L'elefante saudita nel negozio di porcellane arabo
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Investig'Action, 12 febbraio 2014 (trad. ossin)
L'elefante saudita nel negozio di porcellane arabo
Nicola Nasser (*)
Presa dalla ossessione della "minaccia iraniana", che l'ha indotta ad una posizione bellicista nei confronti della Siria, l'Arabia Saudita si comporta come un elefante in un negozio di porcellane, perturbando seriamente la situazione già di per sé delicata del mondo arabo. Scatena quella che George Joffé, ricercatore al Centro di Studi Internazionali dell'Università di Cambridge, definiva il 30 dicembre scorso come la "seconda guerra fredda araba", la prima essendo quella già combattuta negli anni 1960 dall'Arabia Saudita contro il panarabismo di Gamal Abdel Nasser.
Il regno saudita si trova oggi al limite dell'isolamento politico. A causa della scelta di essere un “cane sciolto” nel conflitto siriano, l'Arabia saudita si è spinta in una impasse inestricabile per quanto riguarda la sua politica estera, cosa che la pone in disaccordo con tre superpotenze, una delle quali è il suo alleato strategico statunitense, ma anche con la Russia e con la Cina, oltre che con potenze regionali come l'Iran, l'Iraq, l'Egitto e l'Algeria, che auspicano una soluzione politica del conflitto.
E anche in seno al Consiglio di cooperazione degli Stati Arabi del Golfo (CCG), composto da sei Stati membri, il regno saudita non si comporta meglio.
E' in contrasto col Qatar a proposito del sostegno di quest'ultimo ai Fratelli Mussulmani (FM). Di conseguenza i due Stati sono anche in disaccordo sul rovesciamento di Mohamed Morsi, che fa parte dei Fratelli Mussulmani.
L'ostilità dell'Arabia saudita verso i FM, e il suo atteggiamento favorevole al loro rovesciamento in Egitto, hanno appannato le relazioni anche tra Arabia saudita e Turchia e hanno avuto ripercussioni in Siria, dove hanno prodotto una ristrutturazione dei principali movimenti politici e militari rivali in seno all'insurrezione che pretendono di rappresentare il popolo siriano: i più importanti capi e organizzazioni appoggiate dal Qatar e dalla Turchia sono stati sostituiti da altri, fedeli al regno saudita. Di conseguenza, "l'esercito Siriano Libero", per esempio, è semplicemente sparito, sostituito dal Fronte islamico.
Durante l'ultimo summit del CCG in Kuwait, gli altri cinque Stati membri del CCG, soprattutto l'Oman, hanno respinto la proposta del regno saudita di trasformare il "consiglio di cooperazione" in una confederazione.
Nonostante l'Arabia saudita abbia rinsanguato con qualche miliardo di dollari USA il governo provvisorio post-Morsi al Cairo, l'Egitto non condivide il punto di vista di Riyadh, sia sulla questione siriana, a proposito della quale esso si colloca tra i fautori della soluzione politica, sia sulle relazioni con la Russia, che l'Egitto sta per ristabilire per controbilanciare l'alleanza con gli Stati Uniti.
Secondo il Wall Street Journal online, nella edizione dello scorso 5 gennaio, la situazione che ne discende intrappola la "Casa Bianca in un dilemma diplomatico che cresce sempre più mano a mano che i suoi alleati nella regione si schierano in campi opposti".
La preferenza degli Stati Uniti per l'azione diplomatica, piuttosto che per lo scontro militare con Teheran e Damasco, ha avuto come conseguenza di isolare il regno saudita sul piano politico. L'Arabia Saudita si era preparata ad un intervento militare dell'Occidente, guidato dagli Stati Uniti o con la benedizione di questi ultimi. Si è quindi sentita tradita dal suo alleato strategico USA. A lungo si è illusa a torto che i marines statunitensi sarebbero stati sempre a sua disposizione come soldati mercenari pronti a combattere nelle guerre che essa avesse deciso di combattere finché il ricco regno fosse stato pronto a sostenerne il prezzo, ignorando che gli Stati Uniti avevano capito il contrario.
Tuttavia sarebbe stato giudizioso per il regno saudita di fare macchina indietro per seguire la stessa direzione degli Stati Uniti. invece ha persistito nella sua decisione di essere un "cane sciolto".
In una libera tribuna pubblicata il 19 dicembre scorso sul New York Times, il principe Nawaf bin Abdulaziz al Saud, ambasciatore saudita nel Regno unito, ha dichiarato che il suo paese sarà "un cane sciolto" contro la Siria e l'Iran, perché "non resterà a braccia incrociate" finché gli Stati uniti continueranno a compromettere la sua sicurezza e a "mettere in pericolo la sicurezza della regione".
