Islam politico
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L’ISLAM POLITICO AL SERVIZIO DELL’IMPERIALISMO
Tutte le correnti che rivendicano la loro fedeltà all’Islam politico proclamano la “specificità dell’Islam”.
Secondo loro, l’Islam non accenna nemmeno alla separazione tra politica e religione, presumibilmente caratteristica distintiva del Cristianesimo. Non servirebbe a nulla ricordare loro, come ho per altro fatto, che i loro discorsi riproducono, quasi parola per parola, ciò che dicevano i reazionari europei all’inizio del XIX secolo (come ad esempio Bonald a de Maistre) per condannare la rottura che l’Illuminismo e la Rivoluzione francese produssero nella storia dell’Occidente cristiano. Sulla base di questa posizione, ogni corrente dell’Islam politico ha deciso di condurre la sua lotta sul campo della cultura – ma, in effetti, la “cultura” ridotta all’affermazione convenzionale dell’appartenenza ad una particolare religione. In realtà, i militanti dell’Islam politico non sono davvero interessati a discutere i dogmi che costituiscono la religione. La rituale affermazione dell’appartenenza alla comunità è la loro unica preoccupazione. Una tale visione della realtà del mondo moderno non è soltanto angosciante a causa dell’immenso vuoto di pensiero che nasconde, ma giustifica, inoltre, una strategia imperialistica volta a sostituire un cosiddetto conflitto di culture con quello tra i centri imperialistici e le periferie dominate. L’esclusiva enfasi data alla cultura permette all’Islam politico di eliminare da ogni sfera della vita i veri conflitti sociali tra le classi popolari e il sistema capitalistico globalizzato che li opprime e li sfrutta. I militanti dell’Islam politico non sono effettivamente presenti nelle zone in cui hanno luogo attualmente i conflitti sociali e i loro leader continuano a ripetere che non si tratta di conflitti importanti. Gli slamismi si trovano in queste aree solo per costruire scuole e cliniche mediche. Non si tratta di nient’altro, però, che di opere di carità e di uno strumento di indottrinamento e non di un mezzo atto a sostenere le lotte delle classi popolari contro il sistema, responsabile della loro povertà.
Sul campo dei veri problemi sociali, l’Islam politico si allinea al capitalismo dipendente e all’imperialismo dominante. Difende il principio secondo il quale la proprietà è sacra e legittima l’ineguaglianza e tutti i requisiti necessari affinché il capitalismo si riproduca. L’appoggio da parte dei Fratelli Musulmani nel Parlamento egiziano alle recenti leggi reazionarie che rinforzano i diritti dei proprietari terrieri a discapito dei diritti dei mezzadri (che rappresentano gran parte della classe contadina) è soltanto un esempio tra migliaia. Nessuna legge reazionaria promossa da un qualunque Stato musulmano ha mai incontrato l’opposizione dei movimenti slamismi. Inoltre, queste leggi sono promulgate in accordo con i leader del sistema imperialista. L’Islam politico non è anti – imperialista, anche se i suoi militanti sono convinti del contrario! È un’ inestimabile alleanza per l’imperialismo e quest’ultimo lo sa. È facile comprendere, allora, il perché l’Islam politico abbia sempre incluso tra le sue fila la classe dirigente dell’Arabia Saudita e del Pakistan, che è stata fin dall’inizio la sua più forte sostenitrice. Gli acquirenti borghesi locali, i nuovi ricchi, i beneficiari dell’attuale globalizzazione imperialista, appoggiano generosamente l’Islam politico. Quest’ultimo ha rinunciato ad una prospettiva anti – imperialista, sostituendola con una posizione “anti – occidentale” (quasi “anti – cristiana), che ovviamente porta le società interessate soltanto ad un punto morto e perciò non costituisce un ostacolo al dispiegamento del controllo imperialistico sul sistema mondiale.
L’Islam politico non è reazionario soltanto su certi temi (che riguardano specialmente lo status delle donne) e forse perfino responsabile di eccessi fanatici nei confronti di cittadini non – musulmani (come i Copti in Egitto) – è fondamentalmente reazionario e quindi non può ovviamente essere una spinta nel processo di liberazione del popolo.
Tuttavia, ci sono tre importanti ragioni per incoraggiare i movimenti sociali nella loro totalità a dialogare con i movimenti dell’Islam politico. Il primo è che l’Islam politico mobilita molte masse popolari che non possono essere né ignorate, né prese in giro. A sostegno di questa affermazione ci sono sicuramente molte immagini. Inoltre, si dovrebbe mantenere la calma e valutare nel modo giusto la mobilitazione in questione. I “successi” elettorali che sono stati organizzati sono messi nella giusta ottica appena saranno sottoposti ad analisi più rigorose. Qui cito, ad esempio, l’enorme percentuale di astensioni – più del 75% - nelle elezioni in Egitto. In gran parte, il potere della via islamista, è semplicemente l’altro aspetto delle debolezze della sinistra organizzata, che è assente nelle sfere in cui si verificano i conflitti sociali.
Ammesso e non concesso che l’Islam politico mobiliti attualmente masse significative, questo può essere una giustificazione a concludere che la sinistra deve cercare di includere le organizzazioni dell’Islam politico in alleanze per azioni politiche o sociali? Se l’Islam politico mobilita con successo un gran numero di persone è semplicemente un fatto e ogni strategia politica efficiente deve includere questo fatto nei suoi propositi, opzioni e considerazioni. Cercare di stringere alleanze non è, però necessariamente, il modo migliore per affrontare questa sfida. Si dovrebbe mettere in evidenza che le organizzazioni dell’Islam politico – in particolare i Fratelli musulmani – non stanno cercando un’alleanza del genere, anzi la rifiutano addirittura. Se, per caso, alcune disgraziate organizzazioni di sinistra arrivassero a credere che le organizzazioni dell’Islam politico li abbiano accettati, la prima decisione che queste ultime prenderebbero, dopo essere riusciti ad ottenere il potere, sarebbe quella di liquidare il loro oneroso alleato in modo estremamente violento, come accadde in Iran con i Mujahideen e con i Fidayeen Khalq.
