Una discarica umana per immigrati irregolari
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Quattro universitari in visita al Centro di identificazione ed espulsione di Ponte Galèria, a Roma
Una discarica umana per immigrati irregolari
Antonio Cavaliere, Francesco Marco de Martino, Raffaella Santacroce, Marta Ranieri (*)
Arriviamo in auto al Cie di Ponte Galèria di Roma, in una traversa di via Portuense, nella mattinata del 13 maggio. Siamo stati autorizzati all’accesso dalla prefettura di Roma. La giornata è fresca, il sole splende, c’è persino una brezza leggera.
La zona non è molto distante dall’aeroporto di Fiumicino. La mappa indica che siamo quasi arrivati; strano, tutt’intorno, a parte l’aeroporto, non c’è che campagna, strade assolate e deserte. Ad un tratto riconosciamo il C.I.E. da lontano, dall’aspetto, che è pressappoco quello di ogni carcere: un muro di cemento vivo alto circa 5/6 metri su cui campeggiano ben in vista grosse sbarre con punte acuminate, lampioni e numerose telecamere. All’interno s’intravede un basso fabbricato.
Parcheggiamo l’auto in uno spiazzo di asfalto senza ombra di vita e la giornata cambia. Non si sente più la brezza, non ci si accorge più del sole; siamo solo infastiditi dalla sua luce chiara, troppo forte.
All’ingresso, dopo una rapida identificazione da parte di un militare dell’esercito, si apre il primo cancello.
Ad accoglierci un poliziotto molto gentile; ci invita a seguirlo verso il secondo controllo attraverso il metal-detector. Superato anche questo, ci troviamo all’interno dell’area amministrativa. Subito a sinistra, in una sala colloqui, vediamo una coppia di fidanzati: entrambi trattenuti nel centro, in due padiglioni diversi, possono stare insieme solo due ore al mattino, per giunta sotto gli occhi di chiunque passi di lì. Da una porta aperta si scorgono le pareti di una stanza completamente tappezzata di monitor attivi per il controllo delle aree di detenzione. Al centro della stanza un carabiniere.
Proseguiamo verso la stanza della direttrice, attraversando un breve corridoio interno. Ci viene incontro, è molto gentile, ci invita ad accomodarci.
La dirigente della questura ci illustra il funzionamento della struttura: le forze dell’ordine (polizia, carabinieri, guardia di finanza ed esercito), sotto il suo coordinamento, presidiano i blocchi detentivi dall’esterno. Il servizio interforze interviene all’interno solo in caso di necessità.
Dentro, lavorano operatori di una cooperativa sociale privata che ha vinto la gara d’appalto per la fornitura e la gestione di alcuni servizi indispensabili per gli immigrati ristretti nella struttura, quali il pasto, il vestiario, l’assistenza medica e psicologica e la mediazione culturale.
In tutto i ristretti sono circa cento, per due terzi uomini. In realtà il C.I.E. potrebbe ospitare più di trecento persone; ma lo stanno ristrutturando a seguito dei danni derivanti dalle proteste degli immigrati.
I detenuti hanno il diritto ad avere un cellulare (a condizione che non possegga sistemi fotografici), ed anche l’equivalente di tre euro e mezzo al giorno da poter spendere in beni presenti allo spaccio.
Il nostro sguardo si incrocia fulmineamente quando la direttrice afferma che il C.I.E. è solo una misura amministrativa, assolutamente non penale, gli immigrati irregolari che vi sono ristretti sono ospiti, non detenuti né internati. Si avverte una forte elettricità nell’aria, il timore è che qualcuno ricordi alla direttrice che erano misure amministrative anche le "unità amministrative legalmente indipendenti sottratte al codice penale ed ai comuni procedimenti giudiziari" della Germania nella metà degli anni Trenta, utilizzateper gli "elementi antisociali".
Ci limitiamo ad obiettare che – al di là delle etichette formali - ciò che ha in comune questa misura amministrativa con il carcere è anzitutto il dato fondamentale della privazione della libertà. Anche se a ben pensare la dottoressa ha ragione, non è un carcere, in carcere ci sono meno telecamere.
La nostra interlocutrice lo riconosce; ma reagisce esclamando che se non ci fossero i C.I.E., queste persone, che hanno già commesso gravi reati, tornerebbero a commetterne; ed allora, come si fa a dire ad un politico che deve lasciarli in libertà?
Fortunatamente, anche davanti a questa affermazione, non accade l’irreparabile (siamo appena all’inizio della ‘visita’, non vorremmo si interrompesse bruscamente).
