L’Arabia Saudita mette in moto un meccanismo ad alto rischio
- Dettagli
- Visite: 5455
www.geopolitique-geostrategie.fr, 28 aprile 2015 (trad. ossin)
Offensiva armata in Yemen
L’Arabia Saudita mette in moto un meccanismo ad alto rischio
Jean Bernard Pinatel (*)
La capitale dello Yemen e i suoi dintorni sono stati massicciamente bombardati nella notte tra venerdì e sabato, terza notte consecutiva dell’operazione saudita “Tempesta decisiva”. Le chiavi di lettura per capire quello che accade in questo paese e nella penisola araba
Il Medio Oriente è attualmente in pieno caos. Ecco che alla guerra contro Daech, con l’intervento terrestre dell’Iran in Iraq e l’appoggio aereo di una coalizione internazionale, si aggiunge adesso in Yemen (le medesime cause producendo gli stessi effetti) una nuova guerra civile confessionale, che trascina con sé un intervento esterno guidato dall’Arabia Saudita e sostenuto dagli Stati Uniti.
Regioni dove gli Sciiti sono maggioranza
Il contesto
Al conflitto israelo-palestinese e agli scontri geopolitici regionali per la supremazia nel Golfo Persico – che oppongono da lungo tempo l’Iran all’Arabia Saudita, sostenuti reciprocamente dalla Russia e dagli Stati Uniti – si sovrappongono oggi guerre civili confessionali tra Sunniti e Sciiti e, dal giugno 2014, la guerra dei salafiti radicali di Daech contro tutte le altre religioni e l’Occidente.
Infatti è una guerra civile confessionale quella che dilania la Siria da quattro anni, con l’appoggio e la complicità dell’Arabia Saudita, del Qatar, della Turchia, e anche degli Occidentali, i cui leader hanno ingenuamente creduto di assistere ad una primavera araba. Peraltro, in Iraq, la latente ribellione delle tribù sunnite contro il governo settario dello sciita Al Maliki (l’origine di questo caos risale alla guerra d’Iraq e alla occupazione militare statunitense che doveva sostituire il governo dittatoriale del leader baasista Saddam Hussein con una democrazia parlamentare. Ma il Primo Ministro sciita Al Maliki non ha voluto condividere il potere con le minoranze sunnite e curde, che rappresentano ciascuna quasi il 20% della popolazione. Comportandosi in modo settario, ha suscitato una ribellione latente dei sunniti nei cinque governatorati dove sono maggioranza) ha consentito nel giugno 2014 ai terroristi salafiti guidati da Abou Bakr Al Bagdadi (autoproclamatosi califfo e imam dei mussulmani del mondo intero) – che aveva unificato o eliminato tutti i gruppi ribelli siriani – di occupare, senza incontrare una vera opposizione, i cinque governatorati sunniti dell’Iraq e di creare in tal modo il primo Stato terrorista in un territorio grande come la metà della Francia. Il doppio gioco della Turchia di Erdogan, che mantiene la sua frontiera aperta con lo Stato Islamico, permette a Daech di ricevere rinforzi umani e di rifornirsi, scambiando il petrolio brut che estrae nei territori occupati, con armi e munizioni.
Il contesto politico e militare che prevale in Iraq lascia pensare che, in assenza di un reale impegno della Turchia nella colazione, occorreranno a Bagdad diversi anni per cacciare definitivamente Daech, nonostante l’appoggio terrestre dell’Iran e gli attacchi aerei degli Stati Uniti.
La “rivoluzione siriana” che l’Arabia Saudita ha iniziato e sostenuto, tende a rivoltarsi contro di essa. Daech, che controlla il governatorato di Al Anbar in Iraq, dispone oggi di una frontiera comune di 400 chilometri con l’Arabia Saudita e ha reso nota la propria volontà di liberare i luoghi santi dell’Islam (in territorio saudita). Riyadh percepisce oramai lo Stato Islamico come una minaccia, al punto da avere chiesto al Pakistan e all’Egitto di dispiegare almeno 30.000 uomini lungo questa frontiera. Ma al momento, con la guerra in Yemen, questo effetto boomerang non si limita alla frontiera Nord (Israele, dal canto suo, spera di trarne vantaggio: Hezbollah impegnato in Siria e in Yemen si indebolisce, la comunità internazionale, gli occhi rivolti a Daech, gli lascia mano libera per proseguire la colonizzazione strisciante della Palestina).
