Sistema carcerario e islamismo
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Cf2R (Centre Français de Recherche sur le Renseignement), febbraio 2018 (trad. ossin)
Sistema carcerario e islamismo
Abderrahmane Mekkaoui
Per contenere l’islamismo nelle prigioni, non potendo sradicarlo, le soluzioni variano da un processo dolce, la deradicalizzazione, alla soluzione estrema, l’intervento militare. Ma è anche interessante osservare come l’islam ha trattato, alle sue origini, coloro che gli si opponevano con la parola e con la spada, prima di tornare all’attualità che resta, per molti versi, esplosiva e minacciosa.
L’assenza di un sistema carcerario all’epoca del profeta e dei suoi successori
Il sistema giudiziario e carcerario non è menzionato nei testi sacri dell’islam (Corano e Sunna). All’epoca del profeta, e anche dei suoi successori, un prigioniero politico o di diritto comune serviva come moneta di scambio tra le tribù, quando non era semplicemente fatto fuori. Lo Stato, una struttura leggera creata dal Profeta a Medina, non aveva né sistema giudiziario né prigioni. Ha solo riprodotto la cultura pre-islamica chiamata « stadio dell’ignoranza » (Jahiliya), che molti storici considerano l’età dell’oro che ha permesso la nascita dell’islam. Il profeta svolgeva il ruolo di cadi (giudice) e di legislatore, oltre a quello di imam e capo guerriero, secondo le prescrizioni della Rivelazione.
Ma non era proprio previsto che un criminale, o un oppositore politico, venisse messo in carcere, in quanto i processi erano sommari e la sentenza eseguita subito: tagliare la mano del ladro, flagellare il fornicatore, ecc. La legge del taglione e le raccomandazioni della Torah erano effettivamente applicate e si ricorreva anche al codice Hammurabi.
La nascita del cadi si avrà solo con la dinastia abaside. Il califfo Al-Mamoun diede vita a un programma giudiziario e carcerario simile a quello dei Romani e dei Persiani, accettando l’idea che lo Stato vuol dire tanto imposte che polizia – quest’ultima espressione comprensiva anche della giustizia nella sua più ampia accezione.
Secondo il Califfo, la prigione non doveva servire solo a punire chi aveva violato la legge, ma doveva pure assicurare una forma di reinserimento. Influenzati dal pensiero mutazilita (1), i califfi abasidi ritenevano che il mussulmano occupasse un posto tanto importante nel califfato che era dunque necessario salvarlo anche se aveva deviato dalla retta via. Dunque, all’epoca delle grandi conquiste musulmane, i prigionieri erano divisi in tre grandi categorie:
– quelli istruiti, incaricati di dare lezione ad una decina di persone in cambio della liberazione;
– quelli ricchi, che dovevano pagare un riscatto a profitto di Beit Al-Mal (l’equivalente del Tesoro pubblico) ;
– gli illetterati e I poveri convertiti all’islam che venivano semplicemente scarcerati o utilizzati nel lavoro di jihad.
Il sistema carcerario avrebbe conosciuto un’altra evoluzione con i Fatimidi, che aprirono degli « ospedali psichiatrici » chiamati Maristan, dove venivano rinchiusi prigionieri e malati mentali. Questo approccio è durato secoli, fino all’arrivo degli Europei (spedizione d’Egitto, 1798-1801) che hanno introdotto il sistema carcerario moderno in Algeria, in Egitto e in Siria.
Le prigioni, luogo di radicalizzazione in Medio oriente a partire dagli anni 1960
Il fenomeno delle prigioni che diventano luogo di radicalizzazione islamica prende forma in Egitto negli anni 1960, dopo che i Fratelli Musulmani respinsero a grande maggioranza la proposta di amnistia del colonnello Nasser, dando la stura ad arresti di massa.
Fu allora che venne creato il movimento Attakfir wal Hijra, (Scomunica e immigrazione), che lanciò un anatema contro quelli dei Fratelli Musulmani che avevano accettato l’amnistia e abbandonato i ranghi della Confraternita per sfuggire ai sinistri bagni penali del Cairo. All’epoca Mustafa Choukri diede il cambio a Sayyid Qutb nella sua crociata contro lo Stato « empio ed eretico ». In questo gruppo si misero in luce due individui ancora più radicali, Ayman Al-Zawahiri e Omar Abderrahmane (2), che predicavano il jihad e finirono poi con l’allearsi ad Osama bin Laden per creare Al Qaeda.
Questa stessa dinamica si produceva anche in altri spazi carcerari del Medio Oriente. E’ nella prigione di Amman, infatti, che Abu Moussab Al Zarkaoui si fece le ossa. Ricordiamo anche che fu dalla sinistra prigione di Bouka, a Bassora, in Iraq, che Al-Baghdadi sarebbe uscito insieme ad Abu Mohamed Al-Adnani – recentemente eliminato – per creare lo Stato Islamico (Daesh). Lo stesso per Abu Mohamed Al-Joulani, emiro del gruppo jihadista Al-Nusra, un tempo detenuto nella prigione di Palmira; per Abdelmalek Droudkal, (capo di Al Qaeda nel Maghreb Islamico), incarcerato nella prigione di Barberousse – chiamata anche prigione di Serkadji – in Algeria; per Mokhtar Belmokhtar, a Ghardaïa (Algeria), per Abi Bakr Chikou, a Borno (Nigeria), ecc.
