Per un socialismo di mercato
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Obiettivo di questo contributo è tentare una ricostruzione delle questioni salienti del dibattito svoltosi tra gli studiosi sovietici negli anni Sessanta in occasione delle riforme economiche in URSS, intraprese soprattutto a partire dal 1965 sotto l’egida del neo-presidente del Consiglio dei ministri A. Kosygin.
Il tema ha trovato un certo spazio negli studi degli anni ’60 e ’70 dedicati all’economia e alla società sovietiche: nella trattazione ci riferiremo soprattutto alle opere di studiosi quali A. Nove [1], M. Lavigne [2] e R. di Leo [3]. Piuttosto rari sono, invece, i contributi di carattere più prettamente storiografico. Fa eccezione il lavoro, per molti aspetti pionieristico, di M. Lewin, Political Undercurrents in Soviet Economic Debate. From Bukharin to the Modern Reformers [4], uscito nel 1974 e tradotto in italiano tre anni dopo. L’opera di Lewin rimane però un caso abbastanza isolato. La maggior parte delle trattazioni storiche sulle riforme in Unione Sovietica negli anni ’60 privilegia infatti il confronto politico tra le differenti posizioni dei leader del partito, mentre gli aspetti del dibattito economico vengono sovente trattati solo a margine. Un motivo di tale sottovalutazione potrebbe essere ritrovato nel progressivo arenarsi delle riforme stesse già alla fine degli anni ’60, che portò al fallimento della maggior parte delle istanze sostenute dagli economisti riformatori [5].
Tuttavia, nonostante gli esiti del processo riformistico, è nostra convinzione che il dibattito di quel periodo rivesta una grande importanza, e non soltanto limitatamente alla realtà socio-economica dell’Unione Sovietica dell’epoca. Esso, infatti, costituisce parte essenziale di una discussione più ampia, avviata a partire dalla seconda metà degli anni ’50 in molti paesi dell’Est europeo (Jugoslavia e Polonia in testa), in merito al “socialismo di mercato”, ovvero alla possibilità di rivedere il modello di socialismo – sino ad allora basato in quasi tutti i suoi settori sulla pianificazione centralizzata e sull’allocazione amministrativa delle risorse – attraverso l’introduzione di relazioni di mercato [6]. Come vedremo, il dibattito, pur partendo da problemi di carattere tecnico-organizzativo, sarà irresistibilmente portato a toccare nodi fondamentali riguardanti la concezione economica del socialismo e il ruolo del partito nella società.
Molti dei temi affrontati non erano certo nuovi. In Occidente, infatti, il modello economico basato sulla pianificazione era stato oggetto di critiche sin dal primo piano quinquennale varato nel 1928, a dispetto degli impressionanti risultati produttivi vantati dal regime. Negli anni ’50, tuttavia, le difficoltà del sistema sovietico divennero maggiormente evidenti: la causa di ciò risiedeva soprattutto nel venir meno dei due fattori su cui si era basato il modello di economia pianificata seguito a partire dalla fine degli anni ’20, ovvero la grande disponibilità di manodopera a basso costo e l’assoluta preminenza dell’industria pesante rispetto ai settori dei beni di consumo, dell’agricoltura e dei servizi.
La questione di uno sviluppo qualitativo – e non più solo quantitativo dell’economia – si faceva tanto più stringente quanto più l’URSS si evolveva verso un modello di società industriale avanzata. Situazioni come la carenza di merci utili e la sovrabbondanza di beni inutili o l’imposizione dall’alto di indici contradditori tra loro risultavano meno accettabili in un paese dalla struttura economica sempre più complessa e con una società dai bisogni più diversificati. L’attenuazione della guerra fredda e della lotta ai cosiddetti nemici interni, in seguito alla destalinizzazione promossa da Chrušcëv, rendeva inoltre meno giustificabile quel ricorso continuo alle pressioni amministrative che costituiva un elemento fondamentale del modello economico staliniano.
