Sgozzate l'apostata !
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Corriere del Mezzogiorno, 19 novembre 2016
Sgozzate l’apostata !
Nicola Quatrano
“Sgozzatelo!”, “Sgozzatelo!”… E’ solo grazie al richiamo di questo slogan sinistro che il taxista riesce a individuare il palazzo della Corte Suprema a Nouakchott, nella Repubblica Islamica di Mauritania. E’ il 15 novembre 2016 e da quasi un’ora mi sta facendo girare in tondo, in un caos di traffico senza regole, nonostante stamattina avesse giurato e spergiurato di conoscere benissimo la strada. Le grida vengono da un assembramento di circa duecento persone, che hanno raccolto l’invito lanciato da un gruppo salafita, a manifestare nel giorno in cui la massima magistratura mauritana deve giudicare della sincerità del pentimento di Mohamed M’Kheitir, un cittadino onorario napoletano, condannato a morte per apostasia. Aveva ventinove anni quando è stato arrestato, il 2 gennaio 2014, chissà quanti ne ha oggi.
E’ accusato di avere “offeso” il profeta Maometto (pace e benedizione su di lui), scrivendo un articolo blasfemo. Fosse stato un marabutto, o di un altro gruppo sociale superiore, la cosa sarebbe forse passata inosservata, ma M’kheitir è un “maleemine”, appartiene alla casta discriminata dei lavoratori manuali, e certe libertà non se le può concedere. Un processo frettoloso, durato meno di un giorno, ne ha decretato la condanna a morte, pronunciata il 24 dicembre 2014 dalla Corte Criminale di Nouadhibou, tra cortei d’auto per strada e un tripudio di clacson festosi.
La reazione internazionale è stata tiepida, solo in Italia qualcosa si è mosso: il 1° luglio 2015 la Commissione diritti umani del Senato ha ricevuto in audizione la sorella del condannato, Aisha M’Kheitir. Poi il presidente, il sen. Luigi Manconi, ha lanciato una petizione per la liberazione di M’kheitir che ha raccolto, in pochi giorni, oltre 19.000 firme. Il 2 luglio, il sindaco Luigi De Magistris concedeva al condannato la cittadinanza onoraria di Napoli. E appelli dello stesso tenore sono stati promossi dall’Unione delle Camere Penali, da Abdallah Cozzolino e da esponenti della comunità islamica. Sarà anche per questo che il processo di appello, tenuto a Nouadhibou il 18 aprile 2016, si è concluso con una decisione che lascia ben sperare: la Corte ha sì confermato la colpevolezza dell’imputato, ma ha “derubricato” il reato in quello meno grave di “miscredenza”. L’ho seguito come osservatore ed è stato molto tranquillo: M’Kheitir era difeso da avvocati veri, non i due di ufficio del primo grado, e le parti civili si erano ridotte da 15 a 5. Addirittura, l’avvocato Zaim ould cheikh Sidiya che in primo grado, in un crescendo di tromboni, aveva teatralmente gridato che perfino sua madre era morta di dolore alla lettura dell’articolo blasfemo, in appello le ha fatto grazia della vita, raccontando che si era solo sentita male!
Oggi però le cose non sembrano mettersi bene, a onta dell’aria tranquilla esibita dal Procuratore Generale, Sidi Mohamed Meimou, che mi riceve cortesemente prima dell’udienza. Ieri la stampa ha riportato un appello del Forum degli ulema e degli imam, che invita ad eseguire la condanna. E adesso la folla davanti al Tribunale, con le sue grida inquietanti. L’avvocato Mohamed Ould Moine, un ex ministro ora all’opposizione, e che ha accettato contro ogni convenienza di difendere il condannato, mi confida che stamattina ha preferito non mandare i figli a scuola. E, in quella folla quasi tutta di donne, ci sono anche soggetti per nulla rassicuranti. Un amico di M’kheitir (di cui non dirò il nome per non esporlo) mi indica Yehdhih Ould Dahi, capo della corrente islamista "Ahbab Errassoul", che tra le pieghe del boubou (l’abito tradizionale) nasconde, ma nemmeno troppo, una pistola.
