L'agonia del secolo americano
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Washington Post, 20 aprile 2010
L’agonia del secolo americano
di Henry Allen
Il sogno americano è morto, e con lui il secolo di guida del mondo che gli USA avevano promesso a sé stessi, in nome di un destino manifesto che oggi non è più che un’illusione e del quale conviene disfarsi, scrive Henry Allen, che collabora al Washington Post da 39 anni ed ha ottenuto nel 2000 un premio Pulitzer per la sua opera critica
Ecco cos’era: solo un sogno che il mondo nutrisse un amore particolare per gli Americani, per la nostra ardente innocenza, la nostra spontaneità un po’ sinistra, per la nostra volontà di condividere l’evidente e vera luce della democrazia con quelli che si dibattono ancora nelle tenebre della storia, per la nostra imprevedibile energia, la nostra musica sincopata e i nostri sorrisi da giocatori di baseball. Si aggiunga a tutto questo la maestà delle montagne violette e le distese di grano color ambra che si increspano al vento, e si capisce di che cosa parliamo. (E’ un riferimento alle parole dell’inno patriottico “America the Beatiful”)
E’ difficile stabilire in quale preciso momento questo sogno sia nato. Forse col giro del mondo della Grande Squadra Bianca (come venne soprannominata la squadra navale che ha effettuato il giro del mondo dal 1907 al 1909) di Teddy Roosvelt? Con la guerra fatta da Woodrow Wilson per rendere il mondo più sicuro per la democrazia? Nel 1940 Henry Luce, che raccontava ogni giorno agli Americani nel “Time and Life” che cosa erano, proclamò il “secolo americano”. La Seconda Guerra Mondiale l’ha realizzato.
Questo sogno è diventato anche il mio con i filmati delle attualità e le pagine della rivista Life, dopo la seconda guerra mondiale, quando ho visto le immagini dei Francesi e degli Italiani che gettavano fiori alle nostre truppe che li liberavano dai nazisti, dei GI che tornavano a casa con le loro fidanzate europee, dei bambini tedeschi in mezzo alle macerie che guardavano il cielo e incitavano gli aerei americani che portavano loro cibo durante il ponte aereo di Berlino.
Nato nel 1941, ero ancora giovanissimo, ma abbastanza grande per credere a queste verità: Noi non abbiamo conquistato, abbiamo liberato. Noi eravamo sempre i Buoni, collocati dalla parte dei Buoni. Nonostante le recriminazioni a proposito degli Yankees ignoranti e grossolani, tutti segretamente volevano vivere come gli Americani. Quando questa gente ci gettava fiori, erano nostri amici, non dei collaborazionisti come quelle donne francesi cui i contadini avevano rasato la testa quando i loro amanti tedeschi erano partiti prima dell’arrivo degli Americani. Loro erano rimaste là ovviamente – nessuno avrebbe voluto essere una sposa di guerra dei nazisti nella Germania del dopo guerra.
Loro hanno perso, noi abbiamo vinto. Niente permette di farsi tanti amici come una vittoria totale, del tipo di quella che non ci aspettiamo nemmeno più. E’ così che in Giappone, colpito due volte dalla bomba atomica, i ragazzi hanno adottato il baseball.
L’America si preparava a dirigere il mondo, non a suo profitto, ma – per la prima volta nella storia – per il bene del pianeta.
Sogno meraviglioso! Ha provato qualche delusione, ma è sopravvissuto ai nostri fallimenti in Corea, alla sconfitta totale in Vietnam, al ritiro dal Libano, alla catastrofe somala del “Blackawk Down”.
E’ sopravvissuto, mentre ci coprivamo di ridicolo, quando il salvataggio degli ostaggi in Iran è sprofondato caoticamente nella polvere del deserto, senza un colpo di fuoco del nemico. Non potemmo nemmeno riportare in patria tutti i nostri morti per seppellirli.
Abbiamo bombardato un ospedale psichiatrico a Grenada mentre liberavamo il mondo da qualche vaga minaccia comunista. Abbiamo bombardato una fabbrica che produceva farmaci in Africa, come rappresaglia ad un attacco contro la nostra ambasciata a Nairobi. Abbiamo bombardato l’ambasciata cinese durante la nostra guerra aerea per liberare il Kosovo. Il sogno è sopravvissuto perfino a Geroge W. Bush, che ha scatenato una guerra per eliminare le armi di distruzione di massa in Iraq.
Non c’erano armi, ma noi abbiamo continuato la guerra per consolidare la democrazia in Iraq e abbiamo finito con le sedute di tortura di massa a Abou Ghraib, che ci hanno offerto delle colorite foto ricordo dei nostri GI Joes e Janes. I bambini iracheni giocano già a baseball?
Barack Obama ha vinto le elezioni presidenziali grazie ad una campagna elettorale che prometteva una guerra migliore, ancora più grande, nel vicino Afghanistan. Come sempre, obbedendo al mandato del sogno americano, abbiamo invaso un paese per nessun’ altra ragione che il suo stesso bene. E’ questo che la gente non sembra capire.
Come nella vallata di Korengal, in Afghanistan, che i soldati americani hanno abbandonato mercoledì scorso, cinque anni dopo averla invasa per portare la verità, la giustizia e il modello americano a degli afghani che in cambio ci hanno odiato.
Noi abbiamo dato loro dei soldi, ogni sorta di dolciume. Ma loro ci odiavano.
Li abbiamo supplicati di lasciarci costruire una strada che li collegherebbe al resto del mondo. Loro hanno odiato la strada. E siccome noi non l’abbiamo capito, hanno fatto esplodere sei operai del cantiere di costruzione di questa strada.
Ci odiavano talmente che abbiamo dovuto comprarli – 23.000 litri di carburante e un gru – perché ci lasciassero partire senza ucciderci per puro piacere.
Eravamo stranieri. Infatti molte persone detestano gli stranieri (E’ per questo che li chiamano”stranieri”).
La gente ama gli stranieri solo quando vengono in pochi per spendere dei soldi e dopo ripartirsene; o quando vengono in armi per cacciare altri stranieri ancora più detestati, poi se ne ripartono. Ho preso un giorno un the con la moglie di un capo villaggio indonesiano. Lei si ricordava come erano stati acclamati i Giapponesi per averli liberati dagli Olandesi, fino a quando non hanno cominciato a deportare gli uomini nei campi di lavoro. Dopo, gli isolani hanno applaudito gli Americani che avevano cacciato i Giapponesi.
Noi non siamo affatto oggetto di un amore particolare. Noi abbiamo le nostre virtù e ci siamo avvicinati più di ogni altra nazione alla realizzazione del precetto evangelico di amare il nemico. Ma ci dobbiamo risvegliare da questo sogno.
E tuttavia ci attacchiamo a lui. John Kennedy aveva promesso che avremmo accettato di pagare qualsiasi prezzo per realizzarlo. E Ronald Reagan ci ha paragonato ad una “città su una collina”, verso la quale si volgono gli sguardi del mondo. Obama elettrizza il suo uditorio quando si abbandona alla sua retorica messianica di salvare il mondo.
Ora è come se, senza questo sogno, non ci sarebbe stata l'America, e come se un candidato alla presidenza non possa vincere senza credervi.
Tuttavia il capitano Mark Moretti, il comandante delle nostre forze a Korengal, ha detto così: “Io penso che partire è la cosa buona da fare”.
Il sogno muore. Non lo rianimate per piacere.