Tutti questi capi jihadisti e takfiri che hanno dichiarato guerra all’umanità intera nel nome di Daesh o di Al Qaeda condividono un tratto comune: la loro radicalizzazione, la loro determinazione a vendicarsi, sono nate nelle prigioni.
Le prigioni, vivaio dell’attuale radicalizzazione in Europa
Allo stesso modo, a partire dagli anni 1990, osserviamo l’emergere di emiri e imam nelle prigioni, in Europa, che veicolano verso i detenuti un discorso direttamente legato all’islam politico che predica la dottrina takfira, la scomunica della società e dei governanti.
L’islamizzazione dei detenuti di diritto comune nelle prigioni è legata al diffondersi del salafismo in tutte le grandi metropoli europee, soprattutto alla fine del decennio nero algerino. I responsabili europei si sono accorti tardivamente che questi detenuti di diritto comune, per lo più recidivi, uscivano da questa « lavatrice » con la ferma determinazione di commettere attentati. C’è da evidenziare che questi delinquenti vengono indirettamente, e inconsapevolmente, indirizzati dai custodi verso i salafiti che marciscono in prigione, pur mettendoli in guardia dal rischio dell’arruolamento forzato. Ma dimenticando en passant che in questo modo creano un sentimento di solidarietà tra i delinquenti comuni e gli emiri salafiti.
Nessun paese europeo ha attuato misure serie dirette a sottrarre i prigionieri di diritto comune all’influenza degli islamisti; abbandonati a se stessi, diventano una facile preda per i predicatori dell’odio. Oltre ai guardiani della prigione, mal formati e impreparati a fronteggiare questo slittamento del gangsterismo verso il jihadismo, gli psicologi ignorano completamente i meccanismi di radicalizzazione dei detenuti.
Quanto ai religiosi – imam e cappellani – presenti in ambiente carcerario, non hanno mai impostato un dialogo con i prigionieri jihadisti. E, quando pure si stabilisse un dialogo, non riuscirebbero a rimetterli in riga perché il discorso dei salafiti in prigione magnetizza ed elettrizza molto più di un discorso quietista. Questi religiosi, per lo più stranieri, ignorano del tutto la storia del paese, ignorano tutto della storia del paese di accoglienza e predicano i precetti appresi nei paesi di origine. Non riescono quindi a mostrarsi convincenti agli occhi dei giovani delinquenti che rapidamente girano loro le spalle.
Le prigioni europee hanno bisogno di altri argomenti, diversi dallo spiegare ai detenuti che il jihad cui partecipano è privo di valore religioso, in quanto non è stato decretato dalle autorità dello Stato. Le prigioni hanno bisogno di cantanti, disegnatori, educatori, formatori e artigiani.. per riuscire a sottrarre i detenuti all’attrazione degli islamisti radicali. Ugualmente, devono essere incoraggiati i contatti con la famiglia di quelli che hanno un buon comportamento e mostrano un buon numero di segni incoraggianti di volontà di integrazione nella società; l’obiettivo è di permettere a questi giovani smarriti di riprendere contatti regolari con mogli, figli e genitori.
Al contrario, i radicalizzati irriducibili, che rappresentano una insignificante minoranza, devono essere isolati per impedire qualsiasi contagio. La creazione di una antenna informativa all’interno delle prigioni deve essere ripensata attraverso l’individuazione di precisi indizi di segnalazione: soprattutto la dissimulazione, la menzogna e l’inganno, frequenti nelle prigioni europee.
Peraltro le autorità carcerarie vantano un modesto tasso di recidiva, anche se non c’è alcuna statistica che lo confermi. Di fatto si segnalano molte ricadute. Il prigioniero radicalizzato non deve essere trattato come fosse stato colpito da una malattia ideologica, come spiegano molti psicologi: è uno psicopatico e spesso accade che il male si ripresenti dopo molto tempo.
Il buon senso suggerirebbe di eliminare la « legge del silenzio e del più forte » nelle prigioni, ricorrendo ad altri meccanismi culturali, professionali, familiari e di sicurezza, che siano capaci di prevenire ogni tentazione di radicalismo. L’esperienza dei paesi del Nord, dove le prigioni si svuotano, dimostra la pertinenza di una simile alternativa. Questo processo di umanizzazione dei rapporti in ambito carcerario, favorito da programmi di riabilitazione alternativi al carcere, indica le strada da seguire.