La seconda ragione portata avanti dai sostenitori del “dialogo” è che l’Islam politico, anche se è reazionario in termini di proposte sociali, è “anti – imperialista”. Ho sentito dire che il criterio da me utilizzato (sostegno incondizionato alle lotte combattute per il progresso sociale) sia un criterio “economista” e tralasci le dimensioni politiche della sfida che deve essere affrontata dai popoli del Sud del mondo. Non credo che questa sia una critica fondata dato quello che ho detto circa le dimensioni democratiche e nazionali delle risposte più auspicabili per la gestione di questa sfida. Concordo anche col fatto che nella loro risposta alla sfida che devono affrontare i popoli del Sud, le forze in atto non sono coerenti nel loro modo di trattare delle proprie dimensioni politiche e sociali. È, perciò, possibile immaginare un Islam politico che sia anti – imperialista, benché involutivo a livello sociale. Vengono immediatamente in mente l’Iran, Hamas in Palestina, Hezbollah in Libano e alcuni movimenti di resistenza in Iraq. Discuterò di questa particolare situazione più tardi. Ciò che voglio dire è che l’Islam politico nel suo insieme piuttosto semplicemente non anti – imperialista, ma è nel complesso schierato con i poteri dominanti su scala mondiale.
La terza argomentazione richiama l’attenzione della sinistra alla necessità di combattere l’Islamofobia. Nessun sinistra degno di questo nome può ignorare il problema delle banlieues, che è il trattamento riservato alle classi popolari immigrate nelle metropoli del capitalismo sviluppato contemporaneo. Le analisi di questa sfida e le risposte date da diversi gruppi (gli stessi partiti interessati, la sinistra elettorale europea e la sinistra radicale) non vengono trattate in questo testo. Mi accontenterò di esprimere il mio punto di vista in linea di principio: la risposta innovativa non può essere basata sull’istituzionalizzazione del comunitarianismo , che è sempre sostanzialmente e necessariamente associata all’ineguaglianza e, in ultimo, ha origine in una cultura razzista. Specifico prodotto ideologico della cultura politica reazionaria degli Stati Uniti, il comunitarianismo (che già trionfa in Gran Bretagna) sta iniziando ad inquinare la vita politica del continente europeo. L’Islamofobia, sistematicamente incentivata da settori importanti dell’elite politica e dei media, fa parte di una strategia atta a gestire la diversità collettiva a beneficio del capitale, in quanto questo supposto rispetto per la diversità è, in realtà, soltanto un mezzo per acuire le differenze tra le classi popolari. La questione del cosiddetto problema dei quartieri (banlieues) è specifico e confonderlo con la questione dell’imperialismo (per esempio la gestione imperialista dei rapporti tra i centri dominanti imperialisti e le periferie dominanti), come si fa ogni tanto, non contribuisce minimamente al progresso di ognuno di questi territori, che sono completamente diversi tra loro. Questa confusione è parte della cassetta degli attrezzi reazionaria e rafforza l’Islamofobia, che, a sua volta, legittima sia l’offensiva contro le classi popolari nei centri imperialisti che l’offensiva contro le popolazioni delle periferie interessate. Questa confusione e questa Islamofobia, a sua volta, fornisce un servizio prezioso all’Islam politico reazionario, dando credibilità al suo discorso anti – occidentale. Sostengo, quindi, che le due campagne ideologiche reazionarie promosse rispettivamente dalla destra razzista nell’Occidente e dall’Islam politico si sostengono vicendevolmente, proprio come sostengono le pratiche comunitarianiste.
Modernità, democrazia, laicismo e Islam
L’immagine che le regioni arabe e islamiche danno oggi di loro stesse è quella di società in cui la religione (l’Islam) è all’avanguardia in ogni campo della vita politica e sociale, al punto che sembra strano pensare che possa essere diverso. La maggior parte degli osservatori stranieri (leader politici e media) concludono che la modernità, forse anche la democrazia, dovranno adattarsi alla forte presenza dell’Islam, che preclude de facto il laicismo. O questa riconciliazione sarà possibile e sarà necessario sostenerla, oppure no e sarà necessario trattare con questa regione del mondo così com’è. Non condivido affatto questa cosiddetta visione realista. Il futuro – nella visione lungimirante del socialismo globalizzato – è per le popolazioni di questa regione come per altre, la democrazia e il laicismo. Questo futuro è possibile in queste regioni come ovunque, ma nulla è garantito e sicuro, ovunque.
La modernità è una rottura nella storia del mondo, incominciata in Europa nel XVI secolo. La modernità sostiene che gli esseri umani sono responsabili della propria storia, individualmente e collettivamente e di conseguenza crea una rottura con le ideologie pre – moderne dominanti. La modernità, poi, rende la democrazia possibile proprio come richiede il laicismo, nel senso di separazione dell’aspetto religioso e di quello politico. Formulata dall’Illuminismo nel XVIII secolo, attuato dalla Rivoluzione francese, l’associazione complessa di modernità, democrazia e laicismo, i suoi progressi e i suoi indietreggiamenti, ha determinato da allora il mondo contemporaneo. Ma la modernità in se stessa non è soltanto una rivoluzione culturale. Ricava il suo significato solo attraverso la sua stretta relazione con la nascita e la conseguente crescita del capitalismo. Questa relazione ha condizionato i limiti storici della modernità “davvero esistente”. Quindi, le forme concrete di modernità, democrazia e laicismo attuali devono essere considerate il prodotto della storia reale della crescita del capitalismo. Sono modellate dalle condizioni specifiche in cui la dominazione del capitale è palese – i compromessi storici che definiscono i contenuti sociali dei blocchi egemonici (ciò che chiamo il corso storico delle culture politiche).
Questa sintetica presentazione del mio intendimento del metodo storico materialista vuole soltanto situare i diversi modi di combinare la modernità capitalista, la democrazia e il laicismo nel loro contesto teoretico.
L’Illuminismo e la Rivoluzione francese porta avanti un modello di laicismo radicale. Ateo o agnostico, deista o credente (in questo caso cristiano), l’individuo è libero di scegliere, lo Stato non ne sa nulla. Nel continente europeo – e in Francia cominciando con la Restaurazione – gli indietreggiamenti e i compromessi che uniscono il potere della borghesia e quello delle classi dominanti dei sistemi pre – moderni, erano la base per forme attenuate di laicismo, interpretato come tolleranza senza escludere il ruolo sociale delle chiese dal potere politico. Come per gli Stati Uniti, il suo particolare percorso storico è sfociato nella formazione di una cultura politica che è fondamentalmente reazionaria, in cui il laicismo autentico è praticamente sconosciuto. Qui la religione è un attore sociale riconosciuto e il laicismo è confuso tra la molteplicità di religioni ufficiali (ogni religione – o persino ogni setta – è ufficiale).
