Saddam Hussein - Rivelazioni d'oltre tomba
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Jeune Afrique, 9/15 agosto 2009
Saddam Hussein – Rivelazioni d’oltre tomba
Il 30 dicembre 2006, riconosciuto colpevole di crimini contro l’umanità dal Tribunale speciale iracheno, Saddam Hussein viene impiccato. Due anni prima il rais era stato interrogato dallo FBI. L’amministrazione Obama ha appena tolto il segreto della Difesa su questa intervista storica
di Nicolas Marmié
“Job is done”. Sono passati sei anni dalle trionfanti bugie di George W. Bush, pronunciate il 1 maggio 2003, all’indomani della invasione nordamericana dell’Iraq. Per quanto riguarda la “missione compiuta”, sono decine di migliaia i civili iracheni (secondo alcune ONG nordamericane i morti sarebbero più di 100.000) che sono stati uccisi da interminabili operazioni di pacificazione e da un terrorismo cieco. Oggi, lasciando dietro di sé un paese squassato perfino nella sua unità nazionale, i GI ed i marines preparano i bagagli prima di avventurarsi in un nuovo inferno, quello dell’Afghanistan. Ironia della Storia, è in questo momento di passaggio che Saddam Hussein torna a far parlare di sé.
Condannato per crimini contro l’umanità e giustiziato per impiccagione il 30 dicembre 2006, l’ex presidente iracheno era stato lungamente interrogato dallo FBI, dal febbraio al maggio 2004. Preoccupata di sbarazzarsi dei cadaveri più ingombranti lasciati negli armadi della Casa Bianca da George W. Bush, l’amministrazione Obama ha appena declassificato questa ventina di interviste. Di fronte al dittatore deposto (umiliato davanti alle telecamere del mondo intero mentre gli spidocchiavano la barba dopo il suo arresto, il 14 dicembre 2003), è George Piro che pone le domande. Agente speciale dello FBI, di origine libanese e capace di parlare correntemente l’arabo e il francese, Piro sembra essere riuscito a guadagnarsi la fiducia di un Saddam Hussein scombussolato, stordito, ma sempre con un’alta idea di sé e del suo destino. Ed è con un’astuzia tutta orientale che l’agente Piro induce il rais a confidarsi. Certamente assai provato dopo nove mesi di clandestinità e due mesi di detenzione, il prigioniero abbandona piano piano la sua corazza di tiranno. La veemenza tautologica di cui darà prova nel corso del suo processo nel 2006 non è stata ancora messa a punto, ma qualche volta riprende il controllo e riesce ad evitare le questioni più imbarazzanti – come quelle concernenti l’esecuzione della quasi totalità dei suoi nemici politici o le vessazioni massicce commesse contro i civili curdi e sciiti. Specialista del politichese e della retorica, spesso furbacchione, sempre sicuro di sé, l’uomo delle tre guerre, responsabile della morte di almeno due milioni di iracheni, sembra assai soddisfatto del suo bilancio. Perché, come ammette lui stesso, “restare in pace non è facile”.
Da notare infine che il documento declassificato dallo FBI non è un interrogatorio classico, fatto di domande e di risposte. Si tratta di un resoconto in forma indiretta redatto da Piro, inframmezzato da citazioni di Saddam Hussein. Contiene peraltro lunghi passaggi censurati che non sono stati declassificati per ragioni di “sicurezza nazionale”.
Abilmente costruito, questo documento è anche uno strumento di giustificazione, a posteriori, di venti anni di politica nordamericana in Iraq, anche se assai raramente si menziona l’attività ufficiale o segreta di Washington in Medio Oriente. Bisogna anche segnalare una nota confidenziale nella quale l’agente speciale sottolinea di essersi guadagnato la fiducia di Saddam Hussein “mostrandosi non ostile” nei suoi confronti. Anche se, due anni prima del processo del presidente deposto, lo aveva chiaramente avvertito che “la sua vita era alla fine”.
E’ con tutte queste riserve che Jeune Afrique pubblica i passi principali delle confessioni di Saddam Hussein, l’erede gallonato di Nabucodonosor. Una testimonianza che avrà un giorno il suo posto nei libri di storia.
