Movida senza regole a Napoli
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Intervento, ottobre 2017 - Senza alcun governo, però, a Napoli la movida finisce per imporsi come fatto di cronaca. In via Aniello Falcone, i clienti di alcuni baretti hanno aggredito i residenti che si lamentavano del frastuono. Per ripicca, dalle finestre dei palazzi volano spesso vasi di fiori e acqua bollente (nella foto, scene di movida partenopea)
Corriere del Mezzogiorno (editoriale), 24 ottobre 2017
Movida senza regole a Napoli
Nicola Quatrano
Gli eccessi della movida sono un problema in tutta Europa. Da Parigi a Firenze, passando per Amsterdam, si moltiplicano i comitati di cittadini che si organizzano per difendere la loro tranquillità dai tiratardi.
E anche le amministrazioni si muovono: a Palermo il sindaco Leoluca Orlando ha emesso un’ordinanza molto restrittiva, che ha suscitato l’ira dei gestori e vari ricorsi al Tar. Altrettanto il sindaco di Firenze, Dario Nardella, che dal 6 maggio scorso ha bloccato l’apertura di 54 nuovi esercizi. Uno studio della facoltà di Sociologia dell’Università di Milano ha contato almeno 450 diverse ordinanze di altrettanti Comuni, per contrastare «gli atti di inciviltà urbana legati a bivacchi alcolici». Per contro, a causa dell’inefficacia dei propri interventi, il Comune di Brescia è stato recentemente condannato a risarcire i danni a due suoi cittadini. Da ultimo è intervenuto poi il decreto Minniti, che ha fornito nuovi e importanti strumenti ai sindaci per disciplinare la vita notturna delle città. Se ne è parlato diffusamente nel corso della riunione nazionale tenuta a Milano dal Coordinamento di tutte le associazioni di cittadini stufi dell’inciviltà dilagante. Era la loro terza assemblea annuale, arrivata dopo quella europea tenutasi a fine marzo a Madrid. Il giudizio sul provvedimento del governo è stato positivo, soprattutto nella parte in cui prevede che il sindaco possa disporre, con ordinanze contingibili e urgenti di durata non superiore a 60 giorni, limitazioni agli orari di vendita e alla somministrazione di bevande alcoliche.
Solo a Napoli niente si muove: il Comune se l’è cavata patrocinando un codice di autoregolamentazione, e il sindaco de Magistris si è affidato agli auspici: «Vorrei che da parte di tutti, commercianti e residenti, ci fosse maturità». Senza alcun governo, però, a Napoli la movida finisce per imporsi come fatto di cronaca. In via Aniello Falcone, i clienti di alcuni baretti hanno aggredito i residenti che si lamentavano del frastuono. Per ripicca, dalle finestre dei palazzi volano spesso vasi di fiori e acqua bollente. E, con la tensione che cresce, c’è da spettarsi il peggio. Qualcuno, maliziosamente, spiega le ragioni di questa inerzia col «conflitto di interessi» dell’assessore Alessandra Clemente, il cui compagno dicono sia un imprenditore del settore, o col fatto che gestori e clienti notturni sono l’asse portante dell’elettorato di de Magistris.
Io credo ci sia qualcosa di più. È abbastanza evidente, infatti, che solo delle «regole» precise sarebbero in grado di conciliare l’inconciliabile, assicurando l’uso gratuito degli spazi pubblici sia ai rumorosi festaioli notturni, che ai residenti e agli atri cittadini che non spendono nei baretti (senza parlare delle autoambulanze). È per questo, in fondo, che esistono gli Stati (e i Comuni), per garantire che «la libertà dell’uno si arresti dove comincia la libertà dell’altro». Ma quello delle «regole» è un concetto lontano dalla cultura di chi esalta la spontaneità delle dinamiche sociali, autoproclamandosi erede della deregulation selvaggia e ultra-liberista delle «rivoluzioni colorate». E che sembra avere dei Beni Comuni (la cui tutela pure costituirebbe la «mission» di questa amministrazione) un’idea tutt’altro che «sociale», considerandoli piuttosto come qualcosa che i privati possono liberamente usare per il loro profitto personale. Così è stato il «Lungomare liberato» per ristoratori e ambulanti. Idem N’Albero, Monumentando... fino all’anarchia della movida napoletana.
Un «facite ammuina», spacciato per rivoluzionario ma che si colloca, invece, nella peggiore tradizione cittadina. Quella dei marciapiedi occupati da verande fuori legge; dei parcheggiatori abusivi che si appropriano di spazi pubblici per il loro profitto; del posto auto riservato al negoziante di fronte, con tanto di sedia a marcare il territorio e sgradevoli ritorsioni per i trasgressori; degli appartamenti popolari dati in fitto da chi li aveva illecitamente occupati; della sosta selvaggia in seconda e terza fila; delle tovaglie svuotate sul bancone di sotto; dei locali Iacp di Rione Traiano usati come piazze di spaccio, fino ai baretti minuscoli che si prolungano sul marciapiede e sulla strada. Una tradizione che affonda le sue radici nell’atavica fame di spazio della città, ma che si alimenta anche di scostumatezza, individualismo, e di un certo spirito «guappo» che l’amministrazione rischia di assecondare invece di contrastare.
Qualche tempo fa, un intero vicolo di Forcella venne inglobato nella residenza dalla famiglia Giuliano, che lo chiuse con un cancello e lo abbellì con mobili di antiquariato e pavimenti di Vietri, sottraendolo per così dire al degrado dell’uso collettivo. Fu un esempio ante litteram della partecipazione dei privati alla gestione degli spazi pubblici? Chissà! Per fortuna le ruspe della polizia presto lo restituirono (davvero) alla città.