ProfileIntervento, 8 giugno 2019 - Lo scandalo delle nomine dei dirigenti degli Uffici giudiziari nasconde una crisi, etica e culturale, ben più profonda ella Magistratura italiana (nella foto, la sede del Consiglio Superiore della Magistratura)   

 

Il Corriere del Mezzogiorno, 8 giugno 2019

 

CSM: Indovina chi viene a cena

Nicola Quatrano

 

Negli ultimi anni che sono stato magistrato, capitava che qualche collega venisse a chiedermi il voto per questo o quel candidato al Csm. Io opponevo di solito un cortese rifiuto e, alla richiesta di spiegazioni, rispondevo scherzosamente di temere, votando, di incappare nel delitto di concorso esterno in associazione mafiosa. Era uno scherzo, naturalmente.
 
La sede del Consiglio Superiore della Magistratura a Roma
 
Lo sottolineo perché so quanto la corporazione dei magistrati sia sensibile alla difesa della propria (e solo della propria) reputazione. Dunque non intendevo affatto dire che il Csm fosse una cosca mafiosa, piuttosto denunciare il fatto che operasse attraverso comportamenti che solo un eufemismo — alla luce dei recenti sviluppi — potrebbe qualificare come «non trasparenti».
 
Oggi se ne accorge anche Franco Roberti, che lo ha denunciato con forza, anche se — come ha acutamente osservato Paolo Macry su queste colonne — mirando quasi esclusivamente il versante delle responsabilità del Pd di Matteo Renzi.
 
E anche la polemica giornalistica di questi giorni sembra occuparsi soprattutto del ruolo nefasto che avrebbero le correnti della magistratura nella designazione dei capi degli uffici, delle interferenze «politiche» che inquinerebbero la scelta dei dirigenti. Uno scenario che tradisce un’analisi datata e non approfondita di quello che è oggi la magistratura associata italiana. Le correnti da tempo non esistono più, più o meno come la politica e i partiti politici, sono semplici etichette dietro le quali si celano i vari «signori della guerra».
 
Sono loro a dettare legge, a tessere alleanze trasversali e a ordire guerre trasversali. Gettare oggi la croce addosso al dottor Palamara si riduce ad una comoda operazione di costruzione del capro espiatorio.
 
Quello che non va nella magistratura è la cultura che essa oggi esprime, una cultura che tende a identificare sempre di più la giurisdizione e la stessa giustizia come una «cosa loro», da gestire secondo logiche del tutto opache e senza alcun obbligo di renderne conto ai cittadini e alle altre istituzioni. Un eccesso di «chiusura», piuttosto che un eccesso di nefaste influenze esterne. Lo stesso succede anche coi processi, le decisioni che i giudici assumono sono per lo più incomprensibili, rispondendo a logiche burocratiche che spesso hanno poco a che fare con il fatto reale sul quale dovrebbero pronunciarsi.
 
In definitiva, quello che a mio avviso non va nella magistratura è la sua incapacità di essere davvero «giusta», dando invece l’impressione di una corporazione prodiga di lezioni morali nei confronti di tutti gli altri (nei provvedimenti, nelle conferenze stampa, nelle dichiarazioni pubbliche), ma singolarmente priva di senso morale per ciò che concerne la sua propria attività.
 
È necessaria, io credo, una riforma profonda che passi attraverso ormai ineludibili misure legislative come la separazione delle carriere ma, soprattutto, una autoriforma che consenta la nascita, al suo interno, di una nuova vera dialettica politica — o se preferite tra diverse sensibilità — come era quella che portò alla grande crescita culturale della magistratura italiana negli anni ‘70 e che si è poi appannata, come dimostra il modesto spessore di diversi suoi attuali rappresentanti.
 
C’è tuttavia in tutta questa vicenda anche un risvolto propriamente napoletano, come ci informa il Fatto Quotidiano. Parlo dell’iniziativa disciplinare nei confronti dei sostituti Celestina Carrano e Henry Woodcock, nell’ambito del processo che vede imputato — tra gli altri — l’onorevole Lotti, e del ruolo che sembra avervi avuto il dottor Palamara, commensale — si direbbe abituale — del medesimo esponente del Pd.
 
E c’è poi che tutti, o quasi, i vertici degli uffici giudiziari napoletani sono stati scelti proprio dal Consiglio nel quale sedeva quel Palamara, dipinto oggi come il «grande tessitore» delle nomine dei magistrati.
 
Sarebbe una bella cosa se i diretti interessati rendessero oggi noto se e quali cene, incontri o contatti abbiano preceduto la loro nomina. Sarebbe un atto di serietà, di rispetto per la funzione e la Giustizia, il primo passo verso quella auspicata autoriforma che rimetta ordine e restituisca credibilità alla funzione giudiziaria.
 
 
 
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