Contesto dell’interrogatorio
“Io parlerò di tutto, tranne di quello che possa danneggiare il mio popolo, i miei amici o l’esercito”, premette Saddam, che nel corso delle prime interviste si mostra teso. Precisa: “Credo che le domande debbano essermi rivolte nell’ambito di un dialogo e non di un interrogatorio”. Secondo Piro, Saddam si è progressivamente rilassato nel corso degli incontri, fino a ridere talvolta, al ricordo di qualcosa.
“E’ difficile parlare di me”, afferma pudicamente l’ex dittatore, che parla spesso di sé in terza persona. Allo stesso modo arriva a opporre il segreto di Stato alle sollecitazioni troppo insistenti. “Se lei decidesse di pubblicare un libro dei nostri colloqui, si assicuri che sia tradotto in arabo” domanda. Altra esigenza del “detenuto di alto rango numero uno”, secondo la terminologia dello FBI: che l’agente Piro si rivolga a lui come ad un capo di Stato. “Io non sono l’ex presidente iracheno, io sono sempre il presidente dell’Iraq”.
Arresto e latitanza
Saddam afferma di avere lasciato Bagdad il 10 o 11 aprile 2003, quando la capitale stava per cadere nelle mani dei nordamericani. Ha presieduto una riunione dei principali collaboratori, ordinando loro di disperdersi: “Continueremo la lotta clandestinamente”. La fattoria dove è stato arrestato nel dicembre 2003, è la stessa nella quale aveva trovato rifugio nel 1959 dopo un tentativo di golpe contro il presidente Kassem. E’ convinto che il rifugio sia stato segnalato da un traditore. Ma dice: “Dio ci ha insegnato a non sorprenderci per i tradimenti”. Interrogato sull’esistenza di uno o di diversi sosia durante gli ultimi mesi del suo regno, risponde: “E’ una invenzione, è una cosa da cinema”. Invitato a precisare quale fosse la sua auto di servizio alla vigilia dell’attacco nordamericano e più precisamente se si trattasse di una Mercedes nera, risponde: “E’ possibile, noi abbiamo Mercedes di tutti i colori”. Conferma l’esistenza di una ventina di palazzi presidenziali, di “proprietà del popolo”, costruite più per ragioni di sicurezza che per comodità. La mobilità del rais è in effetti considerata come una delle cause della sua longevità politica. Commentando la tragica fine dei suoi figli (Oudai e Koussai, uccisi dall’esercito USA il 22 luglio 2003 a Mossoul, quando si parlava di loro come dei successori del padre, che figuravano nel primo elenco dei 55 dignitari sulla cui testa Washington aveva posto una taglia), Saddam spiega: “Penso ancora a loro e al modo in cui sono stati martirizzati. Resteranno degli esempi per tutti in tutto il mondo”.
Il suo bilancio e il suo prestigio
Saddam ritiene di avere servito il popolo iracheno per molti anni. I suoi più grandi successi sono stati la realizzazione di programmi sociali ed i miglioramenti registrati sul piano economico, l’educazione, il sistema sanitario, l’industria, l’agricoltura. “Non ci sono orfani nelle strade irachene” assicura, aggiungendo di non prestare molta attenzione a quello che la gente dice o pensa oggi di lui. L’essenziale è che resterà nella storia per cinquecento o mille anni. Saddam pensa che gli sarà riconosciuta la sua lealtà e il fatto di avere “resistito all’oppressione”. Malgrado le sofferenze delle guerre contro l’Iran e del Golfo, tiene a sottolineare che il popolo iracheno lo ha rieletto nel 2002 con il 100% dei suffragi.
Quando era lui al potere, pochi iracheni si preoccupavano di sapere chi era sunnita e chi sciita. Il partito non prendeva in alcuna considerazione l’appartenenza etnica o religiosa. Così uno dei principali esponenti del regime, Tarek Aziz, era cristiano. “Lei sarà anche sorpreso di sapere – confida - che nel 1964 il segretario generale del partito era curdo”.
