Pete Seeger, o dello scrivere canzoni
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minima&moralia, 28 gennaio 2014
Pete Seeger, o dello scrivere canzoni
Questo brano è tratto da un’intervista a Pete Seeger contenuta nel libro Songwriters, a cura di Paul Zollo, edito da minimum fax, e tradotto da Veronica Raimo e Francesco Pacifico
Quelle di Pete Seeger sono le canzoni più accorate che un Paese abbia sentito, canzoni che sembrano risalire alla notte dei tempi, perché siamo cresciuti non solo ascoltandole ma anche cantandole, canzoni come “Where Have All the Flowers Gone?” e “If I Had a Hammer”. Seeger ha scritto canzoni che parlano di protesta e d’indignazione, come “Last Train to Nuremberg” e “Waist Deep in the Big Muddy”; canzoni che parlano di semplicità e d’amore, come “Turn, Turn, Turn” e “Rainbow Race”; e ci ha fatto conoscere intramontabili inni per l’umanità, come “We Shall Overcome”.
È nato nel 1919 a New York, terzogenito di Charles Seeger, musicologo, e Constance de Clyver Edison, violinista. Il suo amore per la musica folk risale all’età di sedici anni. Prese parte all’Ashe ville Folk Festival nel North Carolina, e da quel momento in poi smise di suonare canzonette con il suo banjo per dedicarsi al folk.
Avrebbe potuto seguire le orme accademiche del padre, e infatti frequentò Harvard per qualche anno, ma era impaziente di esplorare il mondo. Il suo obiettivo a quel tempo era di diventare un giornalista, non un musicista. Quindi abbandonò Harvard per intraprendere la sua carriera di scrittore, ma presto si rese conto di passare più tempo con il suo banjo che con la sua macchina da scrivere. L’incontro con un giovane songwriter di nome Woody Guthrie gli fece capire che avrebbe potuto continuare a collezionare fatti come un giornalista, ma per farli diventare qualcosa di più potente era meglio metterli in una canzone che in un giornale.
Pete attraversò l’America in treno e in autostop insieme a Woody, acquistando quella saggezza che non avrebbe mai potuto ottenere ad Harvard – come ad esempio sapere che il manico di un banjo si spezza molto facilmente se lo si usa per attutire la caduta da un treno in corsa. Imparò anche che cantare una canzone è uno dei modi migliori per guadagnarsi il pane quotidiano, e che il modo migliore per unire la gente è farla cantare tutta insieme, un talento che Seeger ha sempre posseduto in abbondanza.
Tutta la sua carriera testimonia il potere della canzone; molti dei suoi primi testi sono stati scritti per le associazioni operaie, con l’intento preciso di far aggregare le persone. Ma mentre gli operai si univano, i capi erano esasperati dalla verità sfacciata contenuta in canzoni come “Talking Union”, che era basata sul vecchio talking blues imparato da Woody.
Now you know you’re underpaid but the boss says you ain’t
He speeds up the work until you’re bound to faint
You may be down and out but you ain’t beaten
Pass out a leaflet, call a meeting, talk it over
Speak your minds
Decide to do something about it.1
Che si esibisse da solista o come membro di una delle due band di cui ha fatto parte (gli Almanac Singers e i Weavers), Pete ha sfruttato il potere della canzone per unire la gente in tantissimi modi diversi: dal cantare “We Shall Overcome” insieme a Martin Luther King e altri trentamila dimostranti in marcia da Selma a Montgomery, in Alabama, nel 1965, al cantare “Golden River” mentre discendeva l’Hudson con un gruppo di musicisti sulla potente barca a vela Cleanwater, un gesto che indusse la gente a collaborare alla pulizia del fiume. Ma mentre una parte della popolazione si sentiva più forte e più unita grazie a quelle canzoni, un’altra ne era spaventata e minacciata.
We shall overcome, la più famosa canzone di Pete Seeger,
interpretata da Joan Baez
Quindi lo stesso tizio che era soprannominato “il diapason dell’America” e “un santo vivente” (da Bob Dylan) era anche denominato “antiamericano” e “usignolo di Chrushev”. Seeger è stato messo sulla lista nera e tenuto lontano da radio e televisione per buona parte della sua carriera. Una volta che le sentinelle dei network avevano abbassato un po’ la guardia, tanto da lasciarlo suonare in televisione, lui si presentò allo “Smothers Brothers Comedy Hour” nel 1968 per cantare “Waist Deep in the Big Muddy”, un’accusa contro la politica di Johnson sul Vietnam («And the big fool says to push on» [“E l’imbecille dice di andare avanti”]). Gli Smothers persero subito il loro programma e Seeger fu tenuto alla larga dall’etere per altri dieci anni. È questo il potere della canzone.
