Il corpo del Che
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Le Monde Diplomatique, agosto 2005 (trad. Ossin)
Le persone attorno al corpo erano più ripugnanti del cadavere: una religiosa rideva ostentatamente
Il corpo del Che
Richard Gott
La mattina dell’8 ottobre 1967, Ernesto Che Guevara e una decina di guerriglieri vengono accerchiati dall’esercito boliviano a pochi chilometri da La Higuera, piccolo villaggio della Bolivia situato nella precordigliera andina. Catturato, il Che viene giustiziato il giorno dopo a La Higuera. Per la prima volta, trentotto anni dopo il fatto, uno dei pochi giornalisti testimoni della sua morte racconta dettagliatamente il momento in cui l’esercito boliviano, con l’aiuto di ufficiali USA e di agenti della CIA, ha trasportato il corpo del rivoluzionario argentino nel villaggio di Vallegrande, dove alcuni medici hanno “trattato” le spoglie mortali del Che prima di presentarli ai media di tutto il mondo
"Soprattutto, nel più profondo di voi stessi, siate capaci di sentire ogni ingiustizia commessa contro chiunque in qualunque parte del mondo. È la più bella qualità di un rivoluzionario" (Lettera del Che ai figli)
Nel 1967, praticamente quaranta anni fa, io abitavo a Santiago del Cile, dove lavoravo all’Università ed ero anche collaboratore del giornale londinese The Guardian. Nel gennaio di quell’anno, seppi da amici della sinistra cilena che Che Guevara era in Bolivia; a marzo vi fu la prima azione della guerriglia. A partire dal mese di aprile, una squadra di giornalisti sbarcò nell’accampamento di Nancahuazù, vicino alla città petrolifera di Camiri. Poco dopo un piccolo gruppo – del quale faceva parte anche Regis Debray – di ritorno dall’accampamento, venne catturato e portato a Camiri. Nello stesso periodo, a La Havana, venivano pubblicati gli ultimi scritti del Che, in forma di raccolta intitolata “Creare uno, due, tre… molti Vietnam”, un invito alla lotta rivolto alla sinistra internazionale.
Decisi allora di partire per la Bolivia, per verificare coi miei occhi se davvero questo paese potesse diventare un nuovo Vietnam. Erano rare, sul piano internazionale, le notizie sulla guerriglia in Bolivia. Presi quindi, in agosto, il treno transandino che partiva dal porto cileno di Antofagasta per La Paz, sede del governo boliviano (1).
Il paese era allora sotto la dittatura militare del generale René Barrientos, ufficiale dell’aeronautica militare, giunto al potere due anni prima. All’apparire della guerriglia, venne promulgata la legge marziale. Ad ogni uscita dalle città vi erano posti di blocco militari.
Io presi tutte le precauzioni necessarie: scelsi il treno per evitare gli aeroporti, che erano sottoposti a stretta sorveglianza, e mi tagliai la barba perché tutti i barbuti erano automaticamente sospetti. La mia idea era di attraversare il paese facendomi passare per un normale turista, senza farmi accreditare come corrispondente straniero. Era fare i conti senza innumerevoli difficoltà: era impossibile viaggiare fuori dagli ambiti cittadini senza l’autorizzazione scritta del comandante in capo, il generale Alfredo Ovando – che sarebbe poi diventato presidente.
Mi rassegnai quindi a farmi accreditare a La Paz, insieme ad altri giornalisti stranieri, tra cui un amico del Times di Londra. Una volta, questi mi parlò della curiosa abitudine di un giornalista danese, che passava due ore ogni giorni a trasmettere dei telex contenenti tutte le informazioni che comparivano sulla stampa boliviana. “L’interesse dei Danesi per le vicende boliviane è così grande?” si chiedeva il mio amico, giustamente incuriosito. Anche io ero sorpreso, fino a quando scoprii fortuitamente che il Danese era un corrispondente di sinistra che mandava notizie alla agenzia Prensa Latina di La Havana, attraverso la Danimarca!
Ho viaggiato quindi per diverse settimane attraverso il paese, per sondare l’atmosfera che vi regnava, e osservare se la Bolivia era veramente in piena fase pre-rivoluzionaria. Visitai le miniere di Oruro, di Siglo Veinte e di Potosì – tutte sotto controllo militare -, i cui accessi erano controllati da soldati armati. I dirigenti sindacali si trovavano, beninteso, tutti in prigione, e i minatori avevano una paura blu di parlare.
