Necessità del partito comunista
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Analisi, gennaio 2011 - La controrivoluzione di fase e l'esigenza sociale e politica della ricostruzione del Partito Comunista. Un intervento di Domenico Losurdo
l'Ernesto Online del 24/11/2010
l'Ernesto Online intervista Domenico Losurdo
di a cura di Sara Milazzo
La controrivoluzione di fase e l'esigenza sociale e politica della ricostruzione del Partito Comunista
Siamo ad Urbino, con il professor Domenico Losurdo, ordinario di storia della filosofia presso l’università “Carlo Bo” di Urbino, filosofo di fama internazionale e presidente dell’associazione Marx XXI. Ci ha gentilmente concesso il suo tempo perché è fondamentale conoscere il punto di vista di un intellettuale in questo momento di congiuntura in cui siamo di fronte ad un attacco del capitale (contro l'intero mondo del lavoro, contro la democrazia, contro la Costituzione nata dalla Resistenza) che è tra i più alti e pericolosi dell'intera nostra storia repubblicana.
Di fronte a tale attacco si distende un deserto, l'assenza di un'opposizione di classe e di massa che possa in qualche modo respingere l'offensiva della reazione e rilanciare una controffensiva. Quello che io le chiedo è : come è accaduto tutto questo? Cosa manca, come ricostruire una diga, una resistenza, un contrattacco?
D. Losurdo: Possiamo fare una distinzione tra due problemi che accompagnano la storia della Repubblica in tutto il suo arco. Il primo problema è la sperequazione tra nord e sud: già Togliatti ha sottolineato che la «questione meridionale» è una questione nazionale e oggi stiamo vedendo come la mancata soluzione del sottosviluppo nel Sud rischia di mettere in pericolo l’unità nazionale.
L’altro problema è un’ingiustizia sociale che si manifesta in modo particolarmente clamoroso nel fenomeno dell’evasione fiscale. E’ appena il caso di dire che questo flagello non è stato contenuto in alcun modo, anzi, semmai è diventato più scandaloso, più esplicito. C’è stato persino l’incoraggiamento del Presidente del Consiglio: egli ne ha parlato come di qualcosa che può essere tollerato nel caso in cui il singolo individuo, cioè il ricco capitalista, ritenga di essere stato troppo colpito dalla pressione fiscale.
Se questi due problemi accompagnano la storia della Repubblica in tutto l’arco della sua evoluzione, noi possiamo aggiungere che ci sono oggi problemi nuovi, i quali fanno pensare ed una vera e propria controrivoluzione. Forse l’anno di svolta è rappresentato dal 1991, l’anno che vede la fine del Partito Comunista Italiano. Questa fine era stata propagandata con aspettative enfatiche: gli ex-comunisti sentenziavano che, facendola finita con un partito legato al discreditato «socialismo reale», tutto sarebbe diventato più facile: ci si sarebbe liberati del «piombo nelle ali» e si sarebbero sviluppati la democrazia e lo Stato sociale; insomma, tutto sarebbe andato per il meglio. E’ appena il caso di dire che in realtà noi ci troviamo dinanzi ad una controrivoluzione, che certo non è esclusiva dell’Italia dato che ha carattere internazionale, ma che nel nostro paese si manifesta con particolare virulenza.
Vediamo quali sono gli elementi di questa controrivoluzione: la Repubblica Italiana nata dalla Resistenza, e contrassegnata dalla presenza di un forte Partito Comunista all’opposizione, non si era mai impegnata direttamente in operazioni belliche; ai giorni nostri, invece, la partecipazione a guerre di carattere chiaramente coloniale è considerata come qualcosa di normale, persino di doveroso.
Si assiste inoltre ad un attacco contro lo Stato sociale, al suo smantellamento: questo è sotto gli occhi di tutti. Meno evidente è invece un fatto su cui io vorrei richiamare l’attenzione: l’attacco allo Stato sociale non è determinato in primo luogo dal problema delle compatibilità economiche, dalla necessità del risparmio perché mancherebbero i soldi (tanto per intenderci). Dobbiamo ricordare che uno dei patriarchi del neoliberismo (è stato incoronato anche del premio Nobel per l’economia), Friedrich August von Hayek già negli anni ‘70 del secolo scorso dichiarava che i diritti economico-sociali (quelli protetti evidentemente dallo Stato sociale), erano un’invenzione da lui consderata rovinosa: erano il risultato dell’nfluenza esercitat dalla «rivoluzione marxista russa». Egli chiamava dunque a sbarazzarsi di questa eredità ingombrante. Ben si comprende che, al venire meno della sfida rappresentata dall’Unione Sovietica e da un forte campo socialista, abbia corrisposto e stia corrispondendo sempre di più lo smantellamento dello Stato sociale.
