Un'ipoteca cancellata
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Afrique Asie giugno 2011
Un’ipoteca cancellata
Hassen Zenati
Nel mondo arabo AlQaida ha perso la partita ancor prima di averla nemmeno giocata, se non sulle frange marginali dei movimenti popolari in gestazione. Il disegno “jihadista” di Osama Bin Laden, ossessionato dell’utopia medioevale che vuole restaurare il Califfato islamico dalla Mauritania all’Indonesia, non è mai di fatto riuscito a mobilitare molta gente in queste contrade, che pure sono afflitte dalla corruzione e dall’arbitrio e che cercano di liberarsene.
Vi erano dunque le condizioni propizie alla nascita delle “organizzazioni jihadiste affiliate”, immaginate da Bin Laden, e che avrebbero dovuto gravitare intorno alla nebulosa terrorista diretta dall’Afghanistan. Ma, per spettacolari che siano apparse alla società mondiale le sue prime imprese, come l’abbattimento delle Twin Towers del World Trade Center (WTC) a New York, non si sono evidentemente trovati abbastanza avventurieri profondamente convinti né sufficientemente motivati ed agguerriti per rilanciare nei loro paesi un progetto percepito fin dall’inizio come fumoso. Concepiti per far scoppiare l’apocalisse nel mondo occidentale, questi attacchi diabolici non hanno ottenuto altro risultato se non quello di attizzarne le paure, costringendolo ad una reazione spropositata in un rapporto di forza militare ad esso necessariamente favorevole. Ingannato dai suoi pupilli autoritari, il mondo occidentale ha assistito stupefatto ad un ribaltamento che lo ha colto di sorpresa. Ha potuto solo constatare che le sollevazioni popolari della Tunisia, dell’Egitto, dello Yemen e quelli, repressi selvaggiamente del Bahrein e della Siria, non sono stati fatti in nome di Al Qaida ma contro di lei.
La liberazione cui aspirano questi popoli per troppo tempo emarginati dai loro regimi – in nome di una realpolitik che ha usato la scusa del terrorismo per meglio comprimere le libertà – non è venuta dalle moschee, ma dai giovani che si incontrano in Facebook. Le verità è che Al Qaida non si è mai radicata nel mondo arabo.
Favola e fantasma
Per contro lo spauracchio integralista, alimentato dalla minaccia di Al Qaida, è molto servito per reprimere i movimenti popolari che aspiravano a maggiore libertà e democrazia. E’ stato infatti in nome della minaccia di Osama Bin Laden che, con la benedizione di George W.Bush, ossessionato dalla sua “guerra contro il terrorismo” a partire dall’11 settembre 2001, che i regimi di Zine El Abidine Ben Ali in Tunisia, di Hosni Mubarak in Egitto, di Abdallah Ali Saleh in Yemen, di Bachar al-Assad in Siria, del re Abdallah II in Giordania, dell’altro Abdallah in Arabia Saudita e i suoi satelliti del Golfo si sono chiusi su sé stessi relegando le opposizioni ai margini della società. Alcuni si sono trasformati in autocrazie ottuse e sterili e, come si vedrà poi, impotenti perfino a organizzare la loro stessa difesa contro l’ondata di contestazioni che non doveva niente all’islamismo politico.
Ed è d’altra parte sintomatico che gli stessi regimi che dichiaravano di essere immuni nei confronti del virus islamista (la Libia in particolare, ma anche la Siria) si sono affrettati ad invocare lo spettro terrificante di Al Qaida per tentare di giustificare agli occhi degli occidentali il loro mantenimento al potere e la repressione che hanno deciso di abbattere sui movimenti di contestazione nei loro paesi.
Ma erano in ritardo di un episodio: dopo il suo discorso del Cairo sui rapporti pacifici che aveva intenzione di instaurare tra islam e USA, il presidente degli Stati uniti Barack Obama non credeva più alla sinistra favola di una Al Qaida tenuta a freno dai paesi alleati della strategia USA nel mondo arabo, favola cui il suo predecessore aveva dato credito, accettando di sostenere dei regimi attaccati alla poltrona. Venuto altresì meno il fantasma di uno “scontro di civiltà”, nel quale l’occidente appariva accerchiato dalle orde arabe e mussulmane pronte ad abbatterlo, e nel quale l’immigrazione giocava il ruolo di un cavallo di Troia pronto ad entrare in azione, o addirittura dei vermi nella frutta.