Cercai anche di rendermi conto della situazione dell’agricoltura. La Bolivia aveva sperimentato una rivoluzione quindici anni prima, nel 1952; una riforma agraria era stata applicata a tutto il paese, ma i contadini non erano contenti. Viaggiai con un gruppo di esperti in agricoltura delle Nazioni unite, percorrendo l’Altipiano, scendendo fino a Tarija, dove scoprimmo che una moltitudine di contadini si lamentavano, sostenendo che diversi proprietari terrieri avevano ripreso il possesso delle loro terre.
Tornai a La Paz per incontrarmi con l’ambasciatore degli Stati Uniti, un certo Douglas Henderson. Aveva letto nella rivista Tricontinental la famosa lettera del Che che invitava a creare altri Vietnam, e mi confidò che gli Stati Uniti aiutavano l’esercito boliviano con istruttori ma che, in realtà e a differenza del Vietnam, non vi era la minima possibilità di fare intervenire truppe statunitensi in Bolivia.
A fine agosto, arrivai a Camiri e incontrai Regis Debray, prigioniero in una stanza del circolo militare. Ebbi anche colloqui con ufficiali della 4° divisione dell’esercito; mi informarono che la guerriglia del Che si era spostata verso nord, a ovest della strada che porta a Santa Cruz – capitale dell’est della Bolivia. Per rendermi conto di cosa stesse realmente accadendo, dovevo andare a Vallegrande, principale base delle forze antiguerriglia dell’8° divisione.
In settembre partii quindi per Vallegrande e chiesi di parlare col responsabile del campo, il colonnello Joaquin Zenteno Anaya – che qualche anno dopo verrà assassinato in Europa. Mi annunciò che il gruppo del Che si trovava in una zona ben delimitata e che sarebbe stato molto difficile, per il capo guerrigliero e i suoi uomini, sfuggire all’accerchiamento. Mi disse che i militari avevano accerchiato le forze del Che, lasciando loro una sola via di fuga. L’esercito aveva dispiegato soldati travestiti da contadini per dare l’allarme non appena fossero passati i fuggitivi. Le dichiarazioni degli abitanti di un casale visitato dai guerriglieri qualche giorno prima e quelle di due guerriglieri catturati, che mi hanno consentito di intervistare, non lasciavano alcun dubbio sull’identità del capo del gruppo accerchiato: si trattava certamente di Che Guevara. “Di qui a qualche settimana, vi saranno novità”, mi ha assicurato il colonnello Zenteno.
Io presi la strada di Santa Cruz e andai al campo militare dell’Esperance, dove si trovavano le forze speciali degli Stati Uniti. Quasi una ventina di specialisti statunitensi si nascondevano in una fabbrica di zucchero abbandonata, munita di tutti i mezzi radio esistenti per comunicare con Vallegrande e la zona della guerriglia, e anche col Southern Command (2) USA, con base a Panama – nella zona del canale, allora proprietà del Pentagono. Venni ricevuto dal maggiore Roberto “Pappy” Shelton, che mi disse che 600 ranger – truppe speciali dell’esercito boliviano addestrate da istruttori statunitensi – avevano completato la loro formazione e stavano partendo per la regione di Vallegrande.
La sera di domenica 8 ottobre 1967, passeggiavo con un amico nella piazza principale di Santa Cruz quando un uomo ci fece segno di avvicinarsi al suo tavolino, sulla terrazza di un caffè. Era uno dei militari statunitensi che avevamo incontrato al campo dell’Esperance. “Ho notizie per voi”, ci disse. “Del Che?” domandammo, preoccupati da diverse settimane di una sua eventuale cattura. “Il Che è stato preso – ci rispose il nostro informatore – E’ stato gravemente ferito. E’ possibile che non superi la notte. Gli altri guerriglieri lottano accanitamente per liberarlo; e il comandante della compagnia ha chiesto per radio un elicottero per portarlo via. Il comandante era talmente agitato che non si riusciva a capire che cosa diceva. Si è capito solo che diceva: “Lo teniamo, lo teniamo”.