C’è infine un terzo aspetto della controrivoluzione, e noi non possiamo perderlo di vista. E’ un vero e proprio attacco alla democrazia, che assume forme particolarmente clamorose in fabbrica. In questo caso la controrivoluzione è così evidente da essere quasi dichiarata: il potere padronale deve potersi esercitare senza troppi vincoli, la Costituzione non deve essere un motivo di impaccio nei rapporti di lavoro. Ma c’è un aspetto che va al di là della fabbrica e che riguarda la società nel suo complesso: è l’avanzare del «bonapartismo soft» (come l’ho definito nel mio libro Democrazia o bonapartismo) incarnato nel nostro paese dal Presidente del Consiglio. A proposito dell’ascesa di questo personaggio vorrei richiamare l’attenzione su un altro fenomeno non meno inquietante: oggi la ricchezza esercita un peso politico immediato. Fin quando c’era in Italia il sistema proporzionale, esso rendeva più agevole la formazione di partiti politici di massa, e ciò consentiva di contenere entro certi limiti il peso politico della ricchezza, che oggi invece si esprime in modo immediato e persino sfrontato. Assistiamo all’emergere e all’affermarsi di un leader politico che, a partire dalla concentrazione dei mezzi di informazione e facendo uso spregiudicato dell’enorme ricchezza a sua disposizione, pretende di esercitare, ed in effetti esercita, un potere decisivo sulle istituzioni politiche e rivela una globale capacità di corruzione e di manipolazione.
A questo punto si può tracciare un primo bilancio: la svolta del 1991, che aveva visto lo scioglimento del PCI e che avrebbe dovuto favorire il rinnovamento democratico e sociale dell’Italia, è stata in realtà il punto di partenza di una controrivoluzione che è certo di dimensioni internazionali, ma che si avverte in modo particolarmente doloroso in Italia, nel paese che, grazie alla Resistenza e alla presenza di una forte sinistra e di un forte Partito Comunista, aveva conseguito conquiste democratiche e sociali assai rilevanti.
A questo proposito le chiedo: come è stato possibile che proprio in un paese, che dovrebbe avere una memoria ancora fresca di quella che è stata la Resistenza, si sia arrivati ad un’anestetizzazione delle coscienze così forte da far sì che il nostro Presidente del Consiglio venga amato anche dal punto di vista personale, venga invidiato? Come spiegare da un lato la fascinazione per il «self made man» e dall’altro fenomeni quali l’antipolitica di Grillo? E ancora, pensando a quello che potremmo definire il terzo polo: come spiegare la fascinazione che prova la sinistra per una personalità quale quella di Vendola, che fino a ieri faceva parte di Rifondazione Comunista e che ora riempie il vuoto genericamente apertosi a sinistra del Partito Democratico?
D. Losurdo: Noi stiamo assistendo ad una controrivoluzione, di cui ho già definito gli elementi politici centrali; non dobbiamo però dimenticare che questa controrivoluzione si svolge anche a livello ideologico-culturale. Si sta riscrivendo in modo assolutamente fantasioso e vergognoso la storia non soltanto del nostro paese ma del XX secolo nel suo complesso.
Quali sono gli elementi fondamentali di questa storia? A partire dalla Rivoluzione d’ottobre sono iniziati tre giganteschi processi di emancipazione. Il primo è quello che ha investito i popoli coloniali: alla vigilia della svolta del 1917 i paesi indipendenti erano soltanto un numero assai ristretto, quasi tutti collocati in Occidente. Era una colonia l’India, era un paese semi-coloniale la Cina; tutta l’America Latina era sottoposta al controllo della dottrina Monroe e degli Usa. L’Africa era stata spartita tra le varie potenze coloniali europee. In Asia erano una colonia l’Indonesia, la Malaysia ecc. Il gigantesco processo di de-colonizzazione e di emancipazione che ha messo fine a tale situazione ha avuto il suo primo impulso dalla Rivoluzione d’ottobre.
