Un paese alla deriva
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AfriqueAsie, aprile 2013 (trad.ossin)
Egitto. Manifestazioni di piazza, paralisi delle istituzioni, divisione delle forze sociali e politiche, sgomento della popolazione, esigenze della finanza internazionale, preoccupazioni per il Nilo e esitazioni del governo. La nazione vacilla sotto il peso di problemi mal gestiti
Un paese alla deriva
Amadeo Piegatore
Nel 2008, mentre Mubarak era ancora all’apice del potere, il giornalista inglese John R. Bradley pubblicava un saggio dal titolo “Inside Egypt”. Vi anticipava la fine del regime provocata da una sollevazione popolare e l’istallazione di un governo islamista. Spingendosi oltre, questo autore, dalle non celate simpatie sioniste, prevedeva un futuro nel quale la dominazione della valle del Nilo da parte dei Fratelli mussulmani avrebbe sollevato contro di loro una gran parte della popolazione. Molte forze, tra le quali laici e modernisti, sostenitori di uno Stato secolarizzato, le confraternite sufite con una larga base popolare ma osteggiate dagli integralisti, le donne e i copti, contrari alla mortificazione del loro statuto, così come auspicato da una interpretazione letterale e stretta della sharia (legge mussulmana), avrebbero costituito un forte contro-potere rispetto ai nuovi governanti. La televisione BBC aveva organizzato una tavola rotonda sul tema, con l’autore e il ministro degli affari esteri del governo ombra (shadow cabinet) dell’opposizione allora conservatrice. Quest’ultimo condivideva le ipotesi dell’autore.
Forze divergenti
Ci si può chiedere se gli avvenimenti sopravvenuti siano la messa in opera di un piano prestabilito, tanto più che diversi aiuti dell’Occidente, particolarmente degli Stati Uniti, hanno contribuito all’accesso e al consolidamento di Mohammed Morsi alla guida del paese. Per esempio con la sua imposizione alla testa dell’esecutivo nel giugno 2012 e nel corso delle diverse crisi che hanno poi scosso il paese. Ricordiamo il ruolo degli USA nel dimissionamento del comandante dell’esercito nell’agosto 2012, nella destituzione del procuratore generale seguita dalla imposizione della nuova costituzione nel dicembre 2012, e ancora nell’intervento di John Kerry (ministro degli affari esteri degli Stati Uniti) sul comandante in capo dell’esercito, Abdel Fattah al-Sissi, nel marzo 2013.
Senza volere troppo approfondire, occorre constatare che questo libro fu largamente premonitore. L’Egitto è oramai profondamente diviso secondo le linee evocate. Tre grandi forze si scontrano senza che nessuna sia fin qui riuscita a prevalere, mentre una profonda diffidenza le separa. Gli islamisti non riescono a controllare gli ingranaggi dell’amministrazione e ancor meno della società civile che restano loro opposti per natura e spesso ostili per rifiuto. Le resistenze del potere giudiziario ne sono un esempio. Dall’altro lato, nonostante le forti manifestazioni di forza in piazza, nei media e il sostegno dell’opinione pubblica, l’opposizione non riesce ad abbattere il presidente o almeno a imporgli una base di dialogo. Arriva a chiedere un intervento dei militari, terza forza. Questi ultimi, che si sono screditati durante i loro diciassette mesi alla testa del paese, temono di impantanarsi ancora una volta e aspettano, se si crede ai loro portavoce ufficiali, che la crisi si approfondisca ancora di più, prima di intervenire.
Dall’epoca nasseriana, l’esercito si ritiene investito del compito di guidare la nazione e non si fida delle altre due forze. I Fratelli, che hanno subito la galera, le torture e le esecuzioni con i presidenti militari, non lo amano particolarmente. Essi preparano con discrezione dei gruppi destinati a sostituirsi all’esercito e alla polizia. La minaccia di dimissioni del generale Sissi, a fine febbraio, sembra essere stata motivata dall’arrivo di quattro container di uniformi destinate a queste milizie. E’ probabilmente lo stesso timore che ha consigliato alla polizia di sospendere lo sciopero in marzo, quando il ministro della giustizia aveva invitato i “cittadini” a sostituirsi alle forze dell’ordine. Quanto alle correnti dell’opposizione, essi diffidano anche essi del Grande esercito, che le ha emarginate da più di mezzo secolo. Tuttavia l’accresciuta potenza dei Fratelli mussulmani e la loro infiltrazione nell’amministrazione ha indotto alcuni di questi oppositori, come Mohammed Baradei, a chiedere l’intervento dell’esercito per arrestare l’anarchia che si estende.
