, dello sfruttamento e soprattutto del genocidio esangue che ha escluso un miliardo e mezzo di uomini.
Dunque, compagni, non paghiamo tributi all’Europa creando Stati, istituzioni e società che si ispirino ai suoi modelli.
L’umanità si aspetta altro da noi, che non sia una imitazione caricaturale e nell’insieme oscena.
Se noi vogliamo trasformare l’Africa in una nuova Europa, l’America in una nuova Europa, allora affidiamo agli Europei i destini del nostro paese.
Sapranno fare certamente meglio dei migliori tra noi.
Ma se vogliamo invece che l’umanità avanzi di una tacca, se vogliamo portarla a un livello diverso da quello in cui l’Europa l’ha ridotta, allora bisogna inventare, bisogna scoprire.
Se vogliamo rispondere alle attese dei nostri popoli, bisogna cercare altrove ma non in Europa.
Di più, se vogliamo rispondere alle attese degli Europei, non dobbiamo rinviare loro un’immagine, anche ideale, della loro società e
oro pensiero, verso i quali essi provano episodicamente una nausea immensa.
Per l’Europa, per noi stessi e per l’umanità, compagni, bisogna farsi una nuova pelle, sviluppare un pensiero nuovo, tentare di costruire un uomo nuovo.
Pubblicato nel 1961