Il secondo processo è quello dell’emancipazione femminile: è importante ricordare che il primo paese nel quale le donne hanno goduto della totalità dei diritti politici ed elettorali (attivi e passivi) è stata la Russia rivoluzionaria tra il febbraio e l’ottobre del 1917. Solo in un secondo momento sono giunti al medesimo risultato la Germania della Repubblica di Weimar, scaturita da un'altra rivoluzione, quella del novembre 1918, e successivamente gli Stati Uniti. In paesi quali l’Italia e la Francia le donne hanno conquistato l’emancipazione solo sull’onda della Resistenza antifascista.
Il terzo processo infine è stato la cancellazione della discriminazione censitaria che, in tema di diritti politici, continuava a discriminare negativamente le masse popolari: nell’Italia liberale e sabauda, piuttosto che essere eletto dal basso, il Senato era appannaggio della grande borghesia e dell’aristocrazia. La discriminazione censitaria si faceva sentire anche in Inghilterra, e non solo per la presenza della Camera dei lords; ancora nel 1948 vi erano 500.000 persone che godevano del voto plurale e dunque della facoltà di votare più volte: erano considerate più intelligenti (naturalmente, si trattava di ricchi di sesso maschile).
In conclusione. Nel corso del Novecento si è sviluppato su tre fronti un gigantesco processo di emancipazione, che è partito dalla Rivoluzione d’Ottobre e dalla lotta contro la guerra e la carneficina del primo conflitto mondiale. Tutto ciò è oggi dimenticato e rimosso sino al punto che, nell’ideologia oggi dominante, la storia del comunismo diviene la storia dell’orrore.
Il paradosso è che a questa gigantesca manipolazione non ha partecipato soltanto la destra propriamente detta; ad essa ha fornito il suo bravo contributo anche Fausto Bertinotti, di cui Vendola è l’erede e il discepolo. Non c’è dubbio, si è impegnato anche lui nel tentativo di cancelare dalla memoria storica il gigantesco e molteplice processo di emancipazione scaturito dalla rivoluzione d’ottobre: di questo grande capitolo di storia egli ha tracciato un quadro che non è molto diverso da quello tracciato dall’ideologia e dalla classe dominante.
Si è venuta così a costituire una cultura, o meglio un’«incultura», che è di grande aiuto all’ordinamento esistente. Come sul piano più propriamente politico, anche su quello ideologico è all’opera quello che io (sempre nel mo libro Democrazia o bonapartismo) ho definito il regime di «monopartitismo competitivo». Vediamo all’opera un unico partito che, con modalità diverse, rinvia alla stessa classe dominante, alla borghesia monopolistica. Certo, non manca il momento della competizione elettorale, ma si tratta di una competizione tra ceti politici ognuno dei quali cerca di realizzare le sue ambizioni di corto respiro, senza mettere in alcun mdo in discussione il quadro strategico, l’orientamento culturale di fondo e la classe sociale di riferimento, e cioè la borghesia monopolistica: su ciò non si discute neppure.
Questa è la situazione dinanzi alla quale ci troviamo: il Monopartitismo Competitivo. La cancellazione del sistema proporzionale ne ha favorito il consolidamento.
E, in assenza di una vera alternativa, si comprendono i fenomeni dell’antipolitica, del «grillismo»: nonostante le declamazioni, essi finiscono col far parte integrante del regime politico e dello stesso panorama desolante che ho cercato brevemente di descrivere.
Quei fenomeni sono quindi un’altra forma di anestetizzazione, un tentativo di imbrigliare un qualche tipo di reazione seppur appartenenti allo stesso ceppo.
D. Losurdo: E’ un dato di fatto che oggi manca una forza politica organizzata e strutturata che si contrapponga alla manipolazione ideologica e storiografica e al monopartitismo competitivo oggi imperanti. Risultano così incontrastati il dominio e l’egemonia della borghesia monopolistica nonché la controrivoluzione neoliberista e filo-imperialista di cui ho già parlato.