Ci spiega che la capienza dei tredici C.I.E. italiani è molto ridotta rispetto alle richieste di trattenimento, ragion per cui finiscono al loro interno quasi soltanto coloro che devono essere espulsi in quanto già autori di reato, e, tra questi, i responsabili dei reati più gravi. E aggiunge che si potrebbe fare a meno dei C.I.E. in relazione a tali soggetti, qualora si provvedesse a preparare l’espulsione attraverso contatti con i Paesi di origine durante il periodo di detenzione.
La nostra comprensione viene scossa ulteriormente quando sentiamo dire alla direttrice che comunque conviene anche agli immigrati stare chiusi nei C.I.E., piuttosto che tornare in libertà; perché, non avendo un permesso di soggiorno, per loro la cosiddetta libertà significherebbe essere riassorbiti in un sistema di illegalità e di criminalità. Obiettiamo ancora una volta che probabilmente molti di loro ricomincerebbero piuttosto a lavorare in nero, e che si dovrebbe agire diversamente, perseguendo i loro sfruttatori. La funzionaria ne conviene. Ad ogni modo, la frase secondo cui è meglio per gli ‘ospiti’ essere rinchiusi anziché liberi non l’avevamo ancora mai sentita...
Quanto alle attività, una volta alla settimana c’è un corso di lingua italiana. Nient’altro. Nessuna offerta di istruzione o formazione. Ci spiegano che bisogna tener presente che i detenuti restano, in genere, poco; ma, ammettono, alcuni anche fino ai diciotto mesi massimi previsti dalla legge. Viene in mente che, nelle carceri, anche in quelle che ‘ospitano’ detenuti in custodia cautelare, a tutti, anche a questi ultimi, è offerta la possibilità di svolgere, se lo chiedono, attività formative o lavorative; e non pochi lo chiedono, perché non sopportano di stare rinchiusi senza poter far niente. Qui non è possibile, il detenuto è rinchiuso in un limbo vuoto. Più tardi, un detenuto sosterrà che non è consentito avere penne per scrivere, perché possono essere un’arma impropria. Possibile ?!
Dopo pochi minuti di intervista della tesista alla direttrice torna il poliziotto; salutiamo ringraziando la direttrice e ci dirigiamo verso gli internati. Ma la vera domanda non è stata ancora posta.
Termina l’area al coperto, la luce torna nuovamente a dare molto fastidio. Capiamo il problema. Tutta quella luminosità rende troppo chiaro l’orrore di quel luogo: solo colate quadrate e rettangolari di cemento ed asfalto e massicce inferriate.
Quale architetto può aver mai progettato quel posto? Sapeva che doveva ospitare esseri umani?
Il muro di cemento è diviso in due da un corridoio centrale, otto cortili separati tra loro da enormi sbarre di ferro. Sotto il muro perimetrale piccole strutture murarie alte circa tre metri, bagno con doccia e otto posti letto per ciascuna camerata.
Null’altro. Se piove devi proteggerti con altri otto nella stanzetta, se c’è il sole devi proteggerti con altri otto nella stanzetta, se fa freddo devi proteggerti con altri otto nella stanzetta, se fa caldo devi proteggerti con altri otto nella stanzetta. Se proprio vuoi uscire dalla stanzetta, dopo il sole cocente e prima dell’umidità, sei controllato 24 ore su 24 dalle telecamere.
Continuiamo a chiederci cosa aveva mai in mente l’architetto quando ha disegnato il progetto. Dov’è finita l’umanità? Qui, su questa spianata di cemento?
La luce del sole continua a dare fastidio, sempre più. Ci avviciniamo alla zona femminile.
Il privato, gestore della quotidianità degli internati, si presenta sotto le sembianze di una giovane psicologa, insieme ad altre due dipendenti, una è brasiliana, l’altra rumena. Ci spiegano che la loro organizzazione si occupa dei bisogni degli internati come quelli sanitari, la gestione della mensa, il vestiario ecc. Per le donne c’è una stanza che funge da parruccheria.
Entriamo nel primo cortile sulla sinistra, non tutte le stanze sono occupate, molte sono inagibili a causa dei danni derivanti dalle proteste degli internati; poco tempo prima, dice il poliziotto, hanno sfasciato tutto per protesta e sono scappati in circa ottanta.