I recenti sviluppi militari
In Yemen una ribellione di obbedienza sciita, il cui fulcro si situa da una parte e dall’altra della frontiera sud dell’Arabia Saudita, ha assunto il controllo dell’Ovest e del Sud del paese. Infatti, il 25 marzo 2015, i ribelli sciiti erano giunti a 30 chilometri da Aden, costringendo il presidente Hadi a fuggire in Egitto e provocando l’evacuazione di tutti gli stranieri, ivi compresa la numerosissima comunità saudita. Gli Houthi si sono anche impadroniti della base aerea di Al-Anad, la più importante del paese, evacuata la settimana precedente dai militari statunitensi.
Nello stesso tempo, essi minacciano il porto di Mocha sul mar Rosso, che apre la strada verso lo stretto strategico di Bab al.Mandeb.
Le origini della crisi
Questo paese di 25 milioni di abitanti è uno Stato islamico retto dalla Charia. L’Islam yemenita è composto da due correnti religiose principali, che raggruppano il 98% della popolazione: lo zaydismo, una variante dello sciismo, assai radicato nel nord del paese (circa il 45% della popolazione) e lo sciafeismo, una variante del sunnismo e più presente al sud e ad est (circa il 55% della popolazione). Dopo la riunificazione del 1990, gli sciiti sono stati emarginati, e poi repressi dopo la ribellione del 2004, guidata da Hussein Badreddin al-Houthi, che mirava a ottenere una maggiore autonomia per gli sciiti nella provincia di Saada. E’ da questo leader, ammazzato dall’esercito yemenita, che la ribellione Houthi trae il suo nome.
Appoggiati dall’Iran, ma anche da Hezbollah (l’organizzazione sciita libanese), gli Houthi si sono uniti nel 2011 alla ondata di proteste contro il presidente Ali Abdallah Saleh, nata sulla scia delle Primavere arabe e ne hanno approfittato per rafforzare il loro controllo del territorio. Nel febbraio 2004, si opposero al piano del presidente di transizione Abd Rabo Mansour Hadi, che voleva fare dello Yemen una federazione di 6 regioni e diedero il via alla ribellione armata.
Di fronte a questa offensiva (1), si è formata una coalizione (2) di Stati sunniti guidati dall’Arabia Saudita e sostenuta dagli Stati Uniti, che si prepara a intervenire in Yemen con azioni aerei e forse anche terrestri.
L’Arabia Saudita teme infatti per la sua propria stabilità, giacché i suoi leader nutrono scarsa fiducia nel proprio esercito super armato e addestrato dagli Stati Uniti.
Infatti una minaccia interna al regno può venire dalla comunità sciita. Pur in assenza di dati statistici precisi sul numero di sciiti sauditi, li si può stimare tra il 15% e il 20% della popolazione. Le fonti ufficiali minimizzano, calcolando che la comunità raggiunge il 10%, vale a dire 2 milioni di persone. I 2/3 di questi cittadini sauditi, tra i più poveri della popolazione, vivono nella regione orientale (Aich-Charqiya), vicino al Bahrein, dove gli sciiti sono maggioranza, nella provincia di Al-Ahsa e nelle città di Qatf, Dammam e Khobar.
Dall’inizio del XXI° secolo, gli Stati Uniti hanno agito da piromani in Medio Oriente, con l’intervento militare contro Saddam Hussein e il sostegno alle mire saudite che, con la scusa della primavera araba, intendevano liquidare il governo alauita in Siria.