Un movimento comunista sarebbe necessario proprio per le questioni di fondo che investono l’Italia e il mondo nel suo complesso. Perché nel nostro paese il movimento comunista vive una crisi così profonda?
D. Losurdo: A partire dal 1989 c’è stata una vitalità rinnovata per le forze della conservazione e della reazione e questa vitalità si è manifestata anche in Italia. Ciò non deve stupirci. A dover suscitare la nostra interrogazione è un altro fatto: perché nel nostro paese questa offensiva controrivoluzionaria ha trovato così scarsa resistenza, anzi non ha trovato resistenza alcuna e in alcuni casi, come ho già detto, ha potuto godere di un incoraggiamento anche da parte di coloro che dovevano costituire la sinistra?
A partire dal 1989 anche a sinistra si è cominciato a dire che il comunismo era morto. A proposito di questa parola d’ordine, che ritorna di continuo, vorrei fare alcune considerazioni come storico e come filosofo. Essa si pretende nuova ma è in realtà assai vecchia: il comunismo è sempre stato dichiarato morto, in tutto il corso della sua storia; anzi, si potrebbe dire che il comunismo è stato dichiarato morto prima ancora che nascesse.
Non si tratta di un paradosso o di una battuta di spirito. Vediamo quel che succede nel 1917: non è ancora scoppiata la Rivoluzione d’ottobre, infuria invece la carneficina della prima guerra mondiale. Proprio in quell’anno un filosofo italiano di statura internazionale, Benedetto Croce, pubblica un libro dal titolo: Materialismo storico ed economia marxistica. La Prefazione si affetta subito a dichiarare che il marxismo e il socialismo sono morti. Il ragionamento è semplice: Marx aveva previsto e invocato la lotta di classe proletaria contro la borghesia e il capitalismo, ma dov’era in quel momento la lotta di classe? I proletari si scannavano fra di loro. Al posto della lotta di classe c’era la lotta fra gli Stati, fra le nazioni, che si affrontavano sul campo di battaglia. E, dunque, la morte del marxismo e del socialismo era sotto gli occhi di tutti. E cioè, prima ancora che emergesse e si sviluppasse il movimento comunista propriamente detto, che vedrà il suo atto di nascita con la Rivoluzione d’ottobre e poi con la fondazione dell’Internazionale comunista, prima ancora di tutto ciò quel movimento era già stato dichiarato morto ad opera di Benedetto Croce. Noi sappiamo oggi, con il senno di poi, che la contesa per l’egemonia e la guerra imperialista, considerati da Croce un fatto immodificabile, hanno costituito la spinta per la Rivoluzione d’ottobre, che si è imposta per l’appunto nella lotta contro la carneficina provocata dal sistema caputalusta e imperialista.
E’ iniziata così la storia del movimento comunista. E sono proseguite le dichiarazioni di morte… Allorché nella Russia sovietica è stata introdotta la NEP, su molti giornali europei e statunitensi sia intellettuali di primissimo piano sia politici eminenti hanno sentenziato: ecco, non c’è più la collettivizzazione totale dei mezzi di produzione che era stata proposta e sollecitata da Karl Marx; Lenin stesso è stato costretto a prendere atto della necessità della svolta; dunque il comunismo è morto. Basta leggere qualche libro di storia un po’ più ricco dei manuali consueti per rendersi conto di quanto sia ricorrente la parola d’ordine di cui stiamo discutendo. Coloro che continuano ad affermare che il comunismo è morto, credendo di dire qualcosa di nuovo, non si rendono conto, per la loro ignoranza storica ovvero per la loro adesione acritica o la loro subalternità all’ideologia dominante, che stanno semplicemente ripetendo uno slogan ricorrente nella storia della lotta della borghesia e dell’imperialismo contro il movimento comunista.
Su questo punto si potrebbe persino concludere con una battuta: c’è un proverbio secondo il quale l’individuo considerato morto, e di cui viene pronunciato l’elogio funebre mentre egli è ancora in vita, è destinato a essere baciato dalla longevità. Se questo proverbio dovesse valere anche per i movimenti politici, coloro che si richiamano al comunismo possono essere assolutamente fiduciosi per il futuro.
