Los cinco héroes prisioneros del Imperio
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Los cinco héroes prisioneros del Imperio
di Nicola Quatrano
Cuba è da anni nel mirino del terrorismo. L’elenco degli attentati è impressionante, tremendo il numero delle vittime: 3000 morti e circa 2000 feriti, più di quelle dell’11 settembre. E si tratta di un terrorismo alimentato e sostenuto dagli Stati Uniti, come è ampiamente dimostrato.
Anche la vicenda di Gerardo Hernandez, Antonio Guerriero, René Gonzales, Fernando Gonzales e Ramon Labanino fa parte di questa storia. E loro sono per Cuba e per tutta l’America Latina, “Los cinco héroes prisioneros del Imperio”.
Sono detenuti nelle carceri nordamericane dal 12 settembre 1998, i primi 17 mesi in isolamento nel hueco (un buco di due metri dove bisogna stare senza scarpe, in mutande e maglietta, non si sa quando è giorno o notte perché la luce è sempre accesa, non si ha nessun contatto umano, neppure coi secondini, e bisogna sopportare le grida continue dei reclusi di quel braccio riservato a prigionieri molto aggressivi). L’uscita da questa orribile situazione detentiva è stata possibile grazie ad una mobilitazione internazionale cui hanno partecipato molti liberal nordamericani, diversi deputati laburisti inglesi e Nadine Gordimer, scrittrice sudafricana, premio Nobel per la letteratura.
La storia è grottesca. I cinque non sono terroristi, ma hanno invece combattuto il terrorismo.
Si erano infiltrati da tempo all’interno di alcune organizzazioni paramilitari degli anticastristi di Miami, per porre fine alla sanguinosa serie di attentati e sabotaggi che avevano insanguinato l’isola. In particolare avevano stretto legami con gli associati alla organizzazione “Hermanos al rescate” (Fratelli per il riscatto), che ufficialmente si dedicava al recupero dei balzeros (i profughi partiti clandestinamente da Cuba a bordo di imbarcazioni di fortuna), ma in realtà organizzava attentati dei quali il loro capo, José Basurto, si vantava spesso anche pubblicamente. Fra le azioni confessabili, amavano compiere atti provocatori come quella di violare continuamente lo spazio aereo cubano con piccoli velivoli da turismo, dai quali lanciavano volantini propagandistici.
Era il 1998 e sembrava che l’amministrazione Clinton avesse intenzione di stabilire rapporti civili col governo cubano. Fu così che, per spirito di collaborazione, La Havana trasmise all’FBI i resoconti ricevuti dai suoi agenti sui gruppi terroristici operanti in Florida. Ma, a sorpresa qualche mese dopo, proprio sulla base di quei documenti, i cinque agenti cubani furono individuati e incarcerati con accuse fantasiose. Non furono incarcerati i terroristi, ma quelli che li avevano controllati e raccolto prove contro di loro!
Dal resoconto fatto da Gianni Minà:”Il primo processo, un po’ kafkiano, alla fine del 2001 si è svolto a Miami, dove ben 17 avvocati designati dalla Corte hanno rifiutato l’incarico temendo le ripercussioni che poteva avere sul loro lavoro il fatto d’avere difeso un patriota cubano proprio nello Stato dove la comunità anticastrista è più numerosa e aggressiva”.
“Proprio per questo – ha sottolineato Paul Mc Kenna, l’avvocato d’ufficio di Gerardo Hernandez – il giudizio, secondo le nostre leggi, non si sarebbe dovuto svolgere a Miami”.
Prosegue Gianni Minà: “Nel corso del dibattimento poi lo stesso pubblico ministero aveva dovuto riconoscere che i cinque cubani non avevano avuto accesso a informazioni sulla sicurezza nazionale, tanto che non aveva potuto accusarli di spionaggio, ma solo di cospirazione al fine di commettere spionaggio, cioè in sostanza li aveva incolpati di avere avuto l’intenzione di commettere un reato. Malgrado questo aborto giuridico, la giuria li ha condannati a pene tombali come mandanti dell’abbattimento di due velivoli dei “Fratelli per il riscatto”, abbattuti dalla contraerea cubana durante una illegale violazione dello spazio aereo”.