La sua concezione del potere
Saddam si descrive come un “rivoluzionario che ama il popolo e il partito”. Se avessi voluto essere un politico, avrei potuto esserlo. Ma – dice – io non amo né la politica né gli uomini che la fanno”.
“Un leader non si fabbrica in una officina europea. Si forma e cresce gradualmente”, aggiunge l’ex padrone di Bagdad, che si è sempre sentito “in obbligo verso il popolo iracheno”. Pretende di non amare il potere per il potere e afferma di aver chiesto per due volte, nel 1968 e nel 1974, di essere sollevato dalle sue responsabilità in seno al partito Baas. Avrebbe potuto diventare un contadino. Ma il partito ha respinto le sue dimissioni. E, nel 1979 è stato perché il suo predecessore, Ahmed Al-Bakr, malato, lo aveva “implorato”, che ha finito con l’accettare di succedergli. Ritiene che alcuni si siano opposti alla sua nomina perché sapevano che “non è facile strumentalizzarlo”. Prima di concludere: “Io non ho paura di nessuno, ho solo paura di Dio”.
Interrogato su una riunione di governo, nel corso della quale è stato visto con un sigaro, Saddam ammette di “fumare raramente” e solo in “periodi difficili”.
Quanto al culto della personalità che ha segnato gli ultimi anni del suo regno: “Era una scelta dei cittadini iracheni quella di appendere il ritratto di Saddam Hussein nei loro appartamenti”.
Quando gli si domanda se pensa di aver commesso degli errori nel quarto di secolo che è stato alla testa dello Stato, è elusivo: “Lei pensa che io vada a dire al mio nemico che ho commesso un errore?”
La rivoluzione baasista del 1968
Saddam Hussein dipinge un quadro cupo della società irachena, prima della presa del potere da parte del partito baasista e sottolinea l’importante ruolo da lui svolto nel colpo di Stato rivoluzionario.
Nel 1968 il popolo iracheno “non aveva quasi niente”. I terreni agricoli erano trascurati e i metodi di coltivazione arcaici. L’economia irachena dipendeva quasi esclusivamente dalla produzione del petrolio, principalmente destinato all’esportazione e sfruttato da compagnie straniere il cui controllo sfuggiva al governo. L’Iraq aveva molto da apprendere dagli altri paesi. Saddam e i suoi compagni hanno molto viaggiato negli altri paesi arabi. Hanno scoperto che Il Cairo e Damasco erano molto più moderne di Bagdad. Hanno anche visitato l’Urss, la Francia, la Spagna, l’Iran e la Turchia. Ma, precisa, “non abbiamo mai dimenticato che siano arabi e iracheni, e che gli iracheni hanno il loro proprio modo di vivere tra loro”.
Circa le modalità del colpo di Stato militare che ha rovesciato il presidente Abd al-Rahman Aref, nel 1968, afferma di aver fatto tutto il possibile per evitare “un bagno di sangue”. “Ero io che comandavo il tank che ha bombardato il palazzo presidenziale”.
Interrogato sulla partecipazione al golpe del colonnello Abderrazak Nayif, il capo dell’intelligence militare, si ricorda che questi aveva proposto di collaborare coi “rivoluzionari” ma che, alla fine, si era improvvisamente allontanato. “Con una sola arma, sono stato capace di impossessarmi di tutte quelle di Nayif e degli uomini della sua guardia. E’ stato come al cinema - gigioneggia l’ex rais - . Quando prometto qualcosa, la faccio. Noi avevamo promesso che non sarebbe stato fatto alcun male al presidente Aref , e così è stato”. Il colonnello Nayif, dal canto suo, venne assassinato a Londra poco dopo il colpo di Stato. Interpellato sugli autori di questo attentato attribuito ai servizi segreti iracheni, Saddam risponde: “E’ stato Dio ad ucciderlo. Aveva cominciato a portare avanti azioni ostili al suo paese. E’ andato in Iran, si è incontrato con Massoud Barzani (lo storico leader curdo) nel Nord dell’Iraq, e secondo alcune fonti ha anche incontrato Moshe Dayan (militare e uomo politico israeliano). Sono state cattive azioni. Chi l’ha ucciso? Questo è un altro paio di maniche. Solo Dio lo sa”.