Le rivolte arabe hanno dato all’inquilino della Casa Bianca l’occasione di riconciliare gli USA alla “piazza” araba. Egli l’ha colta. Cosa farà? Il prossimo futuro lo dirà. Washington ha infatti bisogno di elaborare una nuova strategia alla luce dei sussulti popolari arabi, soprattutto per la Palestina.
Ingannato dai suoi pupilli autoritari, l’occidente ha assistito stupefatto a rivolgimenti che l’hanno preso di sorpresa. Non ha potuto fare altro che constatare come le sollevazioni popolari della Tunisia, dell’Egitto, dello Yemen e quelle, represse selvaggiamente del Bahrein o della Siria, non siano state fatte in nome di Al Qaida, ma contro di lei. La liberazione cui aspiravano questi popoli troppo a lungo emarginati dai loro regimi – in nome di una realpolitik che usava lo spettro del terrorismo per limitare ogni libertà – non è venuta dalle moschee, ma dai giovani che si incontrano in Facebook.
La verità è che Al Qaida non ha mai davvero messo radici nel mondo arabo. Senza dirlo per non apparire come alleati oggettivi del Governo, anche i movimenti islamici clandestini, come i Fratelli mussulmani in Egitto o Ennahdha in Tunisia, si levavano contro di essa nelle predicazioni.
Sopravvissuto alle grotte di Tora Bora e vivendo recluso da cinque anni dietro le spesse mura della sua residenza pachistana di Abbottabad, dove le forze speciali USA sono giunte 10 anni dopo a prenderlo, Bin Laden non ha potuto vedere nulla delle rivolte arabe che avevano segnato la sua morte politica prima che i segugi USA annunciassero ufficialmente la sua morte fisica. Nei suoi ultimi messaggi, prima dell’uccisione, egli non faceva alcun riferimento al ribollimento della “piazza” araba che annunciava il sommovimento in corso. Le aspirazioni dei giovani di Facebook erano in effetti agli antipodi del programma di Al Qaida. Nel complesso essi hanno fatto più degli jihadisti, ed a un prezzo minore, nonostante i morti innocenti, per, in un primo tempo, screditare e poi cacciare i regimi autocratici. L’esplosione nella piazza di una cultura democratica divenuta maggioritaria tra le “forze vive della nazione”, fino ad oggi rimasta compressa, spiega questo rivolgimento.
Considerati sottomessi, incapaci di costruire una nuova cittadinanza in sintonia con le evoluzioni mondiali, i popoli arabi si sono risvegliati alla politica per tentare di riprendere in mano il loro destino. Nel bene e nel male, perché le forze della reazione e dell’oscurantismo sono ancora all’opera. Esse tenteranno di recuperare con la forza quanto hanno perduto a causa della contestazione democratica. Da questo punto di vista, la situazione nel mondo arabo è nel senso pieno del termine rivoluzionaria.
Legalità democratica
Resta che la lezione principale del fallimento di Bin Laden nei paesi arabi è stata ricordata. Battuti sul tempo dalla rivolta popolare, i movimenti islamisti, ivi compresi quelli che respingono il modello militante di AlQaida, si dedicano al loro aggiornamento. Dichiarano di volersi convertire agli ideali espressi dai manifestanti di piazza Al-Casbah di Tunisi, Al-Tahrir del Cairo e Al-Taghir (il Cambiamento) a Sanaa: libertà pubbliche, alternanza democratica, elezioni pulite, ecc. Il movimento tunisino Ennahdha si è spinto più oltre degli altri. Si è impegnato pubblicamente a rinunciare alla creazione di uno Stato islamico in caso di vittoria elettorale, a rispettare le conquiste sociali di cinquanta anni di modernizzazione sociale (diritti delle donne, secolarizzazione, ecc.) ed a rinunciare alla legge islamica (Charia) come fonte unica di diritto e di morale. Non bisogna fidarsi della sua ambiguità, restare vigilanti e combattere eventuali derive. Ma non c’è niente da guadagnare a fare subito un processo alle intenzioni a rischio di respingerli di nuovo nella clandestinità, col seguito di probabili violenze.