Peraltro, "nonostante l'immensa ricchezza del regno saudita, quest'ultimo non è in grado di affrontare da solo serie minacce nel suo ambito strategico", ha scritto Yoel Guzansky, ex coordinatore per le questioni relative all'Iran del Consiglio di Sicurezza nazionale dell'Entità Sionista, nel quotidiano Haaretz del 25 dicembre scorso, e ha aggiunto che, "per quanto riguarda l'Iran, nessun'altra grande potenza è attualmente interessata o capace di sostituire gli Stati Uniti nel loro ruolo in materia di dissuasione e di protezione dell'Arabia saudita contro l'Iran".
Il Wall Street Journal online ha riportato, nell'edizione del 29 dicembre scorso, che alla fine dell'estate scorsa l'Arabia saudita aveva rifornito per 400 milioni di dollari armi e altro equipaggiamento a degli jihadisti salafiti siriani.
Secondo Martin Nesirky, portavoce del segretario generale dell'ONU Ban Ki Moon, i capi della diplomazia Usa e russa, John Kerry e Sergey Lavrov, si sono incontrati prima della conferenza di Ginevra II per decidere circa la partecipazione ad essa dell'Iran.
E' impossibile che il regno saudita riesca nei suoi intenti in Siria dopo che è già fallita un'altra alleanza guidata dagli Stati Uniti e composta da Qatar, Turchia, Francia e Gran Bretagna. Il principe Turki bin Faisal Al Saud, ex ambasciatore dell'Arabia Saudita negli Stati Uniti, ex direttore dei servizi di informazione, e membro influente della famiglia reale, ha riconosciuto il loro fallimento quando ha dichiarato, il 7 gennaio alla CNBC, che gli Stati Uniti non sono riusciti a risolvere il conflitto siriano.
Grazie all'Arabia saudita, il conflitto siriano si espande a macchia d'olio
Il conflitto siriano che dura da tre anni è stato in qualche modo contenuto all'interno delle sue frontiere, ma l'attuale propaganda bellicista dell'Arabia Saudita rischia di perpetuare il conflitto e, peggio, espanderlo nella regione senza con questo riuscire a raggiungere l'obiettivo proclamato dall'Arabia Saudita, che è quello di cambiare il regime di Damasco ad ogni costo.
L'interminabile conflitto siriano tocca già i paesi vicini a causa delle agitazioni e degli incitamenti settari da parte dell'Arabia Saudita.
A est, rappresentanti ufficiali iracheni hanno chiesto al governo saudita, e anche a quelli di altri paesi membri del CCG, di cessare le loro ingerenze negli affari interni dell'Iraq attraverso la fornitura di armi, ma anche di porre termine al loro sostegno politico, finanziario e logistico agli insorti, i cui atti terroristici sono costati la vita a una decina di migliaia di persone, in gran parte civili iracheni, nel 2013.
A ovest della Siria, il generale Michel Aoun, capo della Corrente Patriottica Libera (CPL), la seconda forza rappresentata nel Parlamento libanese, ha dichiarato al sito www.al-monitor.com, il 23 dicembre scorso, che il "Libano è attualmente paralizzato". Dopo due settimane di vuoto di potere, nell'aprile scorso è stato nominato un primo ministro designato, ma non ha ancora formato il suo governo. Il suo impegno è nell’impasse. Il paese è attualmente governato da una compagine ad interim. Non si intravvede alcuna apertura positiva.
La causa di tutto questo va cercata nell'Arabia Saudita. Essa approfitta della sua storica influenza sui lealisti e i suoi alleati per impedire la formazione di un qualsiasi governo di coalizione. Come condizione preliminare pretende che sia esclusa Hezbollah. Questa impasse ha diviso il paese in due campi: i filo-siriani da un lato, il filo-sauditi dall'altro. Riyadh vuole assicurarsi che i lealisti impediscano ogni possibile marcia indietro. Per tale ragione ha recentemente alimentato questa divisione con un "dono" di tre miliardi di dollari per un periodo di cinque anni all'esercito libanese, perché possa acquistare armi fabbricate in Francia nella speranza di creare un contrappeso ad Hezbollah, e creando in tal modo tutte le condizioni per il Libano piombi nella guerra civile.
Nel frattempo, il nord e l'est del paese sono sfuggiti al controllo del governo centrale di Beirut e sono diventati un bastione dove si organizzano campi di addestramento, una zona di rifugio, una riserva di combattenti e un luogo di accoglienza per i jihadisti stranieri sostenuti dall'Arabia Saudita, attizzando il conflitto in Siria e fornendo armi e combattenti.
Dissuasi dai successi militari dell'Esercito Arabo Siriano (parte delle forze armate governative), questi "jihadisti" hanno ripiegato in Libano e rispondono con una intensificazione degli attentati suicidi nel paese, provocando sempre più vittime civili libanesi, appartenenti a tutte le sette religiose.
A sud della Giordania, dove il regno hascemita è riuscito per tre anni a mantenere una posizione di equilibrio tra i suoi rapporti geopolitici con la Siria e la sua alleanza strategica con Stati Uniti e Arabia Saudita, si è manifestata recentemente una accresciuta pressione dell'Arabia Saudita sulla Giordania per un cambio di rotta.