Tensioni interne
All’interno stesso delle tre grandi forze, grandi contraddizioni le dividono e talvolta in modo esacerbato. Tra gli islamisti, i salafiti, divisi in diverse correnti, temono l’egemonia dei Fratelli mussulmani e hanno preso contatti con alcune componenti dell’opposizione. All’interno stesso della confraternita, appaiono dei dissensi. Kamal al-Halbawi, vecchio militante da lungo tempo rifugiato a Londra, ha così proposto il suo sostegno ad un eventuale intervento dell’esercito. L’ex vice presidente di Morsi, Mahmoud Makki, si è dimesso dall’incarico di ambasciatore in Vaticano. Precauzione di fronte ad un’opinione pubblica molto ostile agli islamisti o calcolo per timore della perdita del potere? Difficile da dire, ma la takiya (prudenza al servizio della fede) non spiega tutto.
Dal lato dell’opposizione, vi sono ovviamente delle rivalità personali. Il trio Baradei, Hamdine Sabbahi, Amr Moussa, in seno al Fronte di salvezza nazionale, non è tranquillo, ognuno di essi desidera diventare presidente. Senza contare qualche figura di secondo piano, come Al-Sayed Badawi, leader del partito Wafd, dalle molteplici giravolte di posizionamento. Vi si sovrappongono le divergenze interne a questo fronte tra liberali, laici, marxisti, nasseriani e altri di ogni colore. Cui si aggiunge il controllo molto relativo che queste opposizioni hanno della piazza, che pure dovrebbero rappresentare. Certamente alcuni movimenti come Kefaya, il 6 aprile o i Giovani per la rivoluzione costituiscono dei collegamenti tra i partiti e la piazza, ma molti settori sono fuori dalla loro area di influenza. Basti pensare ai gruppi di ultras organizzati. I tifosi della squadra Al Ahli sono stati protagonisti di manifestazioni di massa e di taluni incidenti violenti.
All’interno dell’esercito, nonostante viga la disciplina e il silenzio, si ripercuotono le convulsioni della società civile. E sono tanto più condivise dal momento che la gestione del potere da parte del Consiglio Superiore delle Forze Armate (CSFA) non è stato concludente. La crisi perdurante che scuote il paese produce spinte centrifughe anche tra gli ufficiali, in parte parallela a quelle che investono gli altri cittadini, ma anche secondo rivalità e conflitti generazionali, alti gradi contro ufficiali di rango intermedio. Cosa che rende ancora più improbabile una soluzione della crisi, giacché fino ad ora l’esercito è stato l’elemento di equilibrio del paese. Se dovesse rompersi, l’Egitto potrebbe trovarsi in una situazione di grave destabilizzazione.
Un gran casino
Sempre più spesso si sente dire che la primavera araba (al rabi’al’arabi) si è trasformata in rovina araba (al kharab al’arabi). In ogni caso è questo che sembra profilarsi in Egitto. Una carenza cronica di diesel (solar) colpisce la densa rete di minibus che assicura il trasporto dei cittadini, provocando grande malcontento. Le proteste delle categorie sociali degenerano spesso in blocchi stradali e, conseguenza dell’intervento delle forze dell’ordine, in rivolte. Un progetto di ristrutturazione del bacino del canale di Suez, che prevede anche investimenti privati, solleva il sospetto che si voglia cedere l’arteria allo straniero (Qatar). Le elezioni volute dal governo, boicottate dall’opposizione, sono state annullate dall’Autorità Giudiziaria, che le ha ritenute incostituzionali. Il nord del Sinai, attraversato da bande incontrollate, è fuori dal controllo dell’autorità da quasi due anni. Dal febbraio 2013, la città di Port Said, e più in generale la regione del Canale, è in piena rivolta dopo la condanna a morte di alcuni ultras locali. L’esercito è dovuto intervenire. E si potrebbero scrivere pagine e pagine per descrivere il degrado e le tensioni esplosive che l’accompagnano.
Unico punto positivo, come in ogni periodo di transizione tra due assetti di potere, una grandissima libertà di espressione. Essa si manifesta sia attraverso la diversità delle opinioni espresse, sia attraverso la molteplicità degli argomenti trattati. Cui si aggiunge una miriade di cavallette venute dal Mar Rosso. Che, secondo il ministro dell’agricoltura sarebbero solo “soldati, al servizio della volontà di dio”.