Conflitti etnici
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Analisi - Come prevenire il conflitto etnico?
Un'analisi, a partire dalle esperienze del Kosovo e della Macedonia, di Steven L. Burg, professore di Scienze Politiche presso la Brandeis University a Waltham, Massachusset. (tradotto da Gianmarco Pisa per ossin).
Prevenire il conflitto etnico:
il precedente Kosovo, il caso Macedonia ed il paradigma pluralista
Steven L. Burg
La crisi jugoslava dimostra l’importanza dell’azione internazionale concertata al fine di prevenire o risolvere i conflitti prima che essi precipitino nella violenza. La comunità degli Stati democratici, operando attraverso le istituzioni multi-laterali, può prevenire l’esplosione di simili crisi in qualsiasi parte del mondo, adottando una strategia di “impegno politico preventivo” per promuovere lo sviluppo democratico dei nuovi governi. Elementi di tale strategia sono già visibili in Macedonia, dove i diversi attori internazionali sono da anni impegnati a risolvere le tensioni tra la comunità slavo-macedone e quella albanese.
La strategia dell’“impegno politico preventivo”, in quanto strategia politica, differisce radicalmente dall’approccio cosiddetto “realista” alla risoluzione dei conflitti ed alla sicurezza internazionale. I “realisti” basano il loro approccio ai conflitti internazionali su un principio uni-dimensionale per il quale la condotta degli Stati deve essere condizionata dall’azione deterrente o coercitiva di una potenza esterna. Essi ritengono che si possa meglio prevenire il conflitto e più efficacemente porre fine alla violenza assicurando che ciascuna delle parti in conflitto sia egualmente ben armata e ben equipaggiata.
Tanto nei conflitti inter-etnici quanto nelle relazioni internazionali, sostengono i realisti, è solo l’equilibrio di potere militare che può assicurare la pace. Pertanto, i realisti hanno proposto e propongono soluzioni ai conflitti nella ex Jugoslavia auspicando la consegna di ancor più armi nella regione piuttosto che provando ad individuare e fare emergere le ragioni fondamentali del conflitto.
La letteratura accademica sulla prevenzione e la gestione dei conflitti etnici è dominata da due paradigmi alternativi: l’approccio pluralista o “integrativo” e l’approccio consociativo o “segregativo”. L’approccio segregativo è la più diffusa tra le ipotesi per la soluzione dei conflitti proposte dagli studiosi dei conflitti etnici e spesso viene citato come illustrazione di una possibilità di successo in quei casi che ci aspetta piuttosto possano degenerare in un fallimento. Questo approccio può essere sintetizzato in poche semplici idee.
Primo, il conflitto etnico scaturisce dal contatto tra gruppi etnici distinti. Quindi, l’isolamento di un gruppo dagli altri, a livello di massa, attraverso reti di organizzazioni politiche e sociali completamente separate (la cosiddetta “segmentazione” o “segregazione”) è una componente centrale di questo approccio. I contatti tra i diversi gruppi devono essere limitati alle elite. Secondo, poiché i gruppi etnici, in quanto tali, non possono conseguire alcun compromesso, deve essere garantita loro completa autonomia nei loro affari interni. Terzo, il processo decisionale su questioni di interesse comune deve essere esercitato esclusivamente dai rappresentanti delle elite dirigenti di ciascun gruppo. In effetti, le elite esercitano una sorta di “monopolio” persino sulla definizione di quali siano tali interessi comuni. Quarto, la partecipazione dei rappresentanti di questi gruppi nelle decisioni che li riguardano direttamente dovrebbe essere assicurata mediante una rappresentanza proporzionale. Quinto, e più importante, ciascun gruppo rappresentato all’interno di tale processo decisionale deve vedersi riconosciuto un diritto di veto sul processo decisionale stesso nel momento in cui i propri “interessi vitali” siano minacciati.
L’evidente vulnerabilità di tale sistema di fronte a condotte intransigenti o ostruzionistiche può essere evitato, secondo i sostenitori dell’approccio segregativo, dalla buona volontà o dalla “disponibilità” dei rappresentanti delle elite dei vari gruppi etnici, condizione ritenuta a sua volta essenziale per il successo.