Aggiunge: rompono e noi paghiamo, sporcano e dobbiamo pure pulire…
Ormai non solo gli occhi, ma anche le nostre orecchie sono infastidite, bisognerebbe metterle in stand by, non possono più assorbire parole come “questi, loro, ‘sta gente, ‘sti delinquenti, ‘sti rapinatori, ‘sti stupratori, ‘sti drogati” ecc. ecc. Il poliziotto non si risparmia.
Cerchiamo di intervistare una prima internata che si rifiuta. Andiamo più avanti, una donna di mezza età accetta l’intervista, lasciamo sola la tesista e l’internata. Una donna passeggia, ha l’aspetto di una persona usurata dalla vita, pur essendo molto giovane, non ricorda quante volte l’hanno rinchiusa e poi liberata dal C.I.E., dice: “Forse tre, forse più, non ricordo”.
All’improvviso sentiamo una voce maschile, bassa e potente, non capiamo da dove arriva, ci guardiamo intorno. Si rivolge alla nostra accompagnatrice della società privata: “Ehi puttanella!”. Individuiamo la sorgente, dietro le sbarre, dietro un vetro oscurante, la gabbia di quattro uomini identificati, e quindi pronti per l’espulsione.
Arriviamo nella zona relax delle donne, un campo di asfalto con al centro una rete da pallavolo, un reparto abbandonato da tempo, la rete è curva, l’asfalto corroso dal sole, sbiadito e spaccato; al centro dei cedimenti è cresciuta l’erba incolta, unico verde di tutto il carcere, è surreale.
Torniamo indietro, attraversiamo la medicheria, le A.S.L. qui non entrano: anche la salute è gestita dal privato. Una dottoressa ci accoglie con un bel sorriso. Anche lei, dice, è rimasta sorpresa da quello che ha trovato. Le donne in particolare, le cinesi – ci spiega – hanno tutte le spirali (usanza imposta dalla necessità di controllare le nascite) ma con i fili spezzati per impedirne l’asportazione. Solo con un intervento chirurgico di tre quattro ore è possibile rimuoverle. Per non parlare delle mutilazioni genitali femminili delle africane.
In caso di malattie pericolose si esce dal Cie, o meglio non si entra proprio. L’Aids, per esempio. Per l’assistenza sanitaria ai tossicodipendenti internati, invece, ci si rivolge al s.e.r.t..
Usciamo dalla medicheria e ci dirigiamo verso le gabbie maschili. Il livello di sicurezza sale. Non ci fanno entrare nel reparto – è troppo pericoloso! – dicono. Insistiamo; ma niente, non è possibile. Si avvicinano però gli internati, sia pure con circospezione. Gli rivolgiamo la parola, abbiamo preparato un canovaccio sia in inglese che francese, ma uno di loro esordisce: “E sì che te voglio parlà”.
Sorpresi dall’accento, lo invitiamo a seguirci in una zona più civile all’interno dell’area coperta, il poliziotto ci indica una stanza e si allontana.
Comincia il racconto, è un fiume in piena. Si fa chiamare Luciano, vive a Roma dal 1976, nel quartiere Primavalle, si sente italiano perché è qui da circa 40 anni. Ne ha meno di 60; alcuni dei quali trascorsi in carcere, perché, dice lui, gravitava in ambienti dell’estrema destra romana e non si è sottratto quando è stato necessario commettere reati. Secondo Luciano il carcere è molto meglio del c.i.e, qui ci sono telecamere ovunque.
Dice di aver collaborato con le forze dell’ordine, vi aver fatto arrestare parecchie persone, che lo conoscono tutti nel suo quartiere, ha un bar, e tutti i suoi familiari vivono in Italia con permessi di soggiorno. Tre sorelle, se capiamo bene, sono sposate con italiani. Una nipote gestisce il bar.
“Cosa potrei fare in Tunisia? – chiede – non ho nessuno, non saprei a chi rivolgermi, cosa farei?, non parlo neanche l’arabo, ero musulmano ora sono cattolico!”. Incredibile.