Partendo dal presupposto che ci sia la necessità sociale e storica per una nuova ondata rivoluzionaria e che la rinascita di un Partito Comunista sia assolutamente necessaria, quali sono le caratteristiche che esso dovrebbe avere, quali sono i passi che andrebbero compiuti e chi dovrebbe compierli e in che modo?
D. Losurdo: Occorre distinguere la dimensione ideologico-politica da quella organizzativa. Mi concentrerò sulla prima. Ebbene, che senso ha parlare di morte del comunismo, quando ci troviamo dinanzi ad una situazione per la quale la guerra è ritornata all’ordine del giorno, e si aggrava sempre di più il pericolo di un conflitto su larga scala? Sì, finora abbiamo assistito e stiamo ancora assistendo a guerre di tipo coloniale classico: esse si verificano allorché una potenza armata fino ai denti e con una netta superiorità tecnologica e bellica si scatena contro un paese, o contro un popolo, che non può opporre alcuna resistenza. Guerre coloniali sono per esempio quella che la Nato ha scatenato contro la Yugoslavia nel 1999, le diverse guerre del Golfo, la guerra contro l’Afghanistan. Per non parlare della guerra interminabile, la più infame di tutte, che continua a infuriare contro il popolo palestinese.
Ma oggi i grandi organi di informazione internazionali osservano che c’è il pericolo concreto di una guerra su larga scala, quella che si verificherebbe in seguito all’aggressione scatenata da Stati Uniti e da Israele contro l’Iran: non sappiamo quali potrebbero essere gli sviluppi e le complicazioni internazionali. Soprattutto, non dobbiamo perdere di vista la guerra (per ora fredda) che gli Usa cominciano a condurre contro la Repubblica Popolare Cinese: solamente i più provinciali non si rendono conto di ciò. Ci troviamo davanti ad una situazione che rende urgente il compito della lotta contro l’imperialismo e la sua politica di aggressione e di guerra, e ciò ci riconduce evidentemente alla storia del movimento comunista.
L’altro elemento di cui dobbiamo tener conto è la crisi economica. Chi non ricorda i discorsi trionfali, secondo i quali il capitalismo aveva ormai superato le sue crisi periodiche, le crisi di cui aveva parlato Marx? Anzi – ci veniva assicurato – si doveva parlare non solo di fine della crisi ma persino di fine della storia. Ora invece la crisi del capitalismo è sotto i nostri occhi e sono in molti ad avere la sensazione che essa è destinata a durare; non è facle predire i suoi sviluppi, ma certo non si tratta di un fenomeno puramente contingente.
Dunque, chiara è la permanenza di quei problemi, di quelle questioni centrali per rispondere alle quali è sorto il movimento politico comunista.
Veniamo ora al secondo aspetto: che senso ha parlare di fine del comunismo quando vediamo un paese come la Cina, che rappresenta un quinto della popolazione mondiale, essere diretta da un partito comunista? Possiamo e dobbiamo discutere le scelte politiche dei gruppi dirigenti, ma non può non suscitare ammirazione l’ascesa prodigiosa di un paese di dimensioni continentali che libera dalla fame centinaia di milioni di persone e che al tempo stesso muta in profondità (in senso sfavorevole all’imperialismo) la geografia politica del mondo.