Interrogato poi sull’assassinio, nel 1980 a Bagdad, dell’ex ministro degli Affari Esteri Abdelkarim Shaykhly, dice solo: “Molti crimini sono rimasti irrisolti” e ricorda come non siano stati identificati nemmeno coloro che avevano tentato di ammazzare Tareq Aziz o il suo primogenito Oudai (ferito con quattro colpi di pistola mentre era al volante della sua Porsche nel 1996).
Il conflitto israelo-arabo
“Tutti i tentativi di capire le radici della questione palestinese dovrebbero essere fatti dal punto di vista di un Arabo, e non solo da quello di un Palestinese”, sentenzia. La base di una soluzione definitiva passa per la creazione di uno Stato palestinese indipendente. Dopo la guerra dei sei giorni, e la rapida disfatta degli eserciti egiziano e siriano, il mondo arabo è diventato “triste e depresso” e si è nutrito di sentimenti rivoluzionari. Il presidente egiziano Nasser, anche dopo la guerra dei sei giorni, “poteva rappresentare gli Arabi” agli occhi del mondo, mentre gli altri dirigenti erano “deboli”. E’ stato il solo ad avere una relazione di vicinanza con le “masse arabe”.
Nel 1973, il presidente egiziano Anouar el-Sadate non ha potuto ridare speranza agli Arabi. Non era uomo dalle “salde convinzioni” ed il popolo e i soldati egiziani non erano stati da lui “motivati”. Firmando la pace con gli Israeliani senza ottenere la restituzione delle terre ai Palestinesi, è diventato un “traditore della causa”. Hussein afferma che l’Iraq ha partecipato alla guerra del 1973, con un contributo militare aereo ed una forza terrestre combattente in Siria. “Cosa potevamo fare di più? Abbiamo mandato tutti i nostri soldati a combattere sotto il comando egiziano e siriano”. Ed a proposito dell’incapacità dello Stato Maggiore siriano a collaborare efficacemente con le forze irachene (mappe, mezzi di comunicazione): “Un perdente non sa più dove sono la sua testa e i suoi piedi”.
Aggiunge che l’Iraq ha sempre accolto i rifugiati palestinesi a braccia aperte, fina dal 1948 e poi nel 1970, dopo il Settembre nero in Giordania, e nel 1991 dopo la prima guerra del Golfo. “Li abbiamo bene accolti, abbiamo dato loro un lavoro e concesso il diritto di avere una terra e un alloggio – assicura, precisando che “nessuno è tanto generoso come un iracheno”.
Interrogato sulle tensioni che una tale immigrazione ha potuto provocare, risponde: “Se noi accogliamo un ospite, abbiamo il diritto di aiutarlo. Ma un ospite non può esigere quello che vuole per pranzo e cena”.
La guerra Iran-Iraq (1980-1988)
“Khomeiny avrebbe invaso tutto il mondo arabo se l’Iraq non glielo avesse impedito”. Il paese ha accettato due volte il cessate-il-fuoco proposto dall’ONU, nel 1980 e nel 1987, ma l’Iran lo ha respinto fino al 1988, “dopo aver perso la guerra”. L’Iraq ha ricevuto aiuto dai paesi arabi. Saddam pensava che questo aiuto fosse un dono, non un prestito. Dopo la guerra, questi paesi hanno “cambiato idea” e chiesto di essere rimborsati. Altri hanno anche considerato l’Iraq come una minaccia militare. Al contrario dell’Iran, il cui esercito era stato distrutto.
Alla fine della guerra, mentre l’Iraq cominciava la sua ricostruzione, il prezzo del barile di petrolio è caduto, raggiungendo i 7 dollari al barile. Secondo Hussein, non sarebbe stato possibile avviare la ricostruzione del paese con un prezzo a tali livelli. L’Iraq riteneva che il Koweit fosse responsabile di questa situazione, nell’ambito di un “complotto” assai più vasto. Il Koweit ha poi annunciato che non si sarebbe attenuto alla decisione dell’Opep di ridurre la produzione per far alzare il prezzo del petrolio intorno ai 16 dollari. Hussein precisa inoltre che è stato lui stesso a chiedere che il prezzo del brut non crescesse a dismisura, per non penalizzare i paesi occidentali.