La maggior parte degli esperti, sia occidentali che sovietici, concorda nel rilevare come punto centrale per la comprensione delle difficoltà del sistema pianificato l’eccessiva discrepanza tra gli interessi economici dello Stato e quelli delle singole aziende. Da un lato il regime si rivolgeva alle imprese chiedendo loro di gestire più economicamente i fondi, migliorare la qualità dei prodotti, non rimanere con scorte di beni invenduti ecc… Dall’altro le aziende non erano in grado o non erano stimolate ad agire nella maniera voluta dal regime. A che scopo un’azienda avrebbe dovuto affannarsi a raggiungere un profitto se questo sarebbe andato in gran parte allo Stato? Perché preoccuparsi del deficit accumulato se lo Stato avrebbe coperto le perdite? Se un’azienda era decisa ad adottare un comportamento diverso, migliorando ad esempio la qualità della merce o introducendo nuove tecnologie, non era avvantaggiata: un mutamento della produzione avrebbe potuto facilmente impedire la realizzazione di uno degli indici imposti dalle autorità pianificatrici.
Da questa contraddizione di fondo nasceva una situazione permanentemente conflittuale tra aziende e organi di piano. Da un lato l’azienda era portata a sottostimare le proprie effettive capacità produttive, così da ricevere piani facili da realizzare, e ad esagerare le proprie necessità, in modo da ricevere dal centro più input in termini di materie prime e manodopera. Dall’altro i pianificatori – sia per rispondere ai sotterfugi delle imprese, sia per mancanza di disponibilità di dati certi sulla produttività di queste ultime – spesso agivano in maniera del tutto arbitraria, modificando gli obiettivi di produzione dei piani in corso di realizzazione o diminuendo la quota di risorse da destinare alle aziende. Era una situazione comune che il piano di produzione non fosse accompagnato da un corrispondente cambiamento nel piano finanziario o del lavoro: i russi indicavano con l’espressione vodzušnyi val (letteralmente “prodotto lordo fatto d’aria”) quei piani per i quali gli organi della pianificazione non avevano predisposto risorse adeguate [7]. Tali difficoltà erano già note nel periodo staliniano, ma diventarono ancora più evidenti alla metà degli anni ’50, una volta che l’URSS era diventata in gran parte, a quasi trenta anni dall’avvio del primo piano quinquennale, una società industrializzata.
Una ricostruzione a posteriori delle motivazioni di fondo che animavano lo sforzo di riforma si trova nel saggio dello studioso di economia V. Novožilov dal titolo Una nuova fase della gestione socialista dell’economia, pubblicato nel 1968 [8].
L’economista sovietico giustificava la liquidazione della NEP e il passaggio a metodi amministrativi di gestione avvenuti a partire dalla fine degli anni ’20 con la necessità, in condizioni di accerchiamento internazionale da parte delle potenze capitaliste, di procedere ad una industrializzazione a tappe forzate. La rigida centralizzazione aveva permesso di concentrarsi sui punti decisivi per l’avviamento di uno sviluppo accelerato, ovvero la creazione di un’industria pesante e la preparazione di tecnici qualificati. Negli anni ’50, però, le condizioni su cui si fondava quel tipo di sviluppo erano ormai venute meno: la diminuita disponibilità di risorse naturali e umane rendeva più urgente il problema di una loro utilizzazione qualitativamente più elevata, le migliorate condizioni di vita sollecitavano maggiori consumi, e così via. Se il modello staliniano aveva avuto il merito di condurre la società sovietica sulla strada dell’industrializzazione, ora si trattava di passare ad uno stadio più avanzato, e con strumenti diversi da quelli delle requisizioni forzate e della mobilitazione di massa.
Che caratteristiche avrebbe avuto la nuova società socialista? Come era possibile conciliare l’efficienza e il calcolo economico con la gestione centralizzata? Esistevano ancora nel socialismo i rapporti di mercato? Se sì, che ruolo avevano? Dalla fine degli anni Cinquanta a tutti gli anni Sessanta su tali questioni si imperniò un dibattito che coinvolse studiosi – non solo specificamente di economia – di molti paesi socialisti. All’avanguardia si trovavano la Jugoslavia, che già alla fine degli anni ’50 aveva inaugurato uno degli esperimenti di gestione economica più distanti dal modello sovietico, e la Polonia di Gomulka. Più attardate rimanevano l’Ungheria, la Germania dell’Est e la Cecoslovacchia, in cui il “disgelo” sul fronte del dibattito economico si svolse in maniera quasi parallela all’URSS. Gli studiosi occidentali tendono per comodità a distinguere tra “dogmatici” e “riformisti”. Come vedremo, le posizioni dei riformisti erano assai diversificate, tuttavia si distinguevano per una fondamentale caratteristica: la loro analisi nasceva dal tentativo di studiare la realtà delle trasformazioni socio-economiche liberandosi il più possibile dalle mistificazioni dell’ideologia di partito. Solo così era possibile fornire le basi teoriche per una riforma.