A questo punto è necessario porsi una domanda: quale è stato il contenuto politico centrale del XX secolo? Ho già parlato dei tre movimenti di emancipazione che caratterizzano la storia del Novecento. Soffermiamoci su quello che ha avuto lo sviluppo planetario più ampio: tutto il Novecento è attraversato da gigantesche lotte di emancipazione, condotte dai popoli coloniali o che minacciavano di subire l’assoggettamento coloniale: basti pensare alla Cina, al Vietnam, a Cuba, alla stessa Unione Sovietica che, nella lotta contro il tentativo hitleriano di creare un impero coloniale nella stessa Europa Orientale, ha dovuto condurre la Grande guerra patriottica. Questo gigantesco processo si è dileguato nel XXI secolo, nel secolo in cui viviamo? No, non è così, esso continua. C’è però una novità. A parte casi tragici, come quello del popolo palestinese che è costretto a subire il colonialismo nella sua forma classica e più brutale, negli altri paesi la lotta anti-coloniale è passata dalla fase propriamente politico-militare alla fase politico-economica. Questi paesi cercano di assicurarsi non più soltanto l’indipendenza politica, ma anche quella economica; sono quindi impegnati a rompere il monopolio tecnologico che gli Stati Uniti e l’imperialismo avevano creduto di conquistare una volta per sempre. In altre parole, siamo dinanzi alla continuazione della lotta contro il colonialismo e l’imperialismo che ha costituito il contenuto principale del Novecento. E come nel secolo ormai trascorso sono stati i partiti comunisti a stimolare e dirigere questo movimento, così oggi noi vediamo paesi quali la Cina, il Vietnam o Cuba guidare nel XXI secolo questa nuova fase del processo di emancipazione anticoloniale. Non è certo un caso che tutti e tre questi paesi siano diretti da partiti comunisti. Chi dichiara morto il movimento comunista, e ritiene persino di dire una cosa ovvia, non si rende conto di ripetere una scemenza macroscopica.
Quindi esistono le condizioni oggettive materiali, per un rilancio anche in Italia di un Partito Comunista di quadri e con una linea di massa?
D. Losurdo: Credo proprio di sì, anzi ne sono convinto: non si capisce perché l’Italia dovrebbe costituire un’anomalia rispetto al quadro internazionale. Se è vero che in Europa orientale tra il 1989 e il 1991 il movimento comunista ha subito una dura sconfitta, di cui occorre ovviamente prendere atto e tener conto, è anche vero che la situazione mondiale complessiva presenta un quadro assai più variegato e decisamente più incoraggiante. I partiti comunisti dirigono paesi e realtà di una crescente importanza economica e geopolitica. In altre parti del mondo assistiamo a un processo di riorganizzazione ovvero di consolidamento. Per fare un esempio: sono reduce da un viaggio in Portogallo, dove ho avuto modo di apprezzare la presenza del Partito Comunista. È chiaro che in Italia abbiamo una grande tradizione comunista alle spalle e non c’è motivo per non riappropriarsene, ovviamente in maniera critica. Credo che ci siano anche i presupposti non soltanto ideali ma anche politici per mettere fine al frazionamento delle forze comuniste. Andando in giro nel nostro paese, per manifestazioni culturali più ancora che politiche, ho notato che il potenziale comunista è reale. I comunisti sono semplicemente frantumati in diverse organizzazioni, talvolta anche in piccoli circoli: occorre rimboccarsi le maniche e mettersi al lavoro per l’unità, facendo leva in primo luogo sulle forze comuniste che sono presenti già in modo più o meno organizzato a livello nazionale. Penso all’Ernesto, che opera nell’ambito di Rifondazione Comunista, e al PdCI: unendosi, queste due forze dovrebbero essere in grado di lanciare un segnale ai circoli comunisti diffusi sul territorio nazionale, un invito ad abbandonare la rassegnazione e il settarismo per mettersi a lavorare al fine di dare concretezza alle idee e ad un progetto comunista.
Quindi quello che impedisce il costruirsi di un Partito Comunista unico in Italia è a suo parere questa frantumazione, questa stanchezza nell’affrontare nuovamente lotte che molti compagni hanno già fatto?
D. Losurdo: In Italia si fa sentire il peso di una situazione particolare: agisce negativamente l’esperienza di un Partito, quello della Rifondazione Comunista, a lungo guidato da dirigenti con una visione sostanzialmente anticomunista, da dirigenti che si sono impegnati attivamente a liquidare l’eredità della tradizione comunista nel mondo e in Italia. E’ chiaro che dobbiamo liberarci di questa fase tragica e grottesca della storia che abbiamo alle spalle; da questo punto di vista la ricostruzione del Partito non è soltanto un compito organizzativo, ma è un compito in primo luogo teorico e culturale. Io credo che questi problemi possano essere affrontati e risolti positivamente.
Oggi siamo in una situazione in cui abbiamo assistito ad un cambio sostanziale anche dal punto di vista culturale. Mentre nel Novecento l’egemonia culturale era appannaggio del movimento comunista, oggi come oggi il termine comunista viene vissuto quasi con imbarazzo se non con palese vergogna, addirittura fino ad arrivare alle dichiarazioni bertinottiane sull’impronunciabilità del termine comunismo o sulla riduzione del suo significato, nella migliore delle ipotesi, a qualcosa di meramente culturale. Come siamo arrivati a questo e come possiamo affrancarci da tutto ciò?