Pete non si è mai lamentato per essere stato incluso nella lista nera. “Sono sempre riuscito a guadagnarmi da vivere”, ha detto. Al giorno d’oggi è ancora molto impegnato a guadagnarsi da vivere: andando in tour col figlio di Woody, Arlo Guthrie, incidendo album, tenendo una rubrica sulla rivista Sing Out!, tenendo lezioni all’ucla e in altri posti, navigando sulla Cleanwater, imparando, collezionando e scrivendo nuove canzoni, e mantenendo una fittissima corrispondenza con amici vecchi e nuovi in tutto il mondo.
Questa intervista è stata fatta in due momenti diversi. La prima parte è stata di mattina presto nella buia stanza d’albergo di Pete, vicino all’ucla. Lui mi aveva detto che potevo accompagnarlo nella sua passeggiata mattutina se fossi arrivato al suo albergo per le otto. Preparato com’ero a intervistare questa leggenda vivente in movimento, sono stato molto contento quando ci ha ripensato e abbiamo chiacchierato seduti sul suo letto disfatto, con il banjo e la chitarra a dodici corde ai nostri piedi. Una settimana dopo, grazie alla sua indole generosa e giornalistica, ci siamo riparlati al telefono dalla sua casa nello Stato di New York.
Ti ricordi quando hai scritto la tua prima canzone?
Da bambino scrivevo poesie. Mio zio era un poeta, avevamo una tradizione poetica di famiglia. Mio nonno scriveva versi leggeri, mentre io e uno dei miei fratelli, di tanto in tanto, cercavamo di scrivere una poesia. Ma ho cominciato sul serio a scrivere canzoni solo quando ho incontrato Woody Guthrie. All’improvviso ho imparato qualcosa di terribilmente importante, vale a dire: non ossessionarti nella ricerca dell’originalità a tutti i costi. Se ti capita di ascoltare una vecchia canzone che ti piace e vorresti cambiarla un po’, farle qualche piccola modifica non è un delitto.
Vedevo Woody che lo faceva con una canzone dopo l’altra. Non c’è voluto molto perché lo sentissi cantare: (canta) “T come Texas, T come Tennessee…” Era l’autunno del 1940 e così io cantavo: (canta) «C for conscription, C for Capitol Hill, C for Congress, pass that goddamn bill…» [“C come leva obbligatoria, C come Capitol Hill, C come Congresso, fai passare quel dannato emendamento...”].
Quindi si potrebbe dire che quella è stata una delle mie prime canzoni. Ho usato la stessa melodia che Woody aveva preso da Jimmie Rodgers, e la stessa strofa di Jimmie Rodgers che avevo sentito cantare da Woody. E ci ho lavorato su.
Tu e Woody discutevate di songwriting?
No, non ne discutevamo in maniera teorica. Lo mettevamo direttamente in pratica. E non sempre ci trovavamo d’accordo. Io ero influenzato dalla musica caraibica, e nel 1942 avevo scritto una canzone su una donna che aveva un’associazione di lavoratori domestici ad Harlem, New York, usando una melodia di chiaro stampo caraibico. Woody era furioso. Disse: “Oh, questo non è il nostro tipo di musica. Falla cantare a quella gente una musica così, loro sanno come farlo”. Si è rifiutato di cantarla e alla fine io mi sono arreso… non era un granché come canzone. Ma questa è una cosa vera per la maggior parte delle canzoni che scrivi. Devi metterti in testa che anche se scrivi dozzine, se non centinaia di canzoni, sei fortunato se una su dieci merita di essere ancora cantata a distanza di un anno.
Woody era una persona felice?
Direi che fondamentalmente lo era. Era un tipo ottimista, positivo. Era in cerca del lato positivo delle cose, però nello stesso tempo non voleva ignorare quello negativo. Non era il tipo che vedeva sempre tutto nero. Ma Woody era un realista e non voleva far finta che non esistesse un lato triste. La grandezza dei suoi testi, credo, sta nel fatto che spesso nelle canzoni riusciva a unire queste due cose insieme. “So Long, It’s Been Good to Know You” contiene la tragedia del Dust Bowl,3 ma anche la comicità di quella situazione. L’innamorato canta: «Oh honey, I’m not talking about marriage, I’m saying, “So long, it’s been good to know you”» [“Oh, dolcezza, non sto parlando di matrimonio, sto dicendo: ‘Addio, è stato bello conoscerti’”]. “Si abbracciarono e si baciarono, sospirarono e piansero…” e così via, ma poi: “Addio, è stato bello conoscerti”. (Ride.)
Un’altra canzone di Woody che unisce tristezza e umorismo è “Tom Joad”. La leggenda vuole che tu gli avevi messo a disposizione una macchina da scrivere, lui ci ha lavorato tutta la notte scolandosi una brocca di vino, e il mattino dopo la canzone era finita. Ti sei meravigliato che fosse riuscito a creare un capolavoro in questa maniera?