Ma la domanda che tutti vorremmo fare ancora non arriva. Ci assale il pensiero che l’espulsione, in un’ipotesi del genere, sia chiaramente incostituzionale. L’espulsione come misura di sicurezza è sicuramente una sanzione penale. Ma allora deve tendere, secondo l’art.27 co.3 della Costituzione, alla rieducazione del condannato, al suo reinserimento sociale. Ebbene, ammesso e non concesso che ciò possa avvenire per lo straniero espulso che ha ancora legami sociali nel suo Paese di origine, è sicuro, invece, che lì espulsione dello straniero socialmente integrato, con una famiglia ed una piccola attività economica in Italia da così tanto tempo e assolutamente nessun legame nel Paese verso cui viene espulso, contrasta frontalmente con l’idea del suo reinserimento sociale, perché equivale a sradicarlo dal suo contesto sociale e gettarlo nel vuoto. Non riusciamo a credere che ciò sia possibile. E ciò non ha nulla a che vedere con il giudizio intorno all’inafferrabile concetto della “pericolosità sociale” di quella persona: si tratta di tutt’altro, cioè di quale sia la sanzione costituzionalmente legittima per la sua condotta, e questa non è certamente l’espulsione.
Poi è la volta di Karim, giovanissimo egiziano, anche in questo caso restiamo sbalorditi non solo dalla sua padronanza della lingua italiana, ma soprattutto dall’accento milanese. E’ famoso, per lui è partita una sottoscrizione di firme, ci sono giornalisti che hanno raccontato la sua storia, ha la ragazza italiana in attesa di un figlio, lui è internato in vista dell’espulsione.
Racconta di aver avuto problemi giudiziari, sua madre vive a Milano, poi la droga, tre anni in comunità. Ma dice di aver mantenuto la parola, che ne è uscito, loro avevano detto che lo avrebbero aiutato, non lo hanno fatto, lui invece ha mantenuto la parola, ripete quasi con ossessione. Ostenta sicurezza; ma è fragile, è proprio molto fragile. “L’ultima volta che sono venuti i poliziotti mi hanno detto: preparati ti riportiamo a Milano dalla tua ragazza. Gli faccio: ma l’avete avvertita del mio arrivo? Sì, rispondono loro. Poi il destino ha voluto che lei mi chiamasse. Era tutto falso, ma ormai ero già fuori dal blocco, ero vicino al cancello esterno. Ho fatto il pazzo fino a quando non hanno deciso di lasciarmi dentro. Sono stato fortunato ho visto gente presa con la forza, legata mani e piedi con il nastro adesivo… Poi ho un’altra bambina che al telefono mi dice papà brutto papà brutto, perché non torni? …ma come faccio a spiegarle perché non torno a casa?”.
Si affaccia Walidun, giovane tunisino che avevamo intravisto pochi minuti prima, grandi occhi tristi. Come la sua storia. Ci chiede se anche lui può parlare con noi. Racconta con dolcezza della sua mamma gravemente malata, di un fratello che vive e lavora in Svizzera, “stavo in treno, volevo incontrare mio fratello, mi hanno preso e portato qui”. Vuole occuparsi della madre, vuole guadagnare ma non può farlo in Tunisia, lo attende una condanna ad alcuni anni di carcere. Il padre, dice lui, ha lasciato la madre malata, si è preso tutti i soldi e l’ha abbandonata. Ne è seguita una lite fra lui e il padre, che denunciandolo alla polizia, avrebbe ottenuto la sua condanna.
Ora la madre è costretta a vivere in un manicomio, ma è malata gravemente. E’ disperato, vorrebbe togliersi la vita. Cerchiamo di confortarlo. Ci congediamo.
Decidiamo di tornare a casa. In pochi istanti siamo fuori.
La luce ora è più bassa, è pomeriggio inoltrato; ma gli sguardi del gruppo restano tirati. Come se fossero ancora infastiditi da quella ‘luce oscura’. Aleggia uno strano silenzio in macchina. Pensavamo tutti che avremmo trovato i ragazzi appena sbarcati sulle rive italiane. Abbiamo trovato un luogo in cui l’atteggiamento di superiorità e le ingiustizie si avvertono non appena si varca la soglia di ingresso.
Un ricettacolo di tutti i problemi della disciplina italiana dell’immigrazione. La politica ancora una volta dimostra di pensare principalmente ad affermare sé stessa, piuttosto che occuparsi di ciò che veramente è importante.
Abbiamo bisogno di aria, di molta aria.
Arriva finalmente la domanda, ma noi compagni di viaggio non abbiamo la risposta. Ce lo siamo chiesto in auto e continuiamo a chiedercelo ora, a distanza di qualche giorno, e probabilmente non sarà l’ultima: cosa spinge gli esseri umani a comportarsi in questo modo con i propri simili?
(*) Antonio Cavaliere è straordinario di diritto penale nell’Università di Napoli Federico II; Francesco Marco de Martino, ricercatore di diritto penale; Raffaella Santacroce, tesista; Marta Ranieri, studentessa.