D. Losurdo: Il termine comunismo sarebbe impronunciabile? Come storico devo subito osservare che allora dovremmo rinunciare ai termini che fanno riferimento ai movimenti politici in genere. Come si chiamava negli Usa il partito che fino all’ultimo ha difeso l’istituto della schiavitù dei neri? Si chiamava Partito democratico. E come si chiamava sempre negli Usa il partito che, anche dopo l’abolizione formale della schiavitù, ha difeso il regime della supremazia bianca, la segregazione razziale, il linciaggio dei neri organizzato come tortura lenta e interminable e come spettacolo di massa? Si chiamava, ancora una volta, Partito democratico. Sì, i campioni dello schiavismo e del razzismo più bieco hanno fatto professione di democrazia. Dovremmo concludere che «democrazia» è impronunciabile? Pensare che il termine democrazia abbia una storia più bella, più levigata, più immacolata, del termine comunismo significa non conoscere nulla della storia. Quello che ho detto a proposito del termine democrazia si potrebbe tranquillamente ripetere in relazione ad altri termini che sono parte essenziale del patrimonio della sinistra. Come si chiamava il partito di Hitler? Si chiamava Partito nazional-socialista: è da considerare tabù anche il termine socialismo? Per essere esatti, il partito di Hitler si chiamava Partito nazional-socialista degli operai tedeschi. Sarebbe dunque sconveniente e inaccettabile far riferimento agli operai e alla classe operaia? Non c’è parola che possa esibire lo statuto della purezza. Hitler e Mussolini pretendevano di essere i promotori e protagonisti di una rivoluzione; ecco un altro termine che, in base alla logica di Bertinotti, dovrebbe risultare impronunciabile.
In realtà, il discorso sulla impronunciabilità del termine «comunismo» presuppone non solo la totale subalternità rispetto all’ideologia dominante ma anche un’incapacità di giudizio storico e politico. Per chiarire quest’ultimo punto faccio leva su un confronto che ho illustrato nella mia Controstoria del liberalismo. Negli anni ‘30 del 1800 due illustri personalità francesi visitano gli Usa. Una è Alexis de Tocqueville, il grande teorico liberale; l’altra è Victor Schoelcher, colui che dopo la rivoluzione del febbraio del 1848 abolirà definitivamente la schiavitù nelle colonie francesi. I due visitano gli Usa nello stesso periodo ma indipendentemente l’uno dall’altro. Essi constatano gli stessi fenomeni: il governo della legge e la democrazia vigono nell’ambito della comunità bianca; ma i neri subiscono la schiavitù e un’oppressione feroce mentre i pellerossa vengono progressivamente e sistematicamente cancellati dalla faccia della terra. Al momento di giungere alla conclusione, già nel titolo del suo libro (La democrazia in America), Tocqueville parla degli Usa come di un paese autenticamente democratico, anzi come del paese più democratico al mondo; Schoelcher invece vede gli Usa come il paese dove infuria il dispotismo più feroce. Chi dei due ha ragone?
Immaginiamo che nel Novecento Tocqueville redivivo e Scholcher redivivo abbiano fatto il giro del mondo. Il primo avrebbe finito col celebrare il governo della legge e la democrazia vigenti negli Usa e nel «mondo libero» e col considerare scarsamente rilevanti l’oppressione e le pratiche genocide imposte da Washington e dal «mondo libero» nelle colonie e semicolonie (in Algeria, in Kenia, in America Latina ecc.), l’assassinio sistematico di centinaia di migliaia di comunisti organizzato dalla Cia in un paese come l’Indonesia, la discrimninazione, l’umiliazione e l’oppressione inflitte nella stessa metropoli capitalistica e «democratica» a danno dei popoli di origine coloniale (i neri negli Usa, gli algerini in Francia ecc.). Scholecher redivivo invece avrebbe concentrato la sua attenzione per l’appunto su tutto ciò e avrebbe concluso che ad esprimere il peggior dispostismo era il sedicente «mondo libero». Ben si comprende che l’ideologia dominante si identifichi senza riserve con il Tocqueville storico e con il Tocqueville redivivo. Nulla conta la sorte riservata ai popoli coloniali e di origine coloniale!