Per cercare di spegnere l’incendio, sono oggi condannati: 1) o a intervenire con truppe terrestri, cosa che Obama non intende fare; 2) o ad ottenere dalla Turchia almeno la chiusura della sua frontiera con la Siria, per soffocare progressivamente Daech; 3) e/o decidere un rovesciamento di alleanze o negoziare direttamente con l’Iran e la Russia, giacché è evidente che sono oggi i due paesi che si trovano nella migliore posizione per padroneggiare questi conflitti.
Quanto alla Francia, la politica estera “emozionale” di François Hollande gli ha fatto perdere tutte le carte che aveva nella regione.
Penultima tappa di successo per Total in Yemen. Il contratto che disciplina la cooperazione tra Total e le autorità yemenite per lo sfruttamento dei campi petroliferi di Maareb e Jaws (450 miliardi di metri cubi di riserve) è stato firmato il 24 maggio. Il contratto definitivo, della durata di 25 anni e che rappresenterà un investimento di 6 miliardi di dollari, sarà firmato in autunno. Total deve ancora trovare dei partner finanziari per costituire il consorzio che costruirà la rete di gasdotti, i due treni di liquefazione e il terminal di Ras Omran.
Note:
(1) 14 ottobre 2014: gli Houthi conquistano con facilità il porto di Hodeida sul mar Rosso, poi avanzano verso il centro del paese. Non incontrano alcuna resistenza da parte delle forze governative, ma devono combattere contro Al Qaeda.
20 gennaio 2015: gli Houthi si impossessano del Palazzo presidenziale di Sanaa. Il presidente Hadi e il suo governo si dimettono.
6 febbraio 2015: colpo di mano istituzionale degli Houthi, che annunciano lo scioglimento del Parlamento e istallano un Consiglio presidenziale, iniziative condannate dagli Stati Uniti e dalle monarchie del Golfo, che accusano l’Iran di appoggiare la ribellione sciita. A Sanaa le ambasciate chiudono.
21 febbraio 2015: il presidente Hadi lascia Sanaa e si rifugia a Aden, ex capitale dello Yemen del sud, revoca le proprie dimissioni e proclama Aden capitale del paese.
13 marzo 2015: per fare fronte “a ogni eventualità”, gli Houthi annunciano l’organizzazione di manovre militari vicino alla frontiera con l’Arabia Saudita.
20 marzo 2015: Lo Stato Islamico (ISIS) rivendica i suoi primi attentati in Yemen, con l’attacco contro le moschee sciite di Sanaa, che provoca 145 morti.
22 marzo 2015: gli Houthi avanzano verso sud e Taez, la terza città del paese. Il capo degli Houthi, Abdel Malek al-Houthi, giustifica questa offensiva nel quadro della lotta contro gli estremisti sunniti di Al Qaeda e dell’ISIS, che ha rivendicato i suoi primi attentati in Yemen con l’attacco alle moschee sciite a Sanaa.
25 marzo 2015: la ribellione sciita giunge a 30 chilometri da Aden, da cui il presidente Hadi scappa in Egitto, e conquista la base aerea di Al-Anad, la più importante del paese, evacuata la settimana precedente dai militari statunitensi. Si avvicina anche, nello stesso tempo, al porto di Mocha sul mar Rosso, che apre la strada allo stretto strategico di Bab al-Mandeb.
(2) Arabia Saudita: 100 aerei da combattimento; Emirati Arabi Uniti: 30 aerei da combattimento; Bahrein: 15 aerei; Kuwait: 15 aerei; Qatar: 10 aerei; Marocco: 6 aerei; Giordania: 6 aerei e pronta per un intervento terrestre; Sudan: 3 aerei e pronto per un intervento terrestre; Egitto: 4 navi da guerra per rendere sicura Aden e l’ingresso nel Mar Rosso, nonché partecipazione ai bombardamenti aerei. Il Cairo è pronto per un intervento terrestre; Pakistan: si riserva di decidere su un intervento terrestre; Stati Uniti: appoggio logistico e di intelligence
(*) Generale e dirigente d’impresa, Jean Bernard Pinatel è un esperto riconosciuto di questioni geopolitiche e di intelligence economica