Le pene
Antonio Guerriero: ergastolo più dieci anni di carcere. Fernando Gonzales: 19 anni di carcere. Gerardo Hernandez: 2 ergastoli più 15 anni di carcere. René Gonzales: 15 anni di carcere. Ramon Labanino: ergastolo più 18 anni di carcere.
Il 9 agosto 2005 l’11 circuito della Corte di Appello di Atlanta ha revocato all’unanimità le condanne per violazione dei diritti dei detenuti e della Costituzione USA e ha ordinato un altro processo da tenersi in un’altra città.
Il 27 maggio 2005 il Gruppo per le detenzioni arbitrarie dell’Alto Commissariato per i diritti umani ha dichiarato arbitraria e illegale la detenzione dei Cinque e ha sollecitato il Governo degli Stati Uniti a risolvere la situazione.
Successivamente però la prima sentenza è stata di nuovo confermata (a maggioranza e con dissenting opinions di alcuni dei giudici) in un successivo grado di giudizio della stessa Corte di Appello di Atlanta in sezione plenaria e il processo di appello è arrivato ora, dopo quasi cinque anni dal suo inizio, alla discussione finale, che si è tenuta in forma orale ad Atlanta il 20 agosto 2007 e all’esito della quale si attende la sentenza in tempi non prevedibili con esattezza, ma probabilmente da misurarsi in alcuni mesi.
Quello che è certo comunque è che i cinque non hanno messo in alcun modo a repentaglio la sicurezza degli Stati Uniti, ma hanno solo raccolto prove a carico di organizzazioni terroristiche anticastriste.
E’ per questo che il paese che pretende di guidare la lotta al terrorismo ha processato e incarcerato i cinque eroi cubani.
“Comitato Italiano per la giustizia dei Cinque”
L’incarcerazione dei cinque agenti cubani, detenuti oramai da quasi nove anni nelle carceri statunitensi, rappresenta per molti versi una lesione dei principi internazionalmente riconosciuti dello Stato di diritto.
Risultano, infatti, del tutto pretestuose le accuse di omicidio e spionaggio per le quali sono stati condannati a pesanti pene detentive i cinque agenti cubani, che svolgevano attività volte esclusivamente a prevenire attentati terroristici sul suolo cubano ed altrove, reperendo informazioni in modo nonviolento.
L’amministrazione statunitense, avvertita dalle autorità cubane e richiesta di collaborazione nella repressione del fenomeno terroristico che veniva organizzato a partire dal suo territorio, non ha ottemperato all’obbligo di cooperare contro il terrorismo sancito dal diritto internazionale vigente.
Il processo, come ravvisato dal panel di appello di Atlanta nella sentenza dell’agosto 2005 e dal gruppo di lavoro delle Nazioni Unite sulle detenzioni arbitrarie nel parere dello stesso anno, non ha rispettato gli standard minimi del trattamento processuale equo, stabiliti dal Patto internazionale sui diritti civili e politici, ratificato dagli Stati Uniti, e dalla Costituzione statunitense.
Per giunta, i diritti umani dei cinque sono stati ulteriormente violati con lunghi periodi di detenzione in isolamento, del tutto ingiustificati alla luce delle stesse regolamentazioni carcerarie, e l’immotivato rifiuto di incontrare i parenti più prossimi.
Un appello indirizzato al Congresso statunitense da varie decine di deputati e senatori italiani è rimasto finora senza alcuna risposta.
Per tutti tali motivi abbiamo ritenuto importante costituire un “Comitato Italiano per la giustizia dei Cinque” e lanciare un ulteriore appello indirizzato alla società civile, alle associazioni democratiche e culturali, ai movimenti politici e ai nostri parlamentari in difesa dei diritti dei cinque agenti cubani e dell’ordinamento giuridico internazionale.
Una conferenza-stampa sarà tenuta entro settembre per informare sugli sviluppi della situazione e le attività del comitato.
Componenti del “Comitato Italiano per la giustizia dei Cinque” :
Heidi Giuliani, Franca Rame, Manuela Palermi,
Luciano Vasapollo, Fabio Marcelli, Luca Baiada,
Sabina Siniscalchi, Iacopo Venier, Luciano Pettinari,
José Luiz Del Roio, José Luis Tagliaferri, Franco Forconi.
Il processo di Atlanta (www.giuristidemocratici.it)
Una delegazione dei Giuristi Democratici ha partecipato al processo d'appello che si è tenuto ad Atlanta per i cinque cubani condannati all'ergastolo con l'accusa di spionaggio.