L’assoluto primato delle elite in questo sistema è una conseguenza della strutturale segmentazione etnica che è alla base del modello. L’isolamento etnico a livello di massa rafforza la segregazione dei gruppi etnici all’interno di proprie e separate organizzazioni politiche, religiose e culturali. Comunità etniche isolate o organizzativamente frammentate costituiscono i presupposti per partiti politici etnicamente connotati i cui dirigenti ambiscono a rappresentare queste comunità nei processi decisionali locali e nazionali. La competizione elettorale tra i rappresentanti delle elite delle diversi componenti etniche rafforza il significato e l’efficacia del richiamo all’“identità etnica” e del ricorso alla più totale intransigenza in nome di quelli che, di volta in volta, vengono percepiti come gli interessi del proprio gruppo. Laddove i diversi gruppi etnici sono distribuiti in unità territoriali più o meno compatte, l’autonomia su base territoriale (nelle forme, a seconda dei casi, della devoluzione, della federazione o della confederazione) diventa l’espressione logica di tale approccio alla gestione de conflitto.
In effetti, il caso più spesso citato quale esempio di efficace gestione del conflitto etnico attraverso il modello segregativo, il Belgio, è passato esattamente attraverso queste fasi di crescente e completa de-costruzione dello Stato unitario e di parallela e continua creazione di distinte entità territoriali etnicamente definite, con una incalzante autonomia decisionale praticamente su ogni aspetto della vita pubblica. Oggi, si può dire che non vi sia una sola questione in Belgio sulla quale le entità etniche territoriali non abbiano completa autonomia decisionale, che non sia l’esistenza stessa dello Stato del Belgio.
Le più recenti esperienze in Cecoslovacchia, nella ex Jugoslavia ed in Bosnia – Erzegovina evidenziano la costitutiva vulnerabilità della procedura segregativa verso il “secessionismo”. In Cecoslovacchia e nella ex Jugoslavia, l’approccio consociativo (segregativo), accompagnato dalla devoluzione secondo distinte e separate entità etniche regionali, ha creato le condizioni strutturali dell’intensificazione del conflitto, piuttosto che della mitigazione, trasformazione o risoluzione del conflitto stesso, così come avevano immaginato i “realisti”. In questi casi, l’uso intransigente del potere di veto ha sostanzialmente annullato i già labili interessi comuni o trasversali all’interno di questi Stati, finendo con il paralizzare le istituzioni comuni.
Diversamente dal Belgio, solo una parte della popolazione della ex Jugoslavia ha finito per condividere un’identità sovra-nazionale (“jugoslava” piuttosto che serba, bosniaca, croata, slovena o macedone) fattasi via via sempre più debole, e nel caso della Cecoslovacchia questo senso di appartenenza sovra-nazionale vale per una parte della popolazione ancora minore. Le condizioni strutturali hanno fatto sì che la competizione elettorale, che doveva accompagnare il processo di “democratizzazione”, si trasformasse sempre più in una competizione etnica, fornendo così alle elite dominanti la cornice, immediatamente disponibile, per attribuire una connotazione etnica agli Stati che mano a mano si venivano costituendo.
In Bosnia – Erzegovina, l’“etnicizzazione” della vita politica, in una Jugoslavia ormai in disfacimento, ha assicurato che il meccanismo dei “veti incrociati” tra i tre gruppi etnici prevalenti (bosniaci musulmani, croati bosniaci e serbo-bosniaci) producesse una paralisi politica, e la complessa distribuzione etnica sul territorio fece sì che ogni tentativo di risolvere il conflitto attraverso la de-costruzione dello Stato secondo il modello belga o anche secondo un principio etnico non conforme alla composizione etnica del territorio, avrebbe richiesto delle negoziazioni estremamente complesse tra le diverse elite più sensibili ad una risoluzione pacifica della controversia.
Tragicamente, mentre l’approccio consociativo consegnava poderose dosi di intolleranza ed intransigenza nelle mani delle elite bosniache, ben pochi incentivi alla cooperazione (rintracciabili nella letteratura sul conflitto etnico o, più in generale, nella letteratura sulla cooperazione internazionale) sembravano riuscire effettivamente ad agire, e, in ogni caso, c’era ben poco che questi incentivi potessero fare, in una circostanza come quella e, soprattutto, nel breve periodo. In ogni caso, le istituzioni democratiche e la legislazione vigente erano troppo deboli per inibire l’azione delle elite nazionaliste. In assenza di significative ragioni di cooperazione sociale, storica e culturale o di incentivi strutturali alla collaborazione ed alla reciprocità, l’adozione di criteri consociativi e segregativi quale strategia di lungo termine pare certamente incoraggiare conflitto, paralisi e secessionismo.