C’è un legame ovvio tra il grado di laicismo radicale sostenuto e il grado di sostegno al modellamento della società in accordo con il tema centrale della modernità. La sinistra, sia essa radicale o persino moderata, che crede nell’efficacia di politiche atte a orientare l’evoluzione sociale in direzioni scelte, difende concetti forti di laicismo. La destra conservatrice richiede che sia permesso alle cose di evolversi da sole, indipendentemente dal fatto che il problema sia economico, politico o sociale. In economia, la scelta in favore del “mercato” è ovviamente a favore del capitale. In politica, la democrazie debole diventa la regola, l’alternanza rimpiazza l’alternativa e nella società, in questo contesto, la politica non ha bisogno di laicismo attivo – “la comunità” compensa le carenze dello Stato. Il mercato e la democrazia rappresentativa fanno storia e dovrebbero poterlo fare. In questo momento, in cui la sinistra si ritira, questa versione conservatrice del pensiero sociale la fa da padrona, in formulazioni che spaziano da quelle di Touraine a quelle di Negri. La cultura politica reazionaria degli Stati Uniti va ancora oltre, negando la responsabilità dell’azione politica. La continua affermazione che Dio ispira la nazione “americana” e la completa adesione a questo “credo” riduce a nulla il reale concetto di laicismo. Dire che Dio fa epoca, nei fatti, permette al mercato da solo di farla.
Da questo punto di vista, dove sono situate le popolazioni delle regioni medio – orientali? L’immagine di uomini barbuti prostrati e di gruppi di donne velate da luogo a frettolose conclusioni sull’intensità della devozione religiosa tra gli individui. Gli amici “ slamismi i” occidentali che chiedono il rispetto delle diverse fedi raramente conoscono le procedure utilizzate dalle autorità per presentare un’immagine che convenga loro. Ci sono certamente quelli che sono “pazzi di Dio” (fous de Dieu). Sono in proporzione più numerosi degli spagnoli cattolici che sfilano a Pasqua? Oppure dei gruppi numerosi che ascoltano i televangelisti negli Stati Uniti?
In ogni caso, la regione non ha sempre dato quest’immagine di sé. Al di là delle differenze da Paese a Paese, può essere identificata una vasta regione che va dal Marocco all’Afghanistan incluso tutta la popolazione araba (con l’eccezione di quelli che vivono nella penisola arabica), i turchi, gli iraniani, gli afgani e la popolazione delle Repubbliche dell’ex Asia sovietica centrale, in cui le possibilità che si sviluppi il laicismo sono tutt’altro che insignificanti. Tra altre popolazioni vicine, come gli arabi della penisola e i pakistani, la situazione è diversa.
In queste vaste regioni, le tradizioni politiche sono state fortemente segnate dalle correnti radicali della modernità: le idee dell’Illuminismo, la Rivoluzione francese, la Rivoluzione russa e il comunismo della Terza Internazionale erano presenti nella testa di tutti ed erano molto più importanti, ad esempio, del parlamentarismo di Westminster. Queste correnti dominanti hanno ispirato i modelli principali della trasformazione politica attuata dalle classi dominanti, che potrebbero essere descritte per alcuni versi come forme di dispotismo illuminato.
Questo è stato certamente il caso dell’Egitto di Mohammed Ali o di Khedive Ismail. Il kemalismo in Turchia e la modernizzazione in Iran erano simili. Il populismo nazionale dei più recenti periodi storici appartengono alla stessa famiglia dei progetti politici modernisti. Le varianti al modello sono state molte (il Fronte di Liberazione Nazionale algerino, il Burguibismo tunisino, il Nasserismo egiziano, il baathismo siriano ed iracheno), ma la direzione del movimento era lo stesso. Apparentemente le esperienze estreme – i cosiddetti regimi comunisti in Afghanistan e nello Yemen del sud – non sono state davvero molto diverse. Tutti questi regimi hanno realizzato molto e, per questi motivi, hanno goduto di un sostegno molto ampio. Questo è il motivo per cui, benché non fossero realmente democratici, hanno aperto la strada ad un possibile sviluppo in tal direzione. In alcune circostanze, come quelle dal 1920 al 1950 in Egitto, si tentò un esperimento di democrazia elettorale sostenuto dal centro anti – imperialista moderato (il partito Wafd), opposto dal potere imperialista dominante (la Gran Bretagna) e i suoi alleati locali (la monarchia). Per andare sul sicuro, il laicismo fu attuato in una versione moderata e non è stato rifiutato dal popolo. Al contrario, era la gente religiosa ad essere considerata oscurantista dall’opinione pubblica generale e molti di loro lo erano effettivamente. Gli esperimenti modernisti, dal dispotismo illuminato al populismo nazionale radicale, non erano prodotti fortuiti. Li hanno creati i movimenti forti dominanti nelle classi medie. In questo modo, queste classi esprimevano la loro volontà di essere considerati partner completamente sviluppati all’interno del moderno processo di globalizzazione. Questi progetti, che possono essere descritti come nazional – borghesi, erano modernisti, laicizzando e diventando potenziali vettori di sviluppo democratico. Precisamente, però, perché questi progetti si scontrano con gli interessi dell’imperialismo dominante. Quest’ultimo li ha combattuti inesorabilmente e ha mobilitato sistematicamente le forze oscurantiste in declino per raggiungere questo scopo.
La storia dei Fratelli musulmani è ben nota. È stata creata letteralmente nel 1920 dagli inglesi e dalla monarchia con lo scopo di bloccare il cammino del laico e democratico Wafd. È anche ben noto il loro ritorno di massa dal rifugio saudita dopo la morte di Nasser, organizzato dalla CIA e dal Sadat. Siamo tutti a conoscenza della storia dei Talebani, organizzati in Pakistan dalla CIA per combattere i “comunisti” che avevano dato a tutti la possibilità di frequentare la scuola, ragazzi e regazze. È persino noto che inizialmente gli israeliani hanno dato il loro sostegno ad Hamas per indebolire le correnti laiche e democratiche della resistenza palestinese.