Be’, meravigliato no. L’avevo già visto fare una cosa del genere. “Union Maid” è nata così. L’ho visto mettersi a sedere alla sua macchina da scrivere di mattina presto e fare tap-tap-tap sui tasti fino a quando una o due ore dopo aveva pronte cinque strofe. In realtà solo due meritavano di essere tenute.
Una volta ho letto che hai scoperto la musica folk a sedici anni.
Be’, le cose non sono così semplici. Dopotutto, quando avevo otto anni, cantavo gli inni natalizi, molti dei quali sono canzoni folk inglesi o francesi. “King Wenceslas” è una canzone folk svedese con parole riadattate. A scuola cantavo le canzoni folk che c’erano sul canzoniere scolastico: (canta) «The keeper did a’hunting go…» E così via. Molta gente ritiene che quello sia stato il primo tentativo di rendere più popolare la musica folk. Non ha funzionato, esattamente come non ha funzionato a mio avviso il secondo tentativo, fatto negli anni Sessanta. E non ha funzionato negli anni Venti.
Mio padre, negli anni Trenta, ha cominciato a ragionare sull’argomento insieme ad Alan Lomax, domandandosi: “Perché è fallito?” La conclusione a cui sono arrivati è che si sperava di far imparare la musica folk a scuola dalle pagine di un libro. Non si può. Perché bisogna ascoltare lo stile. Non bastava leggere la struttura di una melodia così com’era scritta sulla carta. In quel modo non si riescono ad afferrare tutte le sfumature più delicate. Ed era comprensibile che i bambini non fossero particolarmente attratti da una cosa del genere. Così negli anni Trenta mio padre e Alan Lomax hanno detto: “Insistiamo perché i ragazzi ascoltino la musica, tanto per cominciare, poi potranno scegliere da soli in che modo cantarla. E la maggior parte di loro vorrà probabilmente suonarla nel modo in cui l’ha sentita”.
Io ero uno di questi ragazzini. Avevo sedici anni quando mi hanno portato a un festival nel North Carolina. Quindi sono stato uno dei primi studenti yankee a innamorarsi della musica folk del Sud. E penso che per Bob Dylan e per molti altri sia stato lo stesso. Una cosa molto simile. Si sono detti: “Ehi, questa musica è fantastica! Per quale motivo io devo sorbirmi la merda che passa per radio? Questa è la cosa migliore che abbia mai sentito”.
Naturalmente poi si è visto cosa è successo negli anni Cinquanta e Sessanta. I produttori di musica commerciale sembravano possedere il tocco di Re Mida. Solo che non tutto si trasforma in oro, spesso si trasforma in spazzatura. E comunque vivere nell’oro non dà grandi soddisfazioni. La gente ha bisogno di cibo e di amore. Non ha bisogno d’oro.
Tin Pan Alley,4 che per me rappresenta l’intero business della musica commerciale, tende spesso a dire: “Ehi, questa cosa si vende bene, promuoviamola”. Poi, quando la promuovono, si mettono lì a ragionare: “Cos’è che vende davvero bene?
Sbarazziamoci di tutta quella roba che non vende bene”. E allora provano a eliminare le canzoni di protesta. Negli anni Venti hanno eliminato il sesso. Tutte quelle canzoni folk meravigliose che parlavano di sesso sono state censurate durante gli anni Venti sia in Inghilterra che da noi.
Quando nel 1964 andò in onda lo spettacolo della abc “Hootenanny”, furono molto attenti a fare in modo che nella scaletta del programma non ci fosse nessuna canzone di protesta contro la guerra in Vietnam. È la stessa cosa di andare da un pittore e dirgli: “Signor Michelangelo, lei è un bravo pittore. Adoro il modo in cui disegna le rocce e gli alberi e via dicendo, e queste tonalità color carne sono stupende. Ma levi questa persona dalla croce. La metta in poltrona”.
Insomma, sono molto contento che ci siamo lasciati alle spalle questa “fobia da folk” del 1964, che la cosa abbia fatto il suo tempo. E quando la gente mi chiede: “Pensi che ci sarà un revival della musica folk?”, rispondo senza esitazione: “Spero di no”.
Spero che si ritorni a una comprensione molto più profonda di che cosa è veramente la musica folk.
In primo luogo si tratta di un processo, e non di una data canzone o di un dato cantante. È un processo in cui delle persone qualunque prendono delle vecchie canzoni e se ne impadroniscono. Non si limitano ad ascoltarle, ma le cantano, le accompagnano e le trasformano.
I neri l’hanno sempre fatto, da quando sono arrivati in questo continente. Perché in Africa il processo del folk è fortissimo. Quando gli africani si sono ritrovati qui hanno semplicemente continuato a fare quello che avevano fatto per secoli e secoli. E quando hanno preso in mano tromba e clarinetto hanno creato il jazz, quando invece hanno preso la chitarra hanno creato il blues. Sono affascinato nel vedere che questo processo continua ancora.