Guerra del Golfo (1990-1991)
Rivolgendosi a Piro: “Lo chiedo a voi che siete nordamericano. Quando gli Usa hanno arrestato i rifornimenti di cereali all’Iraq? Nel 1989. Quando gli USA hanno chiesto agli Europei di bloccare la vendita di tecnologie all’Iraq? Nel 1989. Gli USA avevano un piano di distruzione dell’Iraq, un progetto caldeggiato dai sionisti, influenti nelle elezioni USA. Questo piano nordamericano era appoggiato anche da alcuni vicini dell’Iraq, soprattutto Israele, che considerava l’Iraq come una pericolosa minaccia militare fin dalla fine della guerra con l’Iran. Ne sono convinto”.
Parlando del Koweit e della cooperazione militare di quest’ultimo con gli Stati Uniti, segnata soprattutto da un’importante visita, nel 1989, del generale nordamericano Norman Schwartzkopf, il capo del comando centrale dell’esercito USA, Saddam afferma che le manovre militari svolte con Egitto e Giordania, e l’appoggio di Israele, già indicavano l’Iraq come un potenziale nemico. “E’ difficile evitare qualcuno che staziona armato davanti casa tua, l’unica è uscire e sparargli contro”, spiega prima di precisare che la conquista del Koweit è stata completata “in meno di due ore”.
C’erano anche delle ragioni storiche per considerare il Koweit come la diciannovesima provincia irachena. “Se voi dite agli Iracheni che il Koweit fa parte dell’Iraq, essi saranno felici”, pensa l’ex-presidente, che ricorda come “la nazione araba, dal ricco al povero, è una nazione con una sola lingua, la stessa religione, frontiere comuni e le stesse aspettative”. Anche il contesto internazionale ha avuto il suo peso nello scoppio della guerra, con la fine, nel 1989, dell’equilibrio di forze tra URSS e USA. Infine, sempre secondo Saddam, è stato allora che Washington ha capito che la guerra in Afghanistan sarebbe stata insufficiente ad alimentare il suo complesso militare-industriale. Dopo avere sperato in una mediazione dell’Arabia Saudita, l’Iraq ha dunque annesso il Koweit per prevenire i progetti di aggressione israelo-nordamericani e finanziare i suoi sforzi di ricostruzione. E anche per rispondere ai “desideri del popolo kuwaitiano, che voleva sbarazzarsi dei suoi dirigenti arroganti e stupidi”. Ma il “complotto” internazionale si è richiuso su di lui. Cosciente dei rischi corsi, Saddam dichiara a posteriori che avrebbe preferito “una soluzione pacifica”.
Repressione dei curdi e degli sciiti
Per ciò che concerne le ribellioni scoppiate in Iraq all’indomani del cessate il fuoco del 1991, l’ex rais ritiene che si trattasse prima di tutto di operazioni di “sabotaggio”. Nel Sud gli insorgenti non erano rivoluzionari. Erano dei “ladri, dei fuorilegge infiltrati dall’Iran”, che “voleva controllare il sud dell’Iraq (a maggioranza sciita)”. Dopo avere ristabilito l’ordine al sud, ritiene di aver “restaurato l’ordine” al nord, in Kurdistan, in soli due mesi. Riassume: “Dio ci ha donato la vittoria”.
Interrogato sulle vessazioni inflitte alle popolazioni civili (soprattutto l’uso di gas tossici, come nel 1988 a Halabja, in Kurdistan, che sarà una delle ragioni della sua condanna a morte nel 2006), risponde: “Un iracheno, civile o militare, sa quali sono le condotte umanamente accettabili e non ha bisogno che nessuno gliele spieghi”.
Piro insiste leggendogli la testimonianza di un osservatore umanitario che afferma di aver visto un carro iracheno entrare a Bassora con tre bambini saldamente legati sul cofano. “Menzogne!” risponde Saddam che, di fronte all’insistenza con la quale il suo interlocutore ricorda gli scudi umani, taglia corto: “Lei ha sentito quello che ha sentito. Io ho sentito quello che ho sentito”.