Per esempio, www.ammonnews.net ha riportato il 30 dicembre scorso che Ma'arouf al-Bakhit, ex Primo Ministro e membro della camera Alta, ha messo in guardia contro una pressione sulla Giordania provocata dalla diversità tra l'approccio statunitense alla soluzione del conflitto siriano e quello dell'Arabia Saudita. D'altronde una "sfida" si presenta attualmente alla "Giordania che deve prendere in considerazione la possibilità di vedersi imposto il punto di vista dell'Arabia saudita", precisando che "la Siria non considera più la Giordania come un paese neutrale" e accusa il regno giordano "di ospitare un centro di operazione saudita-sionista dove si organizzano operazioni militari in Siria". Al-Bakhit ha aggiunto che se la Siria decidesse di prendere delle iniziative sulla base di tali accuse, "sarebbe possibile che il conflitto si allarghi al regno". Al-Bakhit avrebbe dovuto citare il Libano e l'Iraq quali precedenti sempre di attualità.
Più lontano, in Russia, i recenti attentati terroristi di Volgograd sono stati interpretati come parte integrante di questa stessa rete e organizzazioni terroriste medio-orientali, cui sono stati imputati, alienandosi così la Russia, polo mondiale emergente. I media russi hanno citato l'Arabia Saudita come responsabile di questi attentati.
Fiasco strategico dell'Arabia saudita in Siria
Dopo la sedicente "primavera araba", apparsa per la prima volta in Tunisia tre anni fa, le monarchie del CCG guidate dall'Arabia Saudita sono riuscite a proteggersi dalla ondata di manifestazioni popolari grazie ad una operazione preventiva di salvataggio (Oman, Bahrein) o ad un intervento militare diretto (Bahrein). Così attraverso un intervento militare indiretto, politico e finanziario, nonostante tutto pubblico, con l'obiettivo di strumentalizzare le rivoluzioni nascenti in queste "repubbliche", oramai più simili a negozi di porcellane, di Stati apolidi o in via di disgregazione, senza fiato in una lotta disperata contro organizzazioni terroristiche "islamiste" armate e finanziate da queste stesse petromonarchie e territori sotto l'autorità di sceicchi, diretti dall'Arabia Saudita.
Questa strategia dell'Arabia saudita è più visibile in Siria, dove ha subito il primo fallimento. Il consenso interno, regionale e internazionale su una soluzione politica e una campagna anti-terrorista guadagna terreno per bloccare questa strategia. Due sole opzioni si offrono all'Arabia saudita: o fa marcia indietro, o si trova isolata. O cambia rotta o cambia leadership.
La propaganda bellicista dell'Arabia Saudita in Siria la colloca agli occhi dell'opinione pubblica come all'origine della violenza e della instabilità della regione, giustificando le accuse rivoltale dagli Stati e alimentate dagli incitamenti dell'Entità Sionista dopo gli attacchi terroristi dell'11 settembre 2001, secondo cui l'ideologia settaria dell'Arabia Saudita è una incubatrice dove si sviluppano violenza e terrore, nonostante che il regno saudita sia da tempo immemorabile in guerra contro i propri terroristi islamisti.
Questa ideologia settaria produce uno scontro settario nel Medio oriente tra due teocrazie: la teocrazia "sciita" iraniana e la teocrazia sunnita saudita, occultando in tal modo la vera linea di demarcazione della lotta regionale tra l'occupazione di terre arabe in Palestina, in Siria e in Libano da parte dei coloni sionisti protetti dagli Stati uniti, e l'asse di resistenza autoproclamato dall'Iran e la Siria. La conservazione della secolare identità della Siria costituirà un primo passo verso nella direzione di un contenimento di questo conflitto settario distruttivo nella regione.
In questo contesto, conviene notare che il regime saudita, padrino della "iniziativa di pace araba" si presenta coma facitore di pace, in opposizione alla potenza occupante sionista, ma reclama una soluzione militare in Siria, le cui gole del Golan sono occupate dall'Entità Sionista dal 1967.
L'ironia della cosa è che l'intesa Arabia saudita-Entità Sionista sembra condurre verso la sola uscita di emergenza nella regione per il regno. L'approccio secondo cui "il nemico del mio nemico è mio amico" crea una situazione di fatto compiuto sotto forma di un matrimonio di convenienza tra Arabia saudita ed Entità Sionista contro la Siria e l'Iran, ponendo questi ultimi in una posizione moralmente superiore agli occhi della stragrande maggioranza degli arabi e dei Mussulmani.
(*) Nicola Nasser è un bravo giornalista arabo, che abita a Bir Zeit, in Cisgiordania, nei territori palestinesi occupati dall'Entità Sionista. Questo indirizzo email è protetto dagli spambots. È necessario abilitare JavaScript per vederlo.