Per questo siamo convinti che tale dibattito rivesta, dal punto di vista storico, una grande importanza: le nuove proposte misero in crisi i “dogmi” su cui si reggeva l’economia di comando staliniana, e lo fecero anche utilizzando le analisi di un Marx e di un Lenin finalmente depurate dalle semplificazioni cui erano state fatte oggetto e restituite alla loro originaria potenza critica. All’interno di un discorso che si proponeva quasi sempre come prettamente “tecnico”, anche allo scopo di evitare uno scontro aperto con l’ideologia ufficiale, affioravano a latere osservazioni critiche che implicavano una riconsiderazione radicale della concezione del socialismo allora imperante. In questo tentativo di ripensare il socialismo – ed è qui un elemento di grande interesse – gli economisti sovietici non avevano guide sicure cui affidarsi. Come scrive Lewin: «nessuna teoria, occidentale o non, è riuscita a fornire un quadro esauriente della complessa struttura dei sistemi sociali ed economici moderni tale da fornire ai sovietici una guida autorevole nella soluzione dell’intera gamma di problemi cui si trovano di fronte» [9].
Se i primi dibattiti si svolsero già dalla metà degli anni ’50, la proposte riformistiche conobbero la loro ufficializzazione con la pubblicazione dell’articolo Piano profitto e premi [10] di E. Liberman sulla «Pravda», nel settembre 1962. L’autore, professore di economia a Char’kov, in Ucraina, diventò il portabandiera di quel riformismo attento a discostarsi il meno possibile dall’ortodossia del partito. Del resto, prima di apparire sulla «Pravda», le sue proposte erano già passate al vaglio dell’Accademia delle Scienze. L’articolo si presentava come un semplice contributo alla soluzione di un problema già posto nell’ultimo programma del PCUS: «organizzare un sistema di pianificazione e di valutazione dell’attività aziendale tale che le aziende siano profondamente interessate a raggiungere traguardi produttivi più elevati, ad adottare nuove tecniche e a migliorare la qualità della produzione, in una parola, alla massima efficienza nella produzione» [11]. Fin qui, c’è poco di nuovo. A ben guardare, però, tale dichiarazione si basava sul riconoscimento, neppure tanto implicito, di un dato di fatto: il sistema non riusciva ad assicurare una coincidenza sufficiente tra interessi dello Stato e interessi dell’impresa. Per decenni l’ideologia ufficiale aveva sostenuto che l’impresa socialista, appartenendo a tutto il popolo, per sua natura non poteva avere interessi specifici. Ora si diceva: di fatto l’impresa socialista è ancora lontana da questa coincidenza di interessi e bisogna lavorare perché ci arrivi. Lo slogan utilizzato da Liberman – ma anche da altri autori – era: «ciò che è vantaggioso alla società deve essere vantaggioso a ogni singola azienda» [12].
Come procedere? In primo luogo urgeva una profonda revisione degli indicatori imposti dal centro. Tutti gli indici usati sino ad allora non erano riusciti ad incentivare la produttività. Anche i nuovi indici introdotti di recente erano risultati insoddisfacenti. Ad esempio, l’indice del costo di lavorazione, applicato nelle industrie di abbigliamento dalla fine degli anni ’50 con l’intento di ridurre i costi, aveva prodotto effetti deleteri: le aziende erano spinte, per economizzare le spese materiali, a confezionare indumenti con tessuti di scarsa qualità che i consumatori spesso rifiutavano. Secondo Liberman, il problema era a monte: “Ogni tipo di indice – sosteneva – verrà alterato se imposto dall’alto” [13].