Anche in Egitto la confraternita dei Fratelli mussulmani ha deciso di accettare la legalità democratica, annunciando la creazione di un partito politico chiamato Libertà e Giustizia, la cui piattaforma non è di natura religiosa. I Fratelli Mussulmani cedono così il terreno dell’agitazione e dell’attivismo rivoluzionario radicale ai salafisti, che il regime deposto di Hosni Mubarak aveva spesso strumentalizzato contro di loro durante i tre decenni precedenti nella sua strategia securitaria. “L’Era dell’islam radicale si è chiusa di nuovo nel mondo arabo. I gruppi islamici che hanno tentato di creare uno Stato islamico hanno fallito. E’ la ragione per cui hanno cambiato obiettivo per colpire gli Stati Uniti”, puntualizzava già un analista politico, Iskander al-Arami. Alla fine AlQaida non è riuscita a mettere in discussione nessuno dei tiranni arabi che stanno oggi arretrando o cadendo per la pressione della “piazza”.
Vittorie di Pirro
Quale bilancio trarre da un decennio di fallimenti talvolta clamorosi? Una prima conseguenza è la regressione della politica a vantaggio del religioso coi suoi dogmi e i suoi divieti nel pensiero e nella prassi politica araba. L’islamizzazione rampante delle società è stata in assoluto voluta e guidata dai movimenti che si ispirano all’islamismo radicale. Ma essa non si sarebbe potuta realizzare senza l’attiva complicità degli Stati totalitari che hanno chiuso gli occhi e lasciato fare, comprando la sottomissione delle élite islamiste in una cinica divisione dei ruoli. Agli uni il potere, agli altri il controllo della società attraverso le varie fondazioni di opere caritatevoli capaci di mettere il guinzaglio ai più emarginati, perché più poveri. Ed è ancora questa temibile capacità di reclutamento la cosa che fa più paura. La ripresa delle provocazioni confessionali in Egitto contro i Copti, la più grande comunità cristiana del medio oriente, non è per niente un caso. Mubarak e, prima di lui, Anouar Sadat si erano abilmente serviti della questione religiosa per consolidare il loto potere – fino all’irrompere sulla scena della “piazza” che ha riportato all’ordine del giorno le vecchie parole d’ordine laiche del Movimento nazionale egiziano: “A Dio la religione, a noi la Patria”.
La seconda conseguenza, certamente di carattere diverso ma con effetti durevoli su tutta la geopolitica mediorientale è stata la distruzione dell’unità dello Stato iracheno. In nome della lotta al terrorismo, gli USA, servendosi di una menzogna spudorata sul possibile possesso di armi di distruzione di massa da parte di Bagdad, hanno invaso questo paese e lo hanno esposto al saccheggio delle fazioni estremiste, sciite là, sunnite qua. Il gruppo del giordano Abou Moussab Zarkaoui, che tentava di prendervi piede in nome di AlQaida, ha finito con l’essere espulso dall’Iraq, ma il paese, diviso di fatto tra un nord curdo, un sud sciita e un centro sunnita, sottoposto all’occupazione militare USA e ad una minaccia di egemonia da parte del vicino Iran, fa fatica a ritrovare la sua unità e sovranità.
Le sole “vittorie” di Bin Laden nel mondo arabo sono state mediatiche. Col canale satellitare Al Jazeera che intrattiene torbide relazioni con i comunicatori della nebulosa islamista, ha trovato una rete per la diffusione dei suoi messaggi morbosi dal golfo all’Atlantico, e tra le comunità mussulmane in Europa. Vittorie effimere tuttavia che non sono riuscite a radicarla nel vivaio arabo. Vittorie di Pirro in fondo. Ci sono molte probabilità che non resterà più niente dell’eredità del saudita nella coscienza araba.