L’Islam politico avrebbe avuto molte più difficoltà ad uscire dai confini dell’Arabia Saudita e del Pakistan se non avesse beneficiato del sostegno continuo, potente e risoluto degli Stati Uniti. Quando fu scoperto il petrolio sotto il suo suolo, la società dell’Arabia Saudita non aveva nemmeno iniziato ad abbandonare la propria tradizione. L’alleanza tra l’imperialismo e la classe dominante tradizionale, immediatamente suggellata, fu conclusa tra i due partner e diede una nuova prospettiva di vita all’Islam politico Wahabi. Da parte loro, gli inglesi riuscirono a rompere l’unità indiana convincendo i leader musulmani a creare il loro proprio Stato intrappolato,appena nato, nell’Islam politico. Da notare che la teoria secondo la quale è stata legittimata questa curiosità – attribuita a Mawdudi – è stata completamente redatta anticipatamente dagli Orientalisti inglesi nel suo servizio di Maestà.
È, perciò, facile comprendere l’iniziativa presa a Bandung (1955) dagli Stati Uniti di rompere il fronte unito degli Stati asiatici e africani, creando una “Conferenza islamica”, promossa immediatamente (dal 1957) dall’Arabia Saudita e dal Pakistan. L’Islam politico è penetrata nella regione con questi mezzi.
In ultimo, le conclusioni che possono essere tratte dalle osservazioni fatte fino a qui è che l’Islam politico non è il risultato spontaneo dell’affermazione di autentiche convinzioni religiose da parte dei popoli interessati. L’Islam politico è stato costruito dall’azione sistematica dell’imperialismo, sostenuto, ovviamente dalle forze oscurantiste reazionarie e dalle classi subordinate. Resta indiscutibile che questo stato di cose è anche responsabilità delle forze di sinistra che non hanno né visto, né hanno saputo affrontare la sfida.
I problemi relativi ai Paesi di frontiera (Afghanistan, Iraq, Palestina e Iran)
Il progetto degli Stati Uniti, sostenuto a vari livelli dai loro alleati subalterni in Europa e in Giappone, ha come scopo il controllo militare sul pianeta intero. Posto ciò, il Medio Oriente è stato scelto come la “prima regione” per tre ragioni: (1) possiede i maggiori giacimenti petroliferi al mondo e il diretto controllo di questo territorio da parte dell’esercito americano metterebbe Washington in una posizione privilegiata, costringendo i suoi alleati – Europa e Giappone – e i suoi possibili rivali, come la Cina, in una scomoda situazione di dipendenza dalle loro fonti energetiche; (2) è posizionato all’incrocio del Vecchio Mondo e permette facilmente di creare una minaccia militare permanente contro la Cina, l’India e la Russia; (3) la regione sta vivendo un periodo di fragilità e confusione che assicura all’aggressore una facile vittoria, almeno per il momento; e (4) la presenza di Israele nella regione, alleato incondizionato di Washington.
I Paesi che si trovano sulla linea del fronte (Afghanistan, Iraq, Palestina e Iran) sono stati distrutti (i primi tre) o corrono il pericolo di esserlo (Iran).
Afghanistan
Nella sua storia moderna, l’Afghanistan ha vissuto il suo periodo migliore durante la cosiddetta repubblica comunista. Questo è stato un regime di dispotico modernista illuminato che ha aperto il sistema scolastico a tutti i bambini, senza distinzione di sesso. Rappresentava un metodo efficace di combattere l’oscurantismo ed è per questo che ricevette tanto sostegno dalla società. In questo periodo si decise di intraprendere la riforma agraria, cioè un insieme di misure adottate in particolare per ridurre il potere tirannico dei leader tribali. Il sostegno – almeno tacito – della maggior parte della classe contadina ha garantito il probabile successo di questo promettente cambiamento. La propaganda dei media occidentali e dell’Islam politico l’hanno descritto come un esperimento comunista e il totalitarismo ateo venne rifiutato dalla popolazione afgana. In realtà, il regime non era affatto impopolare, come quello di Ataturk.
Il fatto che i leader di questo esperimento, in entrambe le maggiori fazioni (Khalq e Parcham), si descrivessero comunisti non è sorprendente. Il modello del progresso portato a termine dalle popolazioni vicine dell’Asia sovietica centrale (nonostante tutto ciò che è stato detto sull’argomento e nonostante le pratiche dispotiche dell’apparato governativo) a confronto con i disastri sociali in corso causati dalla gestione imperialista inglese in altri Stati vicini (inclusi India e Pakistan) ha avuto l’effetto, qui come in molti altri Stati della regione, di incoraggiare i nazionalisti a valutare la reale portata dell’ostacolo creato dall’imperialismo con lo scopo di bloccare qualsiasi tentativo di rinnovamento. L’invito ad intervenire per liberarsi dagli altri rivolto da una fazione ai sovietici ha sicuramente avuto un effetto negativo e ha vincolato le possibilità del progetto populista modernista nazionale.
Gli Stati Uniti in particolare e i suoi alleati della Triade in generale sono sempre stati tenaci oppositori dei modernizzatori afgani, comunisti o no. Sono loro che mobilitano le forze oscurantiste dell’Islam politico di stile pakistano (quello talebano) e i signori della guerra (i leader tribali neutralizzati con successo dal cosiddetto regime comunista) e sono sempre loro che li addestrano e forniscono loro le armi. Anche dopo la ritirata russa, il governo Najibullah ha dimostrato la sua capacità di opporre resistenza. Avrebbe probabilmente avuto la meglio se non fosse stato per l’offensiva militare pakistana che arrivò in soccorso dei Talebani e per l’offensiva delle ricostituite unità militari dei signori della guerra che causarono ancora più caos.
L’Afghanistan è stato distrutto dall’intervento americano e dei suoi alleati e agenti segreti, in particolare gli slamismi. L’Afghanistan non può essere ricostruito sotto la loro autorità, a malapena mascherati da pagliacci senza radici nel Paese, che sono stati paracadutati lì dal Texas transnazionale e dal quale sono stati impiegati. La cosiddetta “democrazia”, nel cui nome Washington, la NATO e le Nazioni Unite hanno deciso di intraprendere la missione di soccorso e che viene utilizzata per giustificare la loro presenza (in realtà, occupazione), è stata fin dall’inizio una bugia ed è diventata un’enorme farsa.
C’è solo una soluzione alla questione afgana: tutte le unità militari straniere dovrebbero abbandonare il Paese e tutti le potenze dovrebbe essere obbligate a smettere di finanziare e a fornire armi ai loro alleati. Ai benintenzionati e a coloro che temono che la popolazione afgana tollererà la dittatura dei Talebani (o dei signori della guerra), risponderei che fino ad oggi la presenza straniera è aumentata e rimane il miglior sostegno a questa dittatura! Il popolo afgano si è mosso in un’altra direzione – potenzialmente la migliore possibile – in un momento in cui l’Occidente fu spinto ad interessarsi meno ai suoi affari. Al dispotismo illuminato dei “comunisti”, l’Occidente civilizzato ha sempre preferito quello oscurantista, infinitamente meno pericoloso per i suoi interessi!
