Intervista a Pierre Eboudit
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Afrique Asie, gennaio 2010
Congo Brazzaville - Intervista a Pierre Eboudit
di Luigi Elongui
Militante panafricano e dirigente del movimento insurrezionale M22, del quale ha raccontato la storia in un libro uscito quest’anno, Pierre Eboudit spiega ad Afrique Asie le sue idee sul futuro del suo paese e dell’Africa centrale
Cosa l’ha spinta a scrivere un libro che racconta di avvenimenti di trentotto anni fa nell’attuale Repubblica del Congo?
Per un imperativo etico. Questo libro riguarda un pezzo della nostra storia. Per comprendere la deriva attuale, è necessario averne una visione obiettiva. Prima del Movimento 22 febbraio 1972 (M22) e della sua eliminazione nel 1973, il Congo era un paese “rivoluzionario” e contava qualcosa nel concerto delle nazioni progressiste. Poi, soprattutto dopo l’assassinio del presidente Marien Ngouabi, il paese è drammaticamente sprofondato e tutti i quadri progressisti sono stati licenziati dal potere neo-coloniale. Nel 1991, la Conferenza nazionale suprema non ha provocato lo sperato sussulto nazionale. Il riflusso identitario e la trasformazione dei partiti politici in partiti etnici nel periodo successivo hanno provocato la delusione del popolo nei confronti delle elite.
Il M22 è stato allo stesso tempo la fine delle illusioni riformiste e la presa di coscienza da parte di alcuni dei suoi componenti dell’esigenza di una politica nuova.
Di fronte alle attuali difficoltà nella Repubblica del Congo, è possibile un sussulto di orgoglio nazionale?
Sarebbe urgente, perché ci troviamo in un impasse. Sarebbe necessaria una decolonizzazione mentale preventiva per prendere coscienza della situazione economica dei nostri Stati sottomessi ai diktat della Banca mondiale, del Fondo monetario internazionale e della ex potenza coloniale.
Il cambiamento deve orientarsi verso la costruzione di un partito democratico che si opponga al tribalismo – ciò che costituisce il patrimonio storico dello M22 – e che lotti per la liberazione dalle costrizioni economiche Nord-Sud e per i diritti dell’uomo. Questo partito deve riunire tutte le forze democratiche interne e tutti gli elementi della diaspora in un fronte democratico progressista. Dovremo essere capaci di inventare una forma di democrazia che sia di nostra invenzione e di cultura africana.
Quali sono le priorità che un vero governo nazionale dovrebbe affrontare?
Nell’ambito economico e sociale. Per ciò che concerne la giustizia sociale, occorrerà combattere le discriminazioni etniche e privilegiare l’integrazione. Sul piano economico, occorre esaminare diversi ambiti di problemi. Da una parte chiedersi se le istituzioni finanziarie ereditate dal colonialismo siano in grado di favorire lo sviluppo dei nostri Stati, nonostante la forte influenza dell’ex potenza coloniale nelle decisioni delle Banche centrali. Detto in altri termini, vi può essere convergenza di interessi tra la ex potenza coloniale , i cui progetti egemonici in Africa sono sempre stati evidenti, e lo sviluppo dei nostri Stati?
Oggi, quando commerciamo con l’estero, dal 50% al 65% degli incassi da esportazione sono immagazzinati nella Banca di Francia. E’ il prezzo da pagare all’adesione alla zona franca, e significa anche per noi l’impossibilità di formare un risparmio nazionale, generatore di investimenti per il paese. Questa danaro, che è il nostro, ci viene restituito sotto forma di prestiti con interessi a tassi assai elevati che rendono asfittiche le nostre capacità d’investimento.