Liberman proponeva di assegnare alle aziende soltanto due indici. Il primo riguardava il valore della produzione venduta: bisognava fare in modo che l’azienda producesse articoli richiesti dai consumatori. Il secondo era l’indice di redditività, ovvero il rapporto tra profitto e fondi di produzione: l’azienda avrebbe dovuto massimizzare il profitto riducendo l’impiego dei fondi. La speranza di Liberman era di mettere un argine alla tendenza allo spreco da parte delle imprese. Nel nuovo modello le aziende avrebbero deciso gli altri indici e il premio sarebbe stato assegnato «sulla base di una quota di partecipazione effettiva al reddito creato: tanto maggiore è il piano di redditività che elabora l’azienda stessa, tanto maggiore sarà anche il premio» [14]. Per combattere la prassi delle aziende di “contrattare” la riduzione dei piani si sarebbe concessa maggiore autonomia decisionale alle aziende nell’utilizzo dei fondi e nell’elaborazione del piano di produzione. Ciò non avrebbe sminuito il ruolo del piano, ma ne avrebbe mutato la funzione: da ordine amministrativo che agiva “a priori” – quasi indipendentemente dalle esigenze delle imprese – a stimolo economico, che operava in parte “a priori” (attraverso l’indice della produzione venduta e l’indice di redditività), in parte “a posteriori” coordinando i vari piani decisi delle aziende. Infine, per spingere i lavoratori a produrre di più e meglio, Liberman proponeva di legare gli incentivi materiali al profitto dell’impresa, diminuendo la parte fissa del salario e aumentando quella legata ai risultati produttivi dell’azienda.
Le idee di Liberman non costituivano una novità in sé: molte di esse erano già emerse in precedenti articoli e dibattiti. Di nuovo vi era il fatto che apparivano esposte in maniera organica e per di più in un giornale come la «Pravda». Per non scontrarsi con l’ideologia ufficiale lo studioso, tuttavia, rimaneva nel vago quando si trattava di spiegare in che maniera un modello del genere potesse trovare applicazione. Che senso aveva valutare l’impresa in base all’indice di produzione venduta se non le si concedeva prima la libertà di scegliersi i fornitori e i clienti? Come poteva ottenere un profitto se i prezzi (anche quelli all’ingrosso) continuavano ad essere determinati dal centro? Liberman accennava alla necessità di costruire un sistema più elastico di prezzi che tenesse conto della richiesta del mercato, ma non specificava come crearlo.
L’economista V. Nemcinov, in un articolo apparso due settimane dopo sempre sulla «Pravda», dal titolo Obiettivo pianificato e incentivo materiale [15], proponeva, per risolvere questi nodi, la costituzione di un commercio statale dei beni di produzione – che sinora erano forniti alle aziende quasi gratuitamente – abolendo il sistema delle assegnazioni statali. L’autonomia delle imprese e il nuovo ruolo del piano sarebbero stati realizzati in questo modo: le aziende avrebbero presentato diverse varianti di piano e gli enti di pianificazione avrebbero scelto, sulla base del vantaggio economico, le aziende cui ordinare determinate forniture di merci. Si stabiliva, dunque, un principio di selezione tra le imprese. Nemcinov giustificava così questo cambiamento: se la pianificazione era essenziale al modo di produzione socialista, la funzione degli incentivi materiali andava mutata parallelamente alle nuove esigenze dello sviluppo. Mentre negli anni ’30 e ’40 la necessità di creare in breve tempo un’industria nazionale e un’agricoltura collettiva non aveva permesso di tenere conto degli interessi della singola azienda, ora «la produzione socialista ha raggiunto un tale livello di sviluppo che se il piano non viene integrato con un nuovo e più efficiente sistema di incentivi materiali, non possono essere mobilitate e utilizzate tutte le risorse e riserve produttive disponibili» [16].
Nel suo contributo su un numero di «Kommunist» del 1964 intitolato Gestione economica socialista e pianificazione della produzione [17], Nemcinov precisava le caratteristiche del nuovo modello. Si partiva dalla considerazione per cui l’economia socialista era un sistema composto da sistemi minori (settori produttivi, regioni economiche), a loro volta suddivisi in unità produttive (aziende) e di consumo (famiglie). Il vecchio modello si dimostrava inadeguato perché concepiva il sistema economico maggiore come la «pura somma dei sistemi economici primari» [18], senza tenere conto delle interconnessioni reciproche ma anzi comprimendole in senso rigidamente verticistico. Più l’economia diventava complessa, più risultava controproducente gestirla in quella maniera. Il modello proposto, invece, era fondato su un connubio tra piano e chozrašcët (ovvero, “calcolo economico”). Le aziende avrebbero proposto i loro progetti su come eseguire le ordinazioni del piano, gli enti della pianificazione avrebbero scelto di assegnare le ordinazioni a chi offriva i vantaggi maggiori. La pianificazione veniva trasformata da operazione puramente amministrativa a scelta basata sul calcolo economico, e l’impresa era indotta ad operare non sulla base di imposizioni ma seguendo il proprio utile. Nemcinov criticava la scarsa responsabilizzazione degli organi centrali nei confronti delle imprese
le aziende di base si vedono continuamente assegnare dall’alto determinati obblighi percentuali (per l’aumento del volume di produzione e della produttività di lavoro, per la riduzione dei costi ecc.), mentre le istanze superiori non assumono di solito alcuna responsabilità di fronte alle aziende per la sproporzione del piano [19].