Iraq
Per la verità, la diplomazia armata degli Stati Uniti aveva l’obiettivo di distruggere letteralmente l’Iraq molto prima che fossero addotti effettivamente dei pretesti che le avrebbero permesso di farlo. Questo avvenne in due occasioni diverse: l’invasione del Kuwait nel 1990 e poi dopo l’11 Settembre 2001 – sfruttati per questo scopo da Bush con il cinismo e le bugie stile Goebbel (“Se dici una bugia abbastanza grande e continui a ripeterla, alla fine la gente finirà per crederci”). Il motivo di questo obiettivo è semplice e non ha nulla a che fare con la richiesta di liberare il popolo iracheno dalla dittatura sanguinosa (assolutamente vero) di Saddam Hussein. L’Iraq possiede gran parte delle maggiori risorse petrolifere del pianeta. Ma, ancor di più, Iraq era riuscito ad addestrare quadri tecnici e scientifici in grado, attraverso la loro massa critica, di sostenere un progetto nazionale coerente e sostanziale. Era necessario eliminare questo pericolo con una guerra preventiva che gli Stati Uniti si sono dati da soli il diritto di condurre quando e come hanno voluto, senza il minimo rispetto per la legge internazionale.
Al di là di questa osservazione ovvia, dovrebbe essere prese in esame alcune domande importanti: (1) Com’è possibile che il piano di Washington sia potuto sembrare – anche se per un breve momento storico – un tale enorme successo, tra l’altro ottenibile con tale facilità? (2) Quale nuova situazione si è creata ed affronta la nazione irachena oggi? (3) Che risposta stanno dando le varie componenti della popolazione irachena a questa sfida? E (4) Quali soluzioni possono promuovere le popolazioni irachena, araba e le forze internazionali?
La disfatta di Saddam Hussein era prevedibile. Messi di fronte ad un nemico il cui principale vantaggio sta nella sua capacità di produrre un genocidio impunemente per mezzo di bombardamenti aerei ( le armi nucleari verranno usate), la popolazione ha solo un modo per reagire efficacemente: fare resistenza sui suoi territori invasi. Il regime di Saddam era dedito all’eliminazione di ogni mezzo di difesa a portata di mano della sua popolazione attraverso la distruzione sistematica di tutte le organizzazioni e di tutti i partiti politici (ad iniziare dal Partito Comunista) che ha fatto la storia dell’Iraq moderno, incluso lo stesso Partito Baath che è stato uno dei principali attori della sua storia. In queste condizioni non stupisce che il popolo iracheno ha permesso che il proprio Paese fosse invaso senza lottare e non stupisce nemmeno che alcuni comportamenti ( come per esempio l’apparente partecipazione alle elezioni organizzate dall’invasore o gli scoppi di lotte fratricide tra Curdi, Arabi slamis ed Arabi sciiti) sembrino segni di una possibile accettazione della sconfitta (su cui Washington ha basato i propri calcoli). Ciò che, però, è degno di nota è che la resistenza sul campo si intensifica sempre più (nonostante tutte le gravi fragilità dimostrate dalle varie forze di resistenza) il che ha già reso impossibile stabilire un regime di leccapiedi capaci di mantenere un ordine apparente; in un certo qual modo, già questo ha dimostrato il fallimento del progetto di Washington.
Tuttavia, l’occupazione militare straniera ha creato una nuova situazione. La nazione irachena è seriamente minacciata. Washington è incapace di mantenere il controllo sul Paese (allo scopo di appropriarsi indebitamente delle sue risorse petrolifere, che è poi il suo principale obiettivo) attraverso l’intermediazione di un apparente governo nazionale. L’unico modo, perciò, per continuare nel suo progetto è quello di dilaniare il Paese. All’inizio, forse, l’obiettivo di Washington ero quello di dividere il Paese in almeno tre Stati ( quello curdo, quello degli Arabi slamis e di quelli sciiti), in accordo con Israele (in futuro gli archivi dimostreranno la veridicità di queste affermazioni). Oggi, la “guerra civile” è la carta che gioca Washington per legittimizzare la propria occupazione. Chiaramente, l’occupazione permanente era – e rimane – l’obiettivo; è l’unico modo attraverso il quale Washington può garantire il suo controllo sulle risorse petrolifere. Sicuramente non si può dare alcun credito alla dichiarazione d’intenti di Washington, come “lasceremo il Paese finchè non sarà ristabilito l’ordine”. Ricordiamoci che gli Inglesi non hanno mai detto della loro occupazione dell’Egitto, cominciata nel 1882, che era provvisoria (durò fino al 1956!). Nel frattempo gli Stati Uniti distruggeranno sicuramente il Paese, le sue scuole, le fabbriche e le capacità scientifiche, un po’ di più ogni giorno, usando ogni mezzo, anche i più criminali.
Le reazioni del popolo iracheno alla sfida – almeno finora – non sembrano essere in grado di fronteggiare la gravità della situazione. Questa è l’ultima cosa che può essere detta. Quali sono i motivi? I principali media occidentali ripetono fino alla nausea che l’Iraq è un Paese artificiale e che sia stata l’oppressiva dominazione del regime del “ slamis” Saddam nei confronti degli Sciiti e dei Curdi a scatenare un’inevitabile guerra civile (che può essere soppressa, forse, solo grazie all’occupazione straniera). La resistenza, quindi, è limitata soltanto ad alcuni slamismi intransigenti sostenitori di Saddam del triangolo slamis. È certamente difficile mettere insieme così tante bugie.