L’approccio pluralista alla gestione dei conflitti etnici è basato su una comprensione completamente differente degli effetti dei contatti inter-etnici a livello di massa. Detto più sinteticamente, i pluralisti ritengono che, in vigenza di condizioni decisive di comunicazione aperta e di pari opportunità, il contatto tra gruppi distinti generi reciproca comprensione e mutua cooperazione, non conflitto. Mentre i consociativi considerano le istituzioni politiche in primo luogo come un riflesso della separazione etnica, i pluralisti considerano le medesime istituzioni non solo come un mero riflesso, ma piuttosto come un potente veicolo della trasformazione. Contatti tra i gruppi all’interno di istituzioni condivise non devono essere necessariamente visti come agenti dell’assimilazione culturale; piuttosto, contatti sostenuti, in condizioni di comunicazione aperta e di pari opportunità, sono considerati come un contributo fecondo alla maturazione di una cultura condivisa di interazione e di cooperazione, ciò che nei Paesi occidentali ha preso il nome di “cultura civica”.
Piuttosto che guardare alle elite politiche per la risoluzione dei problemi, il paradigma pluralista suggerisce che incentivi alla cooperazione debbano essere rinvenuti all’interno stesso del corpo sociale, lungo quegli interessi condivisi che possono attraversare e moderare gli appelli alle identità etniche. E’ questa l’essenza delle cosiddette “differenze trasversali” (“cross-cutting cleavages”), ipotesi ampiamente citata nel campo delle scienze politiche. In effetti, i sostenitori del consociativismo e del “modello segregativo” ritengono l’esistenza di tali “differenze trasversali” come un contributo decisivo al successo della loro modalità d’azione. Tuttavia, le “differenze trasversali” possono contribuire a moderare il conflitto, se diventano una delle basi costruttive dell’identità politica, della competizione elettorale e della partecipazione popolare nelle istituzioni rappresentative ed all’interno del processo decisionale.
Lo sviluppo di contatti e comunicazione tra i gruppi etnici costituisce un elemento essenziale del paradigma pluralista. I sistemi consociativi tendono a perpetuare tutte le carenze e le insufficienze nella comprensione reciproca che possono esistere, dal momento che la separazione etnica, a livello strutturale, blocca la comunicazione tra i gruppi. Al contrario, il paradigma pluralista sostiene l’importanza degli sforzi per superare tale divisione nella direzione della mutua comunicazione. In questa prospettiva, gli sforzi per assicurare l’apertura dei mezzi di informazione di massa alla comunicazione ed alla relazione tra i gruppi etnici costituiscono un mezzo potenzialmente assai rilevante attraverso cui cominciare a costruire le fondamenta sociali di soggettività, identità e comportamenti in grado di trascendere le connotazioni esclusivamente etniche.
In maniera del tutto analoga, mentre l’approccio consociativo esalta la segmentazione nel campo dell’istruzione, l’approccio pluralista ritiene che istituzioni formative ed educative comuni, in grado di sostenere in maniera eguale le identità di gruppo e le soggettività culturali, specialmente a livello universitario, costituiscano un mezzo, potenzialmente molto rilevante, per sviluppare contatti, comunicazione e comprensione tra i diversi gruppi e per incoraggiare la scoperta di un terreno comune di valori, interessi e bisogni condivisi.
Laddove l’approccio consociativo dipende esclusivamente dalla buona volontà delle elite dominanti, per le quali la competizione, a tutti i livelli, è la fonte essenziale del potere personale, l’approccio pluralista dipende dalla buona volontà dei cittadini che riconoscono la cooperazione inter-comunitaria quale un’opportunità o semplicemente un mezzo per assicurarsi reciproci benefici. In una parola, laddove l’approccio consociativo conduce alla politica delle identità separate, l’approccio pluralista guarda alla politica degli interessi condivisi.
Mentre l’approccio consociativo istituzionalizza la separazione etnica all’interno delle strutture stesse dello Stato, l’approccio pluralista punta ad evitare di definire lo Stato o le istituzioni pubbliche in termini etnici. Secondo la prospettiva pluralista, le condotte basate sulle identità etniche dovrebbero essere bilanciate da condotte basate su interessi condivisi, su basi eguali piuttosto che su basi esclusive.
Nei casi in cui la politicizzazione delle identità etniche domina ogni altra istanza dell’azione politica, come è successo nella ex Jugoslavia e, in misura minore, in Macedonia, la sfida nel perseguire un approccio pluralistico nella gestione del conflitto etno-politico consiste esattamente nello stabilire una sorta di equilibrio tra l’istanza etnica (nella quale si manifesta il contenuto di identità soggettiva) e l’istanza non-etnica (nella quale si manifesta l’azione degli interessi condivisi) nell’ambito della partecipazione popolare, della rappresentanza politica e del processo decisionale.