Invitato ancora a commentare il disastro ecologico che ha prodotto l’incendio dei pozzi di petrolio kuwaitiano nel 1991, chiede se questa decisone abbia avuto “peggiori conseguenze dell’esplosione della centrale nucleare di Cernobyl “.
Armi di distruzione di massa
Malgrado la sconfitta e l’embargo del 1991, l’Iraq è riuscito in dieci anni a “ricostruire quasi tutto”. Ricordando la risoluzione 687 del Consiglio di sicurezza dell’ONU che obbligava l’Iraq a dichiarare l’eventuale possesso di armi biologiche o chimiche ed a distruggerle, tiene a precisare che questa risoluzione non era stata adottata nello “spirito delle Nazioni Unite”, ma per insistenza degli USA. Si domanda quale esigenze avesse l’ONU sul punto, dal momento che altre risoluzioni, soprattutto quelle concernenti Israele, non sono mai state applicate. Ricorda che gli Stati Uniti hanno usato delle armi vietate in Vietnam e si chiede se i nordamericani accetterebbero una ispezione della Casa Bianca da parte degli Iracheni, per cercare se vi sono queste armi. Saddam aggiunge tuttavia di avere ottemperato alla risoluzione 687 distruggendo i suoi stock di armi illecite, e ciò fin dal 1998, ma commettendo l’”errore” di non farlo sotto la supervisione delle Nazioni Unite. E’ stato questo “errore” che, in seguito, ha reso difficile il dialogo con gli ispettori delle Nazioni Unite, mentre l’Iraq era sottoposta ad embargo internazionale e il suo spazio aereo era limitato. Secondo Hussein, l’Iraq ha preferito prevenire il problema, piuttosto che assumersi i costi e la logistica di una missione di ispezione. Tuttavia l’Iraq aveva risposto a tutte le ingiunzioni del Consiglio di Sicurezza. A riprova di questo Hussein esclama: “Dio mio, se noi avessimo avuto queste armi, le avremmo usate contro gli Stati Uniti”.
Oussama Ben Laden
Saddam Hussein afferma di non aver mai visto o incontrato personalmente Oussama Ben Laden, che paragona ad uno “zelota”. Per contro non nega che due volte dei responsabili iracheni hanno incontrato membri di AlQaida in Sudan (nel 1994) e a Bagdad. Secondo lui “la religione e la politica non devono essere mischiate”.
Guerra del Golfo II
“Gli Stati Uniti hanno utilizzato gli attentati dell’11 settembre per attaccare l’Iraq”, assicura Saddam. Durante la seconda guerra del Golfo, ritiene che il solo alleato degli Stati Uniti sia stato il Regno Unito. Tutti gli altri grandi paesi, come la Francia, la Germania, la Cina e la Russia erano contro la guerra. Per riassumere, malgrado l’inesistenza di armi di distruzione di massa, “gli Stati Uniti cercavano un pretesto per agire”.
Gli Stati Uniti
Saddam tiene a precisare che egli non è “il nemico del popolo americano” – del quale apprezza la cultura, soprattutto il cinema – ma quello dei “dirigenti americani”. “Gli Stati Uniti hanno pagato caro i loro errori in Iraq e nel mondo intero, e continueranno a pagare. Se chiedete a un soldato nordamericano venuto in Iraq a cercare le armi di distruzione di massa, quando non ne è stata trovata nessuna, per rimpiazzare la dittatura di Saddam Hussein con un’altra dittatura, se preferisca restare o andarsene, risponderà che vuole andarsene”.
L’avvenire dell’Iraq
Al momento in cui si svolgono queste interviste, Saddam si mostra convinto che l’Iraq “sopravvivrà”. E’ una grande nazione che ha superato numerose soglie della storia. Le nazioni arrivano in genere al loro apogeo una sola volta. L’Iraq vi è giunta più volte, ed è il solo paese ad averlo fatto nella storia dell’umanità. E’ un “dono di Dio”. Saddam spera che l’Iraq possa progredire in tutti i campi, finanziario, religioso. Ed essendo un “umanista”, si augura la stessa cosa per il popolo nordamericano.