Dopo la Seconda Guerra mondiale gli Inglesi hanno avuto grosse difficoltà a sconfiggere la resistenza del popolo iracheno. In totale armonia con la loro tradizione imperiale, gli Inglesi hanno importato una monarchia e hanno creato una classe di grandi proprietari terrieri per sostenere il loro potere, dando, così, una posizione privilegiata ai Sanniti. Nonostante i loro sistematici sforzi, però, gli Inglesi furono sconfitti. Il Partito Comunista e il Partito Baath sono state le principali forze politiche organizzate che hanno sconfitto il potere della monarchia “ slamis” detestata da tutti, Sanniti, Sciiti e Curdi. La violenta competizione tra queste due forze, che sono state le protagoniste di avvenimenti centrali tra il 1958 e il 1963, è terminata con la vittoria del Partito Baath, salutata a quel tempo dalle potenze occidentali come un sollievo. Il progetto comunista porta in sé la possibilità di un’evoluzione democratica; questo non vale per quello del Partito Baath. Quest’ultimo era all’inizio nazionalista e pan – Arabo, ammirava il modello prussiano di costruzione della Germania e reclutava i suoi membri dalla laica e modernista piccola borghesia, ostile alle espressioni religiose oscurantiste. Al potere, il Partito Baath si evolse, seguendo la moda, in una dittatura che era soltanto per metà anti – imperialista, nel senso che, a seconda delle congiunture e delle circostanze, i due partner potevano arrivare ad un compromesso (il potere baathista in Iraq e l’imperialismo americano, dominante nella regione).
Questo accordo ha incoraggiato gli eccessi di megalomania del leader che ha pensato che Washington avrebbe accettato rendendolo il suo principale alleato nella regione. Il sostegno di Washington a Baghdad (la distribuzione di armi chimiche ne è la prova) nell’assurda e criminale guerra contro l’Iran durata dal 1980 al 1989, sembra dare credito a questo calcolo. Saddam non si sarebbe mai immaginato che Washington avrebbe mentito, che la modernizzazione dell’Iraq non sarebbe stata accettata dall’imperialismo e che la decisione di distruggere il Paese fosse già stata decisa. Saddam cadde nella trappola aperta nel momento in cui fu dato il via libera all’annessione del Kuwait (di fatto annesso alle province che costituiscono l’Iraq ai tempi degli Ottomani e separato da esso dagli imperialisti Inglesi con lo scopo di farla diventare una delle loro colonie petrolifere). L’Iraq, poi, subì dieci anni di sanzioni atte a dissanguare il Paese con lo scopo di facilitare la gloriosa conquista del conseguente vuoto da parte delle forze armate americane.
I regimi baathisti successivi, incluso l’ultimo sotto la leadership di Saddam nella sua fase di declino, può essere accusato di qualunque cosa, ma non di aver provocato il conflitto tra Sanniti e Sciiti. Chi è allora responsabile degli scontri sanguinosi che avvengono tra le due comunità? Un giorno, scopriremo sicuramente come la CIA (e senza dubbio Mossad) abbiano organizzato molti di questi massacri. Oltre a questo, però, è vero che il deserto politico creato dal regime di Saddam e i suoi metodi opportunisti e spregiudicati hanno incoraggiato i successivi aspiranti al potere di ogni tipo a seguire questo esempio, spesso protetti dall’invasore. A volte, magari, essi sono stati perfino ingenui fino al punto di credere di poter essere utili al potere occupante. Gli aspiranti in questione, siano essi leader religiosi (Sciiti e slamis), presunti (para – tribali) illustri o uomini d’affari notoriamente corrotti esportati dagli Stati Uniti, non hanno mai avuto alcuna reale reputazione politica nel Paese. Perfino questi leader religiosi che i credenti rispettavano non hanno avuto alcuna influenza politica ben accetta al popolo iracheno. Senza il vuoto creato da Saddam, nessuno saprebbe come pronunciare i loro nomi. Di fronte al nuovo mondo politico creato dall’imperialismo della globalizzazione liberale le forze politiche popolari e nazionali, possibilmente anche democratiche, avranno i mezzi di ricostruire se stesse? C’è stato un periodo in cui il Partito Comunista iracheno rappresentava il fulcro per organizzare il meglio che la società irachena poteva produrre. Il Partito Comunista è stato creato in ogni regione del Paese e dominava il mondo degli intellettuali, spesso di origine sciita (faccio notare per inciso che lo sciismo ha prodotto soprattutto rivoluzionari o leader religiosi, raramente burocrati!). il Partito Comunista era davvero popolare e anti – imperialista, poco incline alla demagogia e potenzialmente democratico. Dopo il massacro di migliaia dei suoi migliori militanti da parte delle dittature baathiste, il collasso dell’Unione Sovietica (al quale il Partito Comunista non era preparato) e il comportamento di quegli intellettuali che credevano fosse accettabile ritornare dall’esilio seguaci dell’esercito americano, da ora in poi il Partito Comunista iracheno è destinato a scomparire per sempre dalla storia? Sfortunatamente è assolutamente possibile, ma non inevitabile.
La questione curda è reale sia in Iraq che in Iran che in Turchia. Anche per quanto riguarda questo tema, però, si deve sapere che i poteri occidentali hanno sempre agito con estremo cinismo, il doppio del normale. In Iraq e in Iran, le richieste curde non sono mai state represse con la violenza perpetrata, invece, da Ankara. Violenza da parte delle forze di polizia, a livello morale e politico. Né l’Iran né l’Iraq si sono mai spinti fino alla negazione della vera esistenza dei Curdi. Nonostante ciò, alla Turchia, in quanto membro della NATO, un’organizzazione di Stati democratici, come ci ricordano i media, deve essere perdonato tutto. Tra gli eminenti democratici proclamati dall’Occidente c’era il portoghese Salazar, uno dei membri fondatori della NATO e i non meno estimatori della democrazia, i colonnelli greci e i generali turchi!
Ogni volta che i fronti iracheni popolari, costituiti intorno al Partito Comunista e a quello Baath nei periodi migliori della sua turbolenta storia, hanno esercitato li potere politico, hanno sempre trovato un area di accordo con i principali Partiti curdi. Questi ultimi, inoltre, sono sempre stati i loro alleati. Gli eccessi anti – Sciiti ed anti – Curdi del regime di Saddam, ci sono stati sicuramente: per esempio, il bombardamento della regione di Basra dell’esercito di Saddam dopo la sua sconfitta in Kuwait nel 1990 e l’uso di gas contro i Curdi. Questi eccessi arrivarono in risposta alle manovre della diplomazia armata di Washington che hanno mobilitato gli apprendisti stregone tra Sciiti e Curdi. Siccome il successo degli appelli di Washington è stato piuttosto limitato, gli eccessi criminali e,in più stupidi, continuano. Cos’altro ci si può aspettare da un dittatore come Saddam?