Tecla Faranda, che ha partecipato all'udienza, riassume i termini della questione e ci da un resoconto del processo.
Si è tenuta ad Atlanta, Georgia l’udienza di discussione orale nel processo di appello contro la sentenza del Tribunale di Miami, Florida che ha inflitto a cinque cittadini cubani (dei quali uno ha anche la cittadinanza statunitense), arrestati a Miami quasi dieci anni fa,condanne per tre ergastoli complessivamente, oltre ad alcuni decenni di reclusione che stanno scontando in regime di isolamento nella prigione di massima sicurezza di Victorville.
Riassumendo la ormai decennale e complicata vicenda giudiziaria, i cinque, che si erano infiltrati in ambienti anticastristi a Miami allo scopo di sventare eventuali atti terroristici contro Cuba, sono stati condannati per associazione per delinquere (conspiracy) diretta allo spionaggio e altri reati minori connessi (uso di documenti falsificati, false dichiarazioni, etc.) a seguito di un processo fortemente condizionato da un ambiente sfavorevole agli imputati, in quanto cubani, e privo di riscontri probatori.
In particolare la tesi dell’accusa è stata quella di considerare l’esistenza di un accordo tra i cinque finalizzato allo spionaggio e dunque alla rivelazione di notizie dannose per l’interesse dello Stato.
E’ sempre stato invece evidente dagli stessi atti processuali che i cinque semplicemente raccoglievano notizie, peraltro possibile oggetto di pubblicazione persino sui quotidiani e delle quali la segretezza non è mai stata comunque provata in giudizio, da utilizzarsi al fine di contrastare iniziative di gruppi anticastristi localizzati, come è dato di pubblico dominio, prevalentemente a Miami.
L’accordo tra i cinque (conspiracy) riguardava dunque la raccolta in loco di informazioni utili alla difesa del territorio cubano e non in conflitto con l’interesse nazionale statunitense, a meno che non si consideri, ovviamente, che difendere Cuba da crimini di privati coincida con una lesione della sicurezza nazionale USA.
Se la giuria, condotta da una pubblica accusa che ha violato ripetutamente la deontologia e l’etica professionale, ha mostrato di pensarla in questo modo, il processo di primo grado è rimasto privo di riscontri probatori sulla natura segreta delle notizie raccolte e sulla conseguente commissione del reato di spionaggio, mentre le attività connesse alla copertura dei cinque sono state sempre ammesse ma ricondotte dalla difesa ad un’esimente rappresentata da un concetto simile al nostro “stato di necessità”.
La sentenza di primo grado era stata ribaltata in un primo tempo in appello dalla Corte di Atlanta 11° distretto (competente per la Florida), un collegio togato (composto da due dei tre giudici attuali) senza giuria.
Successivamente però la prima sentenza era stata di nuovo confermata (a maggioranza e con dissenting opinions di alcuni dei giudici) in un successivo grado di giudizio della stessa Corte in sezione plenaria e il processo di appello è arrivato ora, dopo quasi cinque anni dal suo inizio, alla discussione finale, che si è tenuta in forma orale ad Atlanta il 20 agosto scorso e all’esito della quale si attende la sentenza in tempi prevedibili con esattezza, ma probabilmente da misurarsi in alcuni mesi.
Attualmente l’oggetto dell’appello riguarda non più la lesione dei diritti degli imputati, bensì una valutazione delle prove che hanno costituito il fondamento della sentenza di condanna.
Nel frattempo nulla si è modificato circa il regime di carcere duro inflitto ai condannati e, persino nell’imminenza dell’udienza. è stato negato al fratello di uno dei condannati la programmata visita in carcere a causa di una presunta – e francamente, al di là di tutto, già poco credibile in sé - contaminazione da stupefacenti della sua persona e del suo passaporto.
Né, d’altra parte, è stato consentito agli imputati di presenziare all’udienza, come sarebbe invece doveroso in qualsiasi processo in qualsiasi Stato di diritto del mondo il cui sistema giudiziario stia decidendo sulla vita, come in questo caso, di un cittadino.
Ciò che si è invece inaspettatamente modificato negli ultimissimi tempi – ed ha invece una fondamentale importanza - è l’atteggiamento dei media su una vicenda rimasta praticamente del tutto sconosciuta all’opinione pubblica statunitense fino ad ora.
