Harraga a Napoli


Nasserah Merah, militante algerina per i diritti dell’uomo, è a Napoli per la Conferenza internazionale sul Maghreb. Vuole incontrare gli harraga che sono in città, le avevo detto che ce ne sono molti. La porto a piazza Garibaldi, la grande Babilonia, luogo di approdo o di passaggio di tutti i clandestini.

Harraga letteralmente vuole dire “colui che brucia”, sono i giovani e giovanissimi algerini che partono da Annaba e, su barche di fortuna, attraversano il breve tratto di mare che separa il porto della costa nordorientale dell’Algeria dalla Sardegna.

Non è difficile trovarli, Nasserah si avvicina ad un gruppo di ragazzi che parlano algerino, seduti sotto il monumento di Garibaldi: “Da dove venite?”. Rispondono: “Siamo harraga”.

Brahim ha 25 anni, Zacaria ne ha 23, Mohammed 29 e Karim 20; tutti vengono da Annaba, sono in Italia più o meno da sei mesi, hanno pagato da 150 euro a 300 per fare il viaggio, ma precisano che in certe condizioni si può anche viaggiare senza pagare. Per Karim questa è la seconda volta che viene in Italia, la prima volta ha fatto la traversata gratis.
Raccontano che sulle barche ci sono molti minorenni, e  anche delle ragazze. Di solito queste viaggiano con il fidanzato, ma anche da sole. Le ragazze vanno tutte in Francia, perché in Italia c’è un mercato della prostituzione molto forte e gli algerini non vogliono trovare le loro donne sui marciapiedi.

Un tavolino di bar nel freddo di questi giorni, ci sediamo e offriamo loro qualcosa, solo Zacaria prende una birra, tutti gli altri caffé o succo di frutta.

Karim è il primo a raccontare la sua storia, storia scontata di miseria e di emarginazione sociale. Suo padre era meccanico in una fabbrica, ma alla sua morte non è riuscito a prenderne il posto, secondo quanto detta la regola non scritta del paese.  Ha quattro fratelli e lui è l’unico emigrato. Sua madre è contenta che sia partito.

Zacaria ha preso il bac (il diploma di maturità), ma poi sua madre si è ammalata, ha 3 fratelli (2 ragazze e 1 ragazzo), tutti in Francia. In Algeria ha dovuto rubare per pagare le medicine alla madre. Quando ha deciso di partire, la madre non voleva che la lasciasse sola, ma lui l’ha convinta promettendole che le avrebbe mandato dei soldi.
Da sei mesi che è in Italia non le ha mandato niente ancora.

Adesso parlano tutti insieme: dicono che l’unico lavoro che si trova è quello in agricoltura, si riesce a lavorare 2 o 3 giorni al mese per 25-30 euro. Qualcuno dice che per la raccolta delle olive pagano anche 45 euro al giorno.
Dicono che non vogliono mangiare il cibo che la Caritas distribuisce la sera alla stazione, perché ci mettono il sonnifero dentro. Spiego loro che è una sciocchezza, che la sonnolenza che provano dopo mangiato è naturale dopo una giornata di digiuno. Ma il pregiudizio è duro da vincere, anche loro hanno paura degli italiani, esattamente come gli italiani hanno paura degli stranieri.

Prende la parola Brahim, in Algeria faceva un po’ di contrabbando, un po’ di commercio. Dice che ha 7 fratelli che non lavorano, poi aggiunge qualcosa di terribile: un fratellino gli è morto di fame. Guardo dubbioso Nasserah, ma lei mi fa segno che è possibile.

Completamente diversa la storia di Mohammed. Lui dice che in Algeria viveva bene, faceva del commercio col fratello, ma è venuto in Italia per cambiare aria.
E’ l’altra faccia del fenomeno degli harraga, quella dell’avventura, del bisogno di evadere una realtà asfissiante.
Nasserah mi spiega che i giovani algerini sentono un bisogno spasmodico di evadere da un paese in cui non solo non c’è lavoro, ma non c’è proprio niente da fare, un paese dove i rapporti con l’altro sesso sono difficili e dove vige un controllo sociale e poliziesco soffocante.
Il divieto di espatrio esaspera questa condizione di oppressione, li fa sentire prigionieri.

Adesso raccontano tutti insieme, confusamente, la storia delle traversate: raccontano di barche spezzate in due, di molti compagni morti, di naufragi ascoltati.
Ma non sono spaventati, né traumatizzati, hanno bene in mente cosa vogliono. Tutti dicono che se avessero i documenti tornerebbero in Algeria, quello che chiedono è solo di avere la libertà di viaggiare. All’Italia chiedono di poter lavorare, perché non vogliono essere costretti a rubare.
A Napoli stanno bene, i napoletani sono buoni e non sono razzisti. Sperano di poter guadagnare presto un po’ di soldi per potersene tornare in Algeria e sistemare le loro cose… Ma questa è la storia di tutti i migranti


 

 


  

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