Una questione di organizzazione
D’altra parte ci si pone la questione di una strategia industriale fondata sul petrolio, la nostra risorsa strategica. Come comprendere che, cinquanta anni dopo l’”indipendenza”, noi continuiamo ad avere una economia di rendita e di estrazione, che fa del nostro ex colonizzatore il principale finanziatore del bilancio nazionale, dal momento che è il più importante sfruttatore della nostra risorsa strategica? Questa posizione gli ha permesso di avere influenza sulle guerre che hanno rovinato il nostro paese grazie ai benefici tratti dalle nostre risorse naturali poste sotto il suo controllo.
Bisogna insegnare al nostro popolo i meccanismi della tutela monetaria e dello stato di servaggio del continente africano considerato come una riserva di materie prime. La priorità deve essere quella di trasformare le nostre materie prime in prodotti finiti sul territorio nazionale.
L’altro asse da privilegiare è lo sviluppo dell’agricoltura, soprattutto la coltura orticola familiare, appoggiandosi alle banche che accordano microcrediti e ad alcune ONG che promuovono lo sviluppo durevole.
L’emergere di uno Stato a partecipazione popolare e governato da principi di giustizia sociale passa anche per una rivoluzione culturale a livello di mentalità?
Occorre che ci sbarazziamo di tutti i nostri pesi. Il tribalismo è esistito prima, durante e dopo la colonizzazione e non sparirà facilmente. E tuttavia non abbiamo altra scelta di fronte ad una dottrina che predica l’ineguaglianza tra i cittadini dando preferenza all’appartenenza etnica.
Come spiega l’attuale debolezza dell’opposizione congolese e delle opposizioni africane?
Questa debolezza nasce dalla divisioni e la carenza di senso patriottico dei suoi dirigenti. A ciò bisogna aggiungere l’eliminazione di un gran numero di militanti progressisti dopo il 1973. Manca in Congo un fronte democratico progressista di opposizione, capace di creare il raggruppamento che la maggioranza del popolo attende.
E’ possibile che un giorno i Congo ed in Africa centrale compaiano delle elite dotate di una nuova cultura politica?
E’ soprattutto un problema di organizzazione. Ciò che è difficile realizzare è la visibilità di queste elite sulla scena nazionale. Esse già esistono nel nostro paese e nella diaspora, Ciò che manca, è lo strumento della loro espressione politica.
Alcune nazioni dell’Africa centrale potrebbero diventare delle potenze grazie alle loro immense risorse umane e materiali. E invece sono classificate tra i paesi poveri e indebitati del pianeta. Quale bilancio fa della decolonizzazione?
Per il Congo-Kinshasa come per l’Angola, e così anche un po’ per il Congo-Brazzaville, occorre prima di tutto una rivoluzione democratica e panafricana capace di far emergere dei politici che si facciano carico degli interessi delle popolazioni. Oggi, d’altra parte, è più difficile realizzarla perché le potenze neo-coloniali e le multinazionali non hanno alcun interesse a trattare con delle nazioni forti. Faranno di tutto per perpetuare lo stato attuale di declino dei paesi dell’Africa centrale. Detto ciò, l’elezione di Barack Obama è in grado di mutare i rapporti Nord-Sud? Il movimento ecologista, l’emergere di un fronte di paesi latino-americani che contestano la politica USA, il mutamento di equilibri tra la Cina e l’Occidente, tutto questo può contribuire a cambiare i rapporti di forza sia in seno all’Organizzazione mondiale del commercio, che alle Nazioni Unite.
Come liberarsi dalle nuove forme di dipendenza e tagliare i legami con la “Françafrique”?
La Françafrique è un sistema di scambio diseguale tra l’ex metropoli colonizzatrice e i nostri Stati. Questo sistema poggia sul saccheggio delle nostre materie prime con la complicità delle nostre elite corrotte. Per liberarcene, l’unione delle forze progressiste è una condizione indispensabile. Occorre impegnare il nostro paese in un processo di edificazione di uno Stato federale panafricano. Questo Stato non andrà a cancellare l’esistenza degli attuali Stati nazionali, permetterà piuttosto una migliore organizzazione del nostro spazio comune, l’Africa.