Se, infatti, come si ricorderà, la storia dei cinque nel 2004 aveva dovuto essere portata sul New York Times con un’inserzione a pagamento per poter sfondare il muro di omertà ed indifferenza alla notizia negli USA e nel mondo, il 5 agosto scorso lo stesso autorevole quotidiano ha pubblicato un articolo del giornalista dell’Havana Mc Kinley che ha di fatto ricalcato il contenuto del precedente annuncio ed ha ristabilito la verità dei fatti rispetto ad una campagna di non-informazione, più che di effettiva contro-informazione, giornalistica precedente.
All’udienza era inoltre presente una certa rappresentanza di testate giornalistiche locali e di agenzie di stampa, accompagnate dal rituale disegnatore, e la notizia del processo è stata poi pubblicata, in modo ineccepibile anche se neutro, sulla stampa locale.
Infine, le principali reti televisive nazionali, CNN e CBS, hanno entrambi messo in onda dopo l’udienza, seppure in seconda serata, un’intervista ad uno degli avvocati storici dei cinque, Leonard Weinglass, mentre Gerardo Hernandez era stato intervistato nel mese di luglio scorso sull’argomento anche dalla BBC Radio.
La diffusione, anche se tardiva, della notizia da parte dei media, nonché la veramente ampia partecipazione dei comitati e delle associazioni per la tutela dei cinque cubani (oltre duecento in tutto il mondo), che hanno inviato oltre una settantina di delegati a dimostrare la solidarietà di tutto il mondo in questa vicenda, di alcuni rappresentanti di ordini forensi stranieri, nonché di alcuni parlamentari, avvocati e magistrati statunitensi sono elementi indubbiamente fondamentali sotto il profilo della sensibilizzazione dell’opinione pubblica.
In ogni caso, lo svolgimento dell’udienza orale, come confermato anche da uno degli avvocati americani del collegio di difesa Leonard Weinglass e da altri legali presenti, ha dimostrato l’interesse dei tre giudici, che hanno posto parecchie domande sia alla difesa sia all’accusa, a condurre una migliore e approfondita valutazione delle prove e dell’operato del Tribunale di Miami.
Dopo che altri giudici si sono già pronunciati per la legittimità della condanna e, soprattutto, dopo quasi un decennio di carcere duro inflitto agli imputati la riforma, totale o parziale, della sentenza da parte di questi giudici richiede certamente del coraggio e d’altra parte il clima emotivo che ha seguito l’11 settembre non si è di molto attenuato dai tempi del primo processo, che ne è stato indubbiamente influenzato.
Peraltro, almeno apparentemente, l’atteggiamento dei tre giudici che stanno esaminando il caso (dei quali due si erano già pronunziati in favore dell’illegittimità della condanna ed un terzo invece è stato aggiunto in seguito e non si era mai occupato del caso in precedenza) è sembrato serio e tecnico e questo elemento, considerato che stiamo parlando di un processo gestito fino a questo momento in modo irrazionale, emotivo, antigiuridico e senza prove e quindi in aperta violazione delle regole di diritto, è indubbiamente della massima importanza.
L’udienza orale, che non è sempre concessa in questo tipo di processo e alla quale sono stati ammessi tutti gli aspiranti che hanno fatto richiesta di partecipare senza particolari formalità, ha dato relativo spazio ai difensori delle parti e tutti i membri della Corte hanno rivolto numerose e mirate richieste di approfondimento e di chiarimenti ai difensori ed alla rappresentante della pubblica accusa, soprattutto in ordine alla valutazione delle prove, che sono sicuramente il punto più debole dell’accusa, perché, come si è detto, le prove dei presunti e peraltro fumosi reati semplicemente non esistono.
E infatti la rappresentante della pubblica accusa ha avuto serie e del tutto percepibili difficoltà a condurre la discussione, così e come richiestole dai giudici, sulle prove a fondamento delle accuse, limitandosi peraltro a richiamare un solo documento sulla base del quale il governo cubano avrebbe preavvertito uno dei cinque della possibilità che potessero essere abbattuti, come poi avvenuto effettivamente, aerei provenienti da Miami che avessero violato lo spazio aereo cubano; documento che fonderebbe una responsabilità inesistente e mai in precedenza affermata – e questo nel sistema di common law è un elemento fondamentale - di un singolo privato cittadino per un atto, peraltro legittimo se violazione dello spazio aereo vi sia stata , del suo governo.