Contro questa visione ribadisco quanto ho già detto: i comunisti devono certo saper guardare autocriticamente alla loro storia ma non hanno da vergognarsi e non devono abbandonarsi all’autofobia; è stato il movimento comunista a porre fine agli orrori che hanno caratterizzato la tradizione coloniale (sfociata poi nell’orrore del Terzo Reich, nell’orrore del regime che ha subito la sua prima e decisiva disfatta ad opera dell’Unione Sovetica).
Quindi possiamo dire che la via per la ricostruzione di un Partito comunista passa inevitabilmente per la scelta di riappropriarsi di quelle che sono state le proprie radici, di quello che è stato l’orgoglio comunista e anche del linguaggio che ne fa parte?
D. Losurdo: Non c’è dubbio. Questa riappropriazione deve tuttavia essere critica, ma anche questo ateggiamento non è una novità. Quando Lenin ha dato vita al movimento comunista, per un verso si è riallacciato alla tradizione socialista precedente, per un altro verso ha saputo reinterpretare tale tradizione in senso critico, tenendo ben presenti gli sviluppi della storia del suo tempo. Ai giorni nostri non si tratta in alcun modo di evitare il bilancio autocritico, che assolutamente s’impone. Ma ciò non ha nulla a che fare con l’accettazione del quadro manicheo proposto o imposto dall’ideologia dominante. Tale quadro non corrisponde in nessun modo alla verità storica ma solo al bisogno politico e ideologico delle classi dominanti e sfruttatrici di mettere a tacere qualsiasi opposizione rilevante.
Quindi in pratica come dovremmo lavorare per riconsegnare alla classe un Partito Comunista che sia all’altezza dei temi e dello scontro di classe. Come ci possiamo interfacciare con lo stesso cittadino italiano?
D. Losurdo: Ritengo valido il modello di Partito comunista elaborato in particolare da Lenin; ovviamente, occorre tener presente che il Che fare? aveva in mente la Russia zarista e quindi anche le condizioni di clandestinità in cui era costretto a muoversi il partito. In ogni caso, si tratta di costruire un partito, che non sia un partito d’opinione e che non sia caratterizzato dal culto della personalità, come a lungo è avvenuto in Rifondazione Comunista. Occorre un partito capace di costruire un sapere collettivo alternativo alle manipolazioni dell’ideologia dominante, un partito che deve saper essere presente nei luoghi del conflitto e deve saper costruire anche quotidianamente un’alternativa sia sul piano ideologico sia su quello politico–organizzativo.
Vorrei concludere con due osservazioni. La prima: l’esempio della Lega (di un partito che ha caratteri reazionari e che ci mette in presenza di scenari assai inquietanti) dimostra che era paurosamente errata la visione secondo cui non c’era più spazio per un partito radicato sul territorio e sul luogo del conflitto.
La seconda osservazione mi riconduce proprio all’inizio dell’intervista, allorché richiamavo l’insegnamento di Togliatti relativo alla questione meridionale come questione nazionale. Oggi si impone una constatazione amara: la mancata soluzione della questione meridionale sta mettendo in crisi, o rischia di mettere in crisi, l’unità nazionale del nostro paese: in un paese caratterizzato da forti squilibri regionali lo smantellamento definitivo dello Stato sociale pasa attraverso la liquidazione dello Stato nazionale e dell’unità nazionale. Il partito comunista che in Italia siamo chiamati a ricostituire dimostrerà il suo concreto internazionalismo anche nella misura in cui saprà affrontare e risolvere la questione nazionale. Aderire ai movimenti secessionisti o anche solo non combatterli fino in fondo significherebbe rompere con la migliore tradizione comunista. Occorre tener sempre presente la lezione della Resistenza: il Partito comunista è diventato un forte partito di massa nella misura in cui ha saputo collegare la lotta sociale alla lotta nazionale, ha saputo interpretare i bisogni delle classi popolari e al tempo stesso prendere la direzione di un movimento che lottava per la salvezza dell’Italia.