Il nostro informatore ci suggerì di noleggiare un elicottero per recarci immediatamente nella zona della guerriglia. Non sapeva se il Che fosse ancora in vita, ma pensava che vi fossero pochissime speranze che ne avesse ancora per molto. Noi non avevamo i soldi per noleggiare un elicottero, ammesso che ve ne fosse uno disponibile. Erano le 8.30 di sera, era tutto buio, e volare a quell’ora era comunque impossibile.
Noleggiammo quindi una jeep e partimmo alle 4 del mattino, lunedì 9 ottobre, per Vallegrande.
In cinque ore e mezzo giungemmo a destinazione. I militari non ci lasciarono andare oltre La Higuera. Noi ci recammo direttamente al campo d’aviazione, una pista relativamente rudimentale. Si sarebbe detto che una buona metà del villaggio si era riunito in quel luogo in attesa, ivi compresi gli scolari e i fotografi amatoriali. Gli abitanti di Vallegrande erano abituati al via vai dei militari.
Nella folla, i più eccitati erano i bambini. Indicavano l’orizzonte col dito, correndo e saltando. Poco dopo un puntino apparve nel cielo e prese rapidamente la forma di un elicottero che portava, al campo d’atterraggio, i corpi di due soldati morti. Vennero caricati, senza troppo riguardi, in un camion per essere trasportati al villaggio.
Mentre la folla si disperdeva, noi ci trattenemmo a fotografare le casse di napalm fornite dall’esercito brasiliano, sparse lungo la pista di atterraggio. Con l’aiuto di un teleobiettivo, fotografammo un uomo con una uniforme verde oliva, senza insegne militari, identificato come un agente della CIA. Una simile audacia da parte di stranieri – eravamo i primi ad essere arrivati a Vallegrande, precedendo tutti gli altri di ventiquattro ore – non fu gradita, e l’agente della CIA, spalleggiato da qualche ufficiale boliviano, tentò di farci espellere dal villaggio. Ma noi avevamo lasciapassare a sufficienza per dimostrare che eravamo dei veri giornalisti. Così che, dopo violente discussioni, ci permisero di restare.
Il solo e unico elicottero decollò poi verso la zona di combattimento, ad una trentina di chilometri a sud-est, portando a bordo il colonnello Zenteno. Poco dopo l’1 di pomeriggio, ritornò trionfante, a stento nascondendo un largo sorriso di soddisfazione. Annunciò che il Che era morto. Aveva visto il suo cadavere e non vi era alcun dubbio in proposito. Noi non avevamo alcuna ragione per non credergli, e ci precipitammo verso il piccolo ufficio del telegrafo per consegnare ad un impiegato inquieto e incredulo i nostri dispacci destinati al mondo intero. Nessuno di noi era davvero sicuro che sarebbero giunti a destinazione, ma non avevamo altra scelta. Non sono mai arrivati.
Quattro ore più tardi, esattamente alle 17, l’elicottero ritornò, portando questa volta un solo corpo, legato alla rampa di atterraggio esterna. Invece di atterrare dove ci trovavamo noi, come aveva fatto in precedenza, l’elicottero atterrò in mezzo alla pista, lontano dagli sguardi curiosi dei giornalisti. Ci fu vietato di superare il cordone di soldati. Ma molto rapidamente, laggiù in fondo, il cadavere venne caricato in un furgone Chevrolet che si lanciò in una corsa folle lungo la pista, per poi allontanarsi.
Noi saltammo sulla nostra jeep, che non era lontana; e l’autista si mise a seguire il furgone come un forsennato. Circa un chilometro più avanti, nel villaggio, il Chevrolet girò improvvisamente, e lo vedemmo entrare all’interno dell’ospedale. Alcuni soldati tentarono di chiudere i cancelli per impedirci di passare, ma noi viaggiavamo così vicini al furgone che riuscimmo a entrare.
Lo Chevrolet si arrampicò lungo un pendio scosceso e si diresse poi, a marcia indietro, verso un piccolo ricovero dal tetto di bambù, una parte del quale era interamente esposto alle intemperie. Saltammo dalla jeep per raggiungere la porta laterale del furgone prima che si aprisse. Quando si spalancò con violenza, sbucò l’agente della CIA sbraitando in modo insolito: “All right, let’s get the hell out of here!” (Va bene, squagliamocela di qui!”). Poveretto, non sapeva che dietro la porta c’era un giornalista inglese.