La situazione in Francia
La Francia, che ha problemi di sovraffollamento carcerario e di proselitismo islamico negli stabilimenti carcerari, deve ispirarsi alle esperienze riuscite in Scandinavia, ponendo fine alla carcerazione di massa. La popolazione carceraria è composta da quattro tipologie di persone, che le autorità devono saper identificare e gestire:
– il personale penitenziario, soprattutto il personale addetto alla raccolta di informazioni
– coloro che intervengono nelle prigioni: imam psicologi, medici e infermieri
– I detenuti stessi e i rapporti tra di loro
– le famiglie e I visitatori in generale, cinghia di trasmissione con le banlieue.
Per quanto riguarda la prima componente, quella dei dirigenti e degli agenti penitenziari, la loro formazione – soprattutto di quelli addetti alla raccolta di informazioni – lascia molto a desiderare, limitandosi il più delle volte all’apprendimento della lingua araba classica e dialettale. Il personale addetto alla raccolta di informazioni deve imparare le tecniche della dissimulazione che mutano da un gruppo ad un altro, da una prigione all’altra e da una generazione all’altra. Soprattutto la gestione delle centinaia che tornano dalla Siria e dall’Iraq pone veri problemi all’amministrazione carceraria, che li ha purtroppo tenuti insieme fino ad oggi, involontariamente, ai prigionieri di diritto comune o agli altri radicalizzati, indifferentemente. A tale fine, sarà necessario uno sforzo supplementare per dividere i detenuti a seconda della gravità del loro crimine, il grado di indottrinamento e i loro ruoli e posizioni nelle organizzazioni terroriste.
Per la seconda categoria, quella dei religiosi, bisogna capire che è impossibile per un imam trasformarsi in un agente dei servizi di informazione, e la cosa vale anche per gli psicologi e le altre figure professionali, in quanto la cosa richiederebbe una formazione particolare.
Soprattutto tutto lascia pensare che il corpo dei cappellani musulmani sia diviso in diverse correnti ideologiche antinomiche e talvolta conflittuali: sunniti, sciiti, salafiti quietisti, salafiti jihadisti, salafiti takfiri, imam consolari, ecc. Questa fisionomia eterogenea del clero musulmano ha ed avrà conseguenze sicure sulla vita dei detenuti musulmani, a lungo termine. E’ quindi indispensabile ricordare che questi cappellani sfuggono a qualsiasi serio controllo da parte delle antenne informative e dei guardiani del carcere.
Peraltro si osserva che imam e cappellani musulmani usano molto i versetti di Medina, violenti, ed esercitano quindi sui detenuti una pressione psicologica insostenibile. Essi stessi si dividono tra diverse correnti dell’islam politico. A nostro avviso sarebbe saggio consigliare loro di pregare nei versetti di La Mecca, considerati pacifici e clementi.
Per la terza categoria la promiscuità dei prigionieri è un fattore di contagio dell’islamismo. I prigionieri di diritto comune devono essere separati da tutte le persone che presentano segni di radicalizzazione. I radicalizzati devono essere poi tenuti divisi in tre sottocategorie:
– I debuttanti, che possono essere recuperate attraverso un trattamento multiforme; religione, famiglie, psicologi;
– I salfizzati che vivono l’isolamento, ripiegati su stessi, meritano una particolare vigilanza e un trattamento più accurato, perché sono irrecuperabili coi mezzi della psicologia moderna. Questa piccola minoranza può scivolare verso la violenza e la barbarie per realizzare il suo progetto di vita nell’al di là;
– la terza e ultima sottocategoria, che è minoritaria nelle prigioni, è irrecuperabile, ed è dunque necessario isolarla dalle due categorie precedenti perché il cancro si propagherebbe assai velocemente.
La quarta categoria, quella delle famiglie e dei visitatori, è di solito trascurata dalle autorità, compreso il ministro della Giustizia. Tuttavia diversi membri della famiglia del prigioniero giocano un ruolo importante nella trasmissione degli ordini e la trasmissione delle informazioni provenienti dall’esterno. Infatti sono le banlieue diseredate e povere, dalle quali proviene la maggior parte dei detenuti, ad essere terreno fertile per il terrorismo e nelle quali operano diversi quadri terroristi che trasmettono i loro ordini fino alle prigioni.
All’uopo, è interessante notare che molti direttori di prigione nel mondo arabo hanno vietato categoricamente il pacco settimanale, zeppo di messaggi, di telefoni portabili, di armi bianche e di droga.
L’utilizzo di telecamere personali per gli agenti e gli altri operatori in contatto coi radicalizzati, oltre a rigidi controlli sui visitatori, sarebbero misure suscettibili di ridurre l’influenza dei caid che vivono all’esterno e potrebbe aiutare a rilevare il paesaggio reale di questa popolazione carceraria. Altri interventi devono essere previsti nei campi psicologico e religioso, perché la creazione di centri di radicalizzazione si richiama ad un'ispirazione votata al fallimento per le ragioni dette più sopra.
Note:
1. Scuola di pensiero ispirata alla ragione e alla logica, influenzata dai filosofi Avicenna e El-Arrazi.
2. Detenuto fino alla morte in una prigione di New-York.