L’intensità della resistenza all’occupazione straniera, inaspettata in queste condizioni, potrebbe sembrare miracolosa. Non in questo caso, in quanto la verità è che il popolo iracheno nel suo insieme (Arabi e Curdi, Sanniti e Sciiti) detesta gli occupanti e conoscono bene i loro crimini perché li hanno subiti quotidianamente (assassinii, bombardamenti, massacri e torture). Detto ciò, si potrebbe perfino immaginare un Fronte unito nazionale di resistenza (lo si chiami come si vuole), che si proclami tale, rendendo noti i suoi appartenenti, le liste delle organizzazioni e i partiti che lo compongono e il loro programma comune. Questo, comunque, non è effettivamente ciò che succede oggi per tutte le ragioni descritte sopra, inclusa la distruzione della struttura sociale e politica causata dalla dittatura di Saddam e dall’occupazione. A prescindere dalle motivazioni, questa debolezza è un handicap grave, che facilita la divisione della popolazione, incoraggia gli opportunisti, tuttavia finora trasformandoli in collaborazionisti e confonde gli obiettivi della liberazione.
Chi riuscirà a superare questi handicap? I comunisti avrebbero avuto buone possibilità di farlo. Già, i militanti presenti sul campo si stanno separando dai leader del Partito Comunista, fingendo perfino, con una tale azione, di star contribuendo all’efficacia della resistenza armata! In queste condizioni, però, molte altre forze politiche potevano prendere iniziative decisive per costruire questo fronte.
Rimane il fatto che, nonostante la sua debolezza, la resistenza del popolo iracheno ha già sconfitto il progetto di Washington (se non militarmente, almeno dal punto di vista politico). È esattamente questo che preoccupa gli slamismi nell’Unione europea, fedeli alleati degli Stati Uniti. Oggi, temono una sconfitta americana perché questo rafforzerebbe la capacità delle popolazioni del Sud del mondo di costringere il capitale transnazionale globalizzato della triade imperialista a rispettare gli interessi delle nazioni e delle popolazioni del continente africano, asiatico e latino – americano.
La resistenza irachena ha presentato delle proposte che potrebbero permettere di uscire dall’impasse e aiutare gli Stato Unito d uscire dalla trappola. Propone: (1) creazione di un’autorità amministrativa ad interim istituita con l’aiuto del Consiglio di Sicurezza dell’ONU; (2) la cessazione immediata delle azioni di resistenza e degli interventi militari e di polizia da parte delle truppe occupanti: (3) il ritiro di tutte le autorità straniere militari e civili entro sei mesi. I dettagli di queste proposte sono stati pubblicati nella prestigiosa rivista araba Al Moustaqbal al Arabi (gennaio 2006), pubblicata a Beirut.
Il silenzio assordante con il quale i media europei si oppongono alla diffusione di questo messaggio certifica la solidarietà dei partner imperialisti. Le forze democratiche e progressiste hanno il dovere di dissociarsi dalla linea politica adottata dalla triade imperialista e di sostenere le proposte della resistenza irachena. Lasciare che il popolo afgano si confronti da solo con i suoi oppositori, non è un’alternativa accettabile: rinforza l’idea che non ci si possa aspettare nulla dall’Occidente e dalla sua popolazione e, quindi, incoraggia gli inaccettabile – addirittura criminali – eccessi nelle attività di alcuni movimenti di resistenza.
Prima le truppe di occupazione straniera lasceranno il Paese e più forte sarà il sostegno delle forze democratiche europee e del mondo al popolo iracheno, maggiori saranno le possibilità di un futuro migliore per questo popolo martoriato. Più durerà l’occupazione e più gravi saranno le ripercussioni che seguiranno alla sua inevitabile fine.
Palestina
Il popolo palestinese, fin dalla Dichiarazione Balfour durante la Prima Guerra mondiale, è stato vittima di un progetto di colonizzazione da parte di una popolazione straniera, che gli ha riservato il destino dei “pellerossa”, lo si voglia ammettere o meno. Questo progetto ha sempre avuto il sostegno incondizionato del potere imperialista dominante nella regione (ieri la Gran Bretagna, oggi gli Stati Uniti), perché lo stato straniero nella regione creato da questo progetto può essere soltanto l’alleato incondizionato, a sua volta, dell’intervento necessario per costringere il Medio Oriente arabo a sottomettersi alla dominazione del capitalismo imperialista.
Questo è un dato di fatto per tutte le popolazioni africane e asiatiche. Di conseguenza, in entrambi i continenti, si sono uniti spontaneamente nell’affermazione e difesa dei diritti del popolo palestinese. Nonostante ciò, in Europa la “questione palestinese” crea divisioni, creata dalla confusione tenuta viva dall’ideologia sionista che ha spesso un eco favorevole.
Oggi più che mai, congiuntamente all’attuazione del “Greater Middle East project” americano, i diritti del popolo palestinese sono stati aboliti. Allo stesso modo, i Palestinesi hanno accettato i piani di Madrid e Oslo e la roadmap disegnata da Washington. È Israele che è ritornato apertamente sui suoi passi sull’accordo e ha applicato un piano espansionistico ancora più ambizioso. Il risultato è che i Palestinesi sono stati indeboliti completamente: l’opinione pubblica può rimproverarlo giustamente di aver creduto ingenuamente nella sincerità dei suoi avversari. Il sostegno offerto dalle autorità di occupazione ai loro avversari slamismi (Hamas), almeno inizialmente e la diffusione di pratiche di corruzione all’interno del governo palestinese (riguardo alle quali i finanziatori – la Banca mondiale, l’Europa e le ONG – hanno taciuto, sempre che non vi fossero direttamente coinvolti) hanno portato alla vittoria elettorale di Hamas (era prevedibile). Questo divento, quindi, un altro pretesto immediatamente addotto con lo scopo di giustificare un allineamento incondizionato alla strategia israeliana, qualunque essa fosse.
Il progetto coloniale sionista ha sempre rappresentato una minaccia, oltre che per i Palestinesi, per le vicine popolazioni arabe. La sua ambizione di annettere il Sinai egiziano e l’effettiva annessione del Golan siriano lo testimoniano. Nel Greater Middle East project è garantito un posto particolare ad Israele, al suo monopolio regionale di attrezzature militari nucleari e al suo ruolo di “partner indispensabile” (con il fallace pretesto che Israele abbia capacità tecnologiche che gli Arabi non possiedano. Che razzismo!).