In talune circostanze, e nel caso del Kosovo in particolare, la sfida consiste nel facilitare l’emersione esclusivamente della dimensione “non-etnica”, in quanto pressoché completamente sopraffatta dalla dimensione “etnica”. Perseguire una strategia rigorosamente consociativa o segregativa in tali casi, d’altro canto, significherebbe istituzionalizzare la divisione etnica e creare le basi strutturali per un uso intransigente del diritto di veto e della minaccia secessionista [il che è esattamente quello che poi è avvenuto in Kosovo N.d.T]. Laddove i gruppi competono per il controllo delle medesime risorse e del medesimo territorio, la minaccia secessionista diventa la scaturigine della violenza.
In definitiva, l’approccio pluralista è orientato verso l’apertura e la partecipazione. L’ approccio consociativo è nel migliore dei casi elitista e nel peggiore dei casi fondamentalmente anti-democratico. Nella stagione attuale della storia politica europea, la capacità di attrazione presso le masse popolari dell’ideologia democratica e la domanda di un sempre più solido rafforzamento delle soggettività civiche, come pure il pericolo di regressione verso l’autoritarismo che è proprio del dominio delle elite, può agire come deterrente per screditare l’approccio elitista come strategia di lungo termine per risolvere i conflitti inter-comunitari.
Talune pratiche associate al paradigma consociativo possono anche essere utili come tecniche preventive nel breve periodo; ma, nel lungo periodo, l’identificazione (o la creazione) di “differenze trasversali” e la rappresentanza di siffatte divergenze nel meccanismo della decisione politica all’interno delle istituzioni dello Stato, come pure la creazione di condizioni che favoriscano l’azione cooperativa “attraverso” e non “lungo” le linee della differenziazione etnica a livello sociale e di massa, è in grado di mantenere la promessa di moderare la tensione tra i gruppi e di prevenire i conflitti inter-comunitari.
La Macedonia, ad esempio, è uno Stato post-socialista caratterizzato, soprattutto nel recente passato, da deboli istituzioni politiche ed un altrettanto debole tessuto di società civile. I rapporti tra le comunità etniche, slavo-macedone ed albanese, sono contraddistinti da tensione sociale e confronto politico, ma non conflitto aperto o violenza diffusa. Le caratteristiche fondamentali del sistema politico e sociale, dopo la fine del conflitto etno-politico tra i gruppi prevalenti, hanno trovato una cornice di massima ma, nei dettagli, sono ancora in fase di negoziazione.
Il paradigma pluralista suggerisce che le riforme amministrative ed istituzionali o il consolidamento di nuove istituzioni pubbliche capaci di sviluppare contatti, relazioni e comunicazione tra i gruppi e di incoraggiare l’emersione di “differenze trasversali”, possono contribuire a ridurre le tensioni tra i gruppi. Molte organizzazioni hanno condotto o stanno conducendo progetti in Macedonia, dichiaratamente tesi a prevenire il conflitto inter-etnico, i quali rientrano pienamente all’interno del “paradigma pluralista”. I loro successi sono consistenti con l’ipotesi che tale strategia possa risultare efficace in un contesto come quello della Macedonia.
La rete “Search for Common Ground Macedonia” (SCGM), ad esempio, ha prodotto numerosi tentativi al fine di incoraggiare il contatto, la relazione e la comunicazione tra i diversi gruppi etnici nonché una cooperazione attiva nel perseguimento di interessi condivisi, con la speranza di sviluppare una maggiore empatia inter-comunitaria ed una più forte conoscenza reciproca. Il progetto di “giornalismo inter-etnico” denominato “How We Survive” (“Come Sopravviviamo”), promosso da SCGM, ha avuto come risultato la pubblicazione contemporanea nei maggiori quotidiani macedoni in lingua slavo-macedone, albanese e turca (le tre più significative componenti linguistiche della società macedone) di una serie di articoli di costume, sul modo come persone appartenenti ai diversi gruppi etnici si confrontano con i problemi della vita di tutti i giorni. Il progetto ha anche prodotto una più forte empatia inter-comunitaria tra gli stessi giornalisti che vi hanno preso parte.