La rappresentante dell’accusa ha dovuto infine palesemente ammettere che le imputazioni non sono fondate su prove in senso tecnico, ma su semplici indizi (hints), ma non ha ritenuto di precisare né su quali precedenti decisioni fondasse tale assunto, né dove portassero tale indizi, dichiarando di aver avuto “insormontabili” difficoltà nell’acquisizione delle prove.
Questa imbarazzante ammissione, che determina automaticamente l’impossibilità di sostenere l’accusa in giudizio secondo regole universalmente condivise negli Stati di diritto, non potrebbe che portare automaticamente, come ben sappiamo, ad un’unica e ovvia conclusione .
La difesa ha invece puntato la discussione su alcuni soltanto dei numerosissimi capi di impugnazione della sentenza nell’ottica di una strategia processuale, pienamente condivisibile, di concentrazione dell’attenzione dei giudici sugli elementi fondamentali del processo, anche in considerazione del limitato tempo a disposizione (circa un’ora, di fatto estesa di un’ulteriore ventina di minuti).
In particolare i difensori hanno evidenziato come nessuna prova sia in atti delle contestate attività di spionaggio, né che la presunta conspiracy, reato assimilabile all’ associazione per delinquere, prevedesse la commissione di reati e di quali reati e che, in ogni caso, nessuno è mai stato in precedenza condannato all’ergastolo per reati che non prevedessero il coinvolgimento in fatti di sangue ovvero il ricorso alle armi, come è invece avvenuto in questo caso.
Preliminare evidenza è stata inoltre data al comportamento emotivo del rappresentante della pubblica accusa nel processo di primo grado che si è abbandonato ad opinioni e valutazioni personali ed emotive (“Oh my God, they are spies!…“- Oh mio Dio ,si tratta di spie!) invece di attenersi a fatti e prove dei fatti, comportamento valutato come estremamente grave ed inammissibile secondo le regole processuali e deontologiche statunitensi.
Non dimentichiamo infatti che il rappresentante della pubblica accusa negli Stati Uniti ha un obbligo deontologico, sanzionato anche con provvedimenti disciplinari espulsivi, non solo di attenersi ai fatti, ma anche di cercare le prove favorevoli all’imputato e di non nasconderle.
Non vogliamo illuderci inutilmente in una vicenda in cui comunque l’aspetto politico ed emotivo ha di fatto sempre prevalso sull’applicazione delle regole.
E’ certo, tuttavia, che lo svolgimento complesso dei giudizi e la inusuale estensione delle motivazioni della prima sentenza di appello (quasi un centinaio di pagine) dimostra che il sistema giudiziario statunitense fa un’estrema fatica a digerire la sentenza pronunziata ed ad oggi abbondantemente già eseguita con quasi dieci anni di carcere duro già scontati dai cinque.
E’ anche certo che rimediare ad un’ingiustizia di questa portata e con queste conseguenze sulla vita di cinque persone richiede molta coscienza, fermezza e coraggio da parte di questi giudici.
Ma vogliamo essere fiduciosi ed ottimisti, con l’avvocato Weinglass, che l’onestà intellettuale e la preparazione giuridica dei giudici dell’appello (che, al contrario della giuria popolare di Miami, sono giuristi di livello superiore, ben conoscono le regole ed hanno palesemente ritenuto di approfondire molti aspetti processuali completamente ignorati dalla giuria di Miami) finiranno per prevalere su questioni emotive e politiche, che nessuna influenza devono avere in un processo.
Se conosciamo bene le motivazioni precise e perverse che stanno alla base di questo colossale errore giudiziario, confidiamo, tuttavia, che i giudici di Atlanta non si faranno strumentalizzare da fattori estranei all’amministrazione della giustizia, con il rischio di creare un pericoloso precedente per tutti, cittadini statunitensi compresi.
Non dimentichiamo che esiste ancora Guantanamo, ma confidiamo che i giudici di Atlanta facciano semplicemente il loro lavoro, perché l’applicazione delle regole, anche se non restituirà mai loro questi lunghi anni di ingiustificate privazioni, basterà a far tornare a casa René, Fernando,Gerardo,Ramon e Antonio.
Tecla Faranda