Non si intende qui analizzare le complesse interazioni tra le battaglie di resistenza contro l’espansionismo sionista e i conflitti politici e le scelte in Libano e in Siria. I regimi Baath in Siria hanno resistito a modo loro alle richieste avanzate dai poteri imperiali e da Israele. Che questa resistenza sia servita anche a legittimizzare ambizioni più discutibili (controllo del Libano) non è certamente discutibile. Inoltre, la Siria ha cautamente scelto gli alleati meno pericolosi in Libano. È noto che il Partito Comunista libanese ha organizzato la resistenza contro le incursioni di Israele nel Libano del sud (inclusa la deviazione dell’acqua). Le autorità siriane, libanesi e iraniane cooperarono strettamente per distruggere questa pericolosa base e per sostituirla con Hezbollah. L’assassinio di Rafiq al – Hariri (un caso ancora irrisolto) ha dato ovviamente ai poteri imperialisti ( primi gli Stati Uniti e seconda la Francia) l’opportunità di intervenire con tre obiettivi in mente: (1) costringere Damasco ad allearsi in modo permanente con gli Stati arabi vassalli (Egitto e Arabia Saudita) – o, altrimenti, eliminare i resti di un potere baathista deteriorato; e (2) distruggere ciò che resta della capacità di resistere alle incursioni israeliane (chiedendo il disarmo di Hezbollah). Se utile, si può invocare in questo testo retorica sulla democrazia.
Oggi accettare l’attuazione del progetto israeliano in corso significa firmare l’abolizione del primario diritto dei popoli: il diritto a esistere. È il più grave crimine in assoluto contro l’umanità. L’accusa di “anti – semitismo” rivolta a coloro che rifiutano questo crimine è soltanto un terrificante mezzo di ricatto.
Iran
Non è nostra intenzione sviluppare qui le analisi richieste dalla Rivoluzione islamica. È stato, come è stato proclamato tra i sostenitori dell’Islam politico e tra gli osservatori stranieri, la dichiarazione e il punto di partenza per un cambiamento che in definitiva si deve impadronire dell’intera regione, forse perfino del mondo musulmano nella sua totalità, rinominato per l’occasione umma (la “nazione” che non è mai stata)?. Oppure è stato un evento singolare, soprattutto perché è stata un’unica combinazione delle interpretazioni dell’Islam sciita e dell’espressione del nazionalismo iraniano?
Partendo dalla valutazione di ciò che ci interessa qui, farò soltanto due osservazioni. La prima è che il regime dell’Islam politico in Iran non è per natura incompatibile con l’integrazione del Paese nel sistema capitalista globalizzato così com’è, in quanto il regime si basa sui principi liberali per gestire l’economia. La seconda è che la nazione iraniana in quanto tale è una “nazione forte” e uno dei suoi maggiori componenti, se non tutti, sia delle classi popolari che delle classi dominanti, non accettano l’integrazione del loro Paese nel sistema globalizzato in una posizione di sottomissione. C’è, sicuramente, una contraddizione tra queste due dimensioni della realtà iraniana. La seconda risponde alle tendenze di politica estera di Teheran che testimoniano la volontà di resistere ai diktat stranieri.
È il nazionalismo iraniano – potente e nello stesso tempo, secondo me, positivo dal punto di vista storico – che spiega il successo della modernizzazione delle capacità scientifiche, industriali, tecnologiche e militari prese dal regime sciita e dal successivo Komeinista. L’Iran è uno dei pochi Stati del Sud del mondo (con la Cina, l’India, la Corea, il Brasile e forse pochi altri, ma non molti!) ad avere un progetto nazionale borghese. Se sarà possibile, nel lungo termine, realizzare o meno questo progetto (io penso che non lo sia) non è il centro della nostra discussione qui. Oggi questo processo c’è ed è a posto. È proprio perché l’Iran crea una massa critica capace di imporsi come partner rispettato che gli Stati uniti hanno deciso di distruggere il paese con un’altra guerra preventiva. Come si sa bene, il conflitto si sta costruendo intorno alle capacità nucleari che sta sviluppando l’Iran. Perché questo Paese, proprio come gli altri, non dovrebbe avere il diritto di dedicarsi a queste capacità fino a diventare una potenza militare nucleare? Con quale diritto le potenze imperialiste e il loro complice israeliano pretendono di avere il monopolio delle armi di distruzione di massa? È possibile credere al discorso secondo il quale le nazioni “democratiche” non useranno mai queste armi come farebbero gli “Stati disonesti”, quando è di dominio pubblico che le nazioni democratiche in questione sono responsabili dei peggiori genocidi dei nostri tempi, incluso quello contro gli Ebrei e che gli Stati Uniti hanno già usato armi atomiche e ancora oggi rifiutano un divieto totale e generale del loro utilizzo?
Conclusioni
Oggi, i conflitti politici nella regione vedono lo scontro tra tre potenze: quelle che proclamano il loro passato nazionalista (ma sono, in realtà, niente più che gli eredi degenerati e corrotti delle burocrazie dell’era nazional – populista); quelle che proclamano l’Islam politico; e quelle che stanno provando a organizzare richieste “democratiche” compatibili con il liberismo economico. Il consolidamento del potere di una di queste forze non è accettato da una sinistra attenta agli interessi delle classi popolari. In effetti, gli interessi delle classi più ricche, affiliate al sistema imperialista attuale, sono espressi attraverso queste tre tendenze. La diplomazia americana tiene tutti e tre i ferri sul fuoco, poiché è concentrato ad utilizzare i conflitti attorno a sé a suo esclusivo vantaggio. Per la sinistra il tentativo di partecipare a questi conflitti soltanto attraverso le alleanze con una o l’altra tendenza (dando la preferenza al regime al potere per evitare il peggio, per esempio l’Islam politico o altro, cercando di allearsi con quest’ultimo, per sbarazzarsi dei regimi) è destinato a fallire. La sinistra deve imporsi intraprendendo lotte nelle aree in cui trova il suo posto naturale: difesa degli interessi sociali ed economici delle classi popolari, la democrazia, l’imposizione di una sovranità nazionale, tutti concettualizzati insieme come inseparabili.
La regione del Greater Middle East è oggi centrale nel conflitto tra il leader imperialista e i popoli del mondo intero. Sconfiggere il progetto di fondazione di Washington è il requisito necessario che permetterà di offrire possibilità di progresso in ogni regione del mondo. Se si fallisce, tutti questi progressi resteranno estremamente vulnerabili. Questo non significa che l’importanza delle lotte portate avanti in altre regioni del mondo, in Europa e in America latina o da qualunque altra parte dev’essere sottostimata. Significa soltanto che dovrebbero essere parte di una visione d’insieme che contribuisce alla sconfitta di Washington nella regione che ha scelto per il primo attacco criminale di questo secolo.
a cura di Francesca Pollastro (Ossin.org)