Tale progetto ha fatto emergere l’esistenza di interessi professionali comuni su ciascun lato della ripartizione etnica della società macedone, ha indotto la mobilitazione del supporto istituzionale per favorire i contatti tra le comunità, ha incrementato il flusso di informazioni positive, attraverso le diverse comunità, nella forma di articoli giornalistici, ed ha aiutato a creare una sorta di “empatia inter-comunitaria” tra i giornalisti stessi in generale, giornalisti che, com’è noto, giocano un ruolo decisivo nel formare l’opinione e la percezione pubblica di massa. SCGM ha dato seguito al progetto con una nuova iniziativa mirata ad incoraggiare la pubblicazione di opinioni differenti su alcune questioni importanti, come strumento per sensibilizzare i lettori all’idea che una delle caratteristiche fondamentali della democrazia è, appunto, il “conflitto di opinioni, senza conflitto”.
SCGM ha anche promosso tavole rotonde a cadenza mensile presso l’Università di Skopjie, la capitale del Paese, al fine di incoraggiare una discussione ed un confronto diretto tra i diversi gruppi etnici su questioni di comune interesse o rilevanza, ed un suo progetto sulla tutela dell’ambiente mira a sostenere la cooperazione inter-etnica negli sforzi delle popolazioni locali per tenere pulito e proteggere l’ambiente nelle loro comunità. Il successo dei progetti di SCGM fornisce una prova assai significativa dell’efficacia del paradigma pluralista e di una strategia di “impegno politico preventivo” in un contesto come quello della Macedonia.
Il Centro per l’Azione Preventiva del Gruppo di Lavoro per i Balcani meridionali del Consiglio per le Relazioni internazionali ha individuato nell’istruzione superiore un’altra area-chiave nella quale tale strategia può essere efficacemente perseguita. Le raccomandazioni del Centro al fine di de–ideologizzare le questioni e condurre tutti gli attori delle diverse comunità etniche a contatto diretto nel perseguimento dell’interesse comune comprendevano, tra le altre, quelle di diversificare l’offerta formativa a livello universitario e di aprire l’Università di Skopjie ad un numero più alto di immatricolazioni da parte di giovani studenti albanesi, in un momento in cui le iscrizioni universitarie dei giovani albanesi erano particolarmente sporadiche, soprattutto espandendo l’ambito dell’istruzione universitaria in lingua albanese, suggerendo misure affinché un numero maggiore di studenti albanesi potesse ricevere una preparazione adeguata per l’istruzione superiore, e rafforzando il ruolo delle professionalità, nel campo dell’istruzione, di livello internazionale, soprattutto per quanto riguarda il perseguimento degli obiettivi, lo sviluppo delle politiche di settore, l’implementazione di buone prassi ed i sistemi di valutazione.
Sebbene queste raccomandazioni venissero sviluppate dal Centro senza un riferimento esplicito al paradigma pluralista, evidentemente esse vi si conformano. Consentire lo sviluppo dell’istruzione universitaria in più direzioni avrebbe a sua volta incoraggiato lo sviluppo della società civile macedone e consolidato la propria legittimazione come attore della scena pubblica; rendere l’Università statale più aperta a tutti i gruppi etnici avrebbe rafforzato la qualità civica delle istituzioni pubbliche; infine, professionalizzare le politiche dell’istruzione avrebbe consentito agli educatori di tutte le comunità etniche di partecipare in maniera non discriminatoria ad attività cooperative di interesse comune.
Le Organizzazioni Non-Governative (ONG) difficilmente possono avere successo senza un forte supporto da parte delle autorità finanziatrici e da parte delle istituzioni multilaterali impegnate per la pace. Nel caso della Macedonia, ad esempio, la presenza nel Paese dell’UNPREDEP (la Missione di Dislocamento Preventivo delle Nazioni Unite) ha fornito una prova cruciale del sostegno internazionale ad una risoluzione pacifica dei conflitti tanto interni quanto confinari. Tuttavia, le azioni governative e quelle multilaterali difficilmente possono modificare codici di condotta e modalità di interazione presenti a quel livello popolare, “di base”, presso il quale sono conservate le “chiavi” della prevenzione della violenza e della risoluzione del conflitto etnico.
Per conseguire una tale trasformazione sono richieste, in realtà, molta più attenzione, consapevolezza e sostegno, di quanto fornito sinora, a quelle tipologie di “azione diretta” indicate sopra, azioni, peraltro, che possono essere sostenute solo da quelle ONG che non siano localmente percepite come “interferenza esterna” o addirittura come possibili moltiplicatori dell’escalation del conflitto.