L’udienza, fissata per le 11, comincia alle 12 e 30. Le parti civili sono ritornate ad essere 15 e la madre dell’avvocato Ould Sidiya è nuovamente morta di dolore (ahi, ahi!). I toni sono aspri, qualcuno chiede di processare anche i difensori dell’apostata. La cosa non turba per niente maitre Fatimata M’Baye, una donna straordinaria, che è riuscita ad emanciparsi ad un matrimonio forzato subito a 12 anni e che oggi è la prima (ed unica) avvocato donna della Mauritania.
La folla cresce e rumoreggia. Finita l’udienza, vengo accompagnato dagli uomini della sicurezza in una stanza, in attesa che la strada si liberi. Con me c’è un inviato dell’ambasciata degli Stati Uniti, Tom Bradley, originario dell’Alaska (sua moglie fa yoga con Sarah Palin, ci tiene a dirmi, anche se non nasconde la delusione per l’elezione di Trump). Conversiamo in francese e continuo a domandarmi a chi assomigli. Dopo un po’ gli agenti ci permettono di uscire, ma non a piedi, avvertono. Chiedo a Bradley un passaggio ma lui si gira e scappa, balbettando qualcosa in inglese (un inglese strano, forse dell’Alaska). Ecco a chi assomiglia… a Paperino!
Un giovane della rete (più o meno clandestina) degli amici del condannato viene a prendermi in macchina. La Corte pubblicherà il verdetto il 20 dicembre. Tre possibilità: annullamento della condanna e liberazione del condannato, rinvio per un nuovo giudizio davanti ad un’altra Corte di Appello, conferma della condanna. In questi giorni sarà la politica a decidere, la Mauritania non è uno Stato di diritto. Anche qui a dicembre ci sarà un referendum costituzionale e bisogna capire cosa porti più voti (tutto il mondo è paese). Mohamed resta in carcere, ma almeno (mi dice al telefono) adesso le condizioni sono migliorate: può lavarsi e tagliarsi i capelli, mangia decentemente. Da qualche giorno gli hanno dato anche una televisione.
Aggiornamento
L’affare si va radicalizzando sempre di più. Il governo sembra avere mutato l’originaria posizione, che assecondava l’indignazione della piazza, e moltiplica in questi giorni le rassicurazioni sulla sorte del condannato, evidentemente sensibile alle pressioni internazionali. Dall'altro lato, però, gli estremisti religiosi alzano il tiro.
Così ieri, 19 novembre, il primo ministro Yahya Ould Hademine avrebbe, secondo alcune fonti, promesso la liberazione del condannato. Avrebbe, in particolare, chiesto agli esponenti politici e religiosi di operare perché la piazza si plachi, in vista della liberazione del blogger.
Lo stesso presidente della Repubblica, Mohamed Ould Abdel Aziz, si sarebbe impegnato, nel corso di un colloquio con militanti per i diritti dell’uomo, ad intervenire per rendere possibile il rilascio del condannato. Avrebbe aggiunto di essere convinto che M’Kheitir non si era reso conto della portata di quanto andava scrivendo.
La piazza per contro si agita. La polizia è dovuta intervenire con la forza, nel pomeriggio del 18 novembre, per disperdere una manifestazione che reclamava l’esecuzione capitale per M’Kheitir. Le forze antisommossa sono ricorse, nell’occasione, ai gas lacrimogeni contro un migliaio di manifestanti.
Il corteo, che aveva preso inizio dopo la grande preghiera del venerdì, si era diretto verso il Palazzo della Repubblica. Ciò mentre il ministro degli Affari Islamici, Ahmed Ould Ehel Daoud, riuniva nel suo ufficio diversi imam, chiedendo loro di impegnarsi contro le manovre degli estremisti religiosi che chiedono l’esecuzione del blogger.
Estremisti religiosi che alzano il tiro anche nei media sociali. Gira una immagine di M’Kheitir tra le fiamme, la cui didascalia reclama che sia ucciso perché possa andare subito all’inferno. Ma i fanatici prendono di mira anche gli amici di M’Kheitir, in particolare Naji Ouled Abdallahi Ouled Chekhahmed, un giornalista di poco più di trenta anni, che accusano di avere operato in combutta col condannato, per diffondere idee ateiste.