All’interno del furgone, su una lettiga, era steso il corpo del Che. Fin dal primo istante ho saputo che era lui. Avevo avuto l’occasione di incontrarlo quattro anni prima a La Havana: e non era qualcuno che si dimentica facilmente. Nessun dubbio: era proprio Ernesto Che Guevara. Quando portarono fuori il corpo per sistemarlo su una tavola improvvisata all’interno del rifugio, che doveva essere servita a fare il bucato, io ebbi la certezza che Guevara il rivoluzionario era proprio morto.
La forma della barba, i tratti del viso, la capigliatura lunga e folta erano riconoscibili fra mille altre. Era vestito di una uniforme militare verde oliva e una giacca con chiusura lampo, calzini di un verde sbiadito e scarpe che sembravano di fattura artigianale. Essendo completamente vestito, era difficile capire dove era stato colpito. Due orifizi erano visibili alla base del collo; più tardi, quando hanno lavato il corpo, ho visto un’altra ferita al ventre. Aveva certamente delle piaghe sulle gambe e vicino al cuore, ma non potei vederle.
I due medici dell’ospedale frugavano nelle ferite del collo: ebbi dapprima l’impressione che cercassero un proiettile, ma in realtà preparavano il corpo per inserire dei tubi attraverso i quali avrebbero iniettato formalina per conservare le spoglie. Uno dei medici cominciò a lavare le mani sporche di sangue del guerrigliero defunto. Salvo questi dettagli, niente sul corpo suscitava la minima ripugnanza. Si sarebbe detto vivo. E quando gli tolsero la giacca, lo fecero senza difficoltà. Credo che fosse morto solo qualche ora prima. In quel momento non immaginavo che potesse essere stato ucciso dopo la cattura. Pensavamo tutti che fosse morto a causa delle ferite e per mancanza di cure mediche nelle prime ore di quel lunedì mattina.
Le persone che attorniavano il corpo erano assai più ripugnanti del cadavere: una religiosa non riusciva a nascondere il sorriso e si lasciava andare fino a ridere ostentatamente; gli ufficiali arrivavano munti di costosi apparecchi fotografici per immortalare la scena; e naturalmente l’agente della CIA stava lì, accaparrandosi di ufficio la responsabilità di tutta l’operazione e scoppiando in una rabbia folle ogni qualvolta si osasse puntare un apparecchio foto su di lui. “Da dove viene?” Gli chiedemmo in inglese, aggiungendo per scherzare: “Da Cuba?”, “da Porto Rico?” Ma il nostro humor non era visibilmente di suo gusto, e rispondeva seccamente: “From nowhere” (Da nessuna parte).
Glielo chiedemmo un’altra volta più tardi, ma questa volta ci rispose in spagnolo: “Que dice?” facendo finta di non capire. Era un uomo tozzo e robusto, di circa trentacinque anni, con dei piccoli occhi incassati nelle orbite. Difficile dire se fosse uno statunitense o un esiliato cubano, perché parlava altrettanto bene sia l’inglese che lo spagnolo, senza alcun accento. Si chiamava Gustavo Villoldo (conosciuto col nome a prestito di Eduardo Gonzales) e vive ancora oggi a Miami. Io l’ho menzionato nel mio articolo per The Guardian di Londra, un anno prima che se parlasse nella stampa statunitense.
Una mezzora più tardi ci siamo allontanati per tornare a Santa Cruz, scrivere e trasmettere le notizie. Quando siamo arrivati il martedì 10 ottobre, l’alba era già spuntata. Nessun ufficio era in grado di trasmettere i dispacci. Presi allora l’aereo per La Paz e da lì trasmisi il mio articolo sulla morte del Che. Venne pubblicato in prima pagina sul The Guardian l’11 ottobre. Nell’aereo incontrai il maggiore “Pappy” Shelton, che mi disse soddisfatto: “Missione compiuta!”
Riferimenti:
(1) La capitale costituzionale della Bolivia è la città di Sucre, fondata nel 1538 da Pedro Anzurez de Campo Redondo
(2) Comando su dell’esercito degli Stati Uniti
"Hasta Siempre Comandante", interpretata dal suo autore, Carlos Puebla