Questa unilateralità degli obblighi andava superata a favore di impegni contrattuali bilaterali tra aziende ed enti economici superiori. Ancora una volta lo slogan era: «il vantaggio della società deve essere anche il vantaggio dell’azienda, e viceversa».
Affinché questo sistema funzionasse, bisognava cambiare due cose. La prima era, come già accennato, il sistema di forniture. La frequente scarsità di risorse materiali era dovuta al fatto che «continuiamo a considerare i rifornimenti non come prodotti, con le loro leggi di scambio equivalente, ma come oggetti di scambio diretto» [20]. Nemcinov proponeva di sostituire questa sorta di ‘tesseramento’ con un commercio statale all’ingrosso delle forniture. La seconda era il modo di fissare i prezzi. La pianificazione di questi, infatti, avveniva centralmente e risultava in genere assai poco flessibile: molti prezzi rimanevano fissi per anni ed era lo Stato a colmare la differenza tra i prezzi stabiliti e quelli che sarebbero scaturiti dal rapporto domanda–offerta.
Nemcinov distingueva a questo proposito tre tipi di beni. Per alcuni prodotti essenziali al mantenimento di un certo livello di vita delle persone, i prezzi sarebbero stati fissati ancora in questo modo. Gli altri, invece, sarebbero stati elaborati dalle aziende e sottoposti poi all’approvazione del Consiglio superiore dell’economia. Altri ancora sarebbero stati di competenza diretta delle aziende. «Attraverso prezzi stabili ed elastici al tempo stesso le cellule produttive della società avranno a disposizione un criterio sicuro per la scelta del regime ottimale di attività, in cui l’ottimo locale potrà coincidere perfettamente con l’ottimo generale» [21].
Gli autori di queste proposte si rendevano conto del rischio di essere bollati come ‘revisionisti’ dalle fazioni più conservatrici del partito. Per questo si preoccupavano di presentare le loro riflessioni come qualcosa di puramente “tecnico” al servizio dell’ideologia ufficiale, avente l’unico scopo di perfezionare i rapporti socialisti di produzione. Paradossalmente, proprio questo sforzo di sottolineare gli elementi di continuità rispetto al vecchio modello di gestione, evitando il più possibile i contrasti con l’ideologia, conduceva gli economisti ad affrontare anche questioni di carattere più teorico. In un sistema dominato dal culto ufficiale del marxismo-leninismo, infatti, non potevano limitarsi a proporre il profitto come molla dell’agire economico, la parziale flessibilità dei prezzi e l’introduzione del mercato in alcune sfere della distribuzione, ma dovevano anche giustificare l’uso di questi dispositivi all’interno di una società socialista. Per farlo, avevano bisogno di fornire un’analisi del socialismo così come si era realmente sviluppato e non come, secondo l’ideologia, si sarebbe dovuto sviluppare. Indubbiamente, la ripresa di certe teorie di Lenin consentiva di muoversi ‘con le spalle coperte’. Ma non bastava: nessuno – né Lenin né tanto meno Marx – aveva mai elaborato un modello organico di socialismo cui fare riferimento, per la semplice ragione che proporre un modello ideale avrebbe leso il carattere scientifico che il socialismo marxiano proclamava di avere: l’obiettivo per Marx era analizzare la società esistente e le sue tendenze, e non pronosticare i caratteri della futura società. D’altro canto, l’invito di Lenin ad evitare di costruire dei modelli ideali che prescindano dall’analisi dello condizioni di fatto in cui si opera era citato di frequente a sostegno delle nuove analisi del sistema economico.
Riguardo alla spinosa questione del profitto, ad esempio, Liberman precisava che la sua utilizzazione nel socialismo non aveva nulla a che fare col capitalismo: «il profitto, quando siano pianificati i prezzi dei prodotti del lavoro e il reddito netto sia utilizzato a favore dell’intera società, è il risultato e nello stesso tempo il misuratore (in forma monetaria) dell’efficienza reale dell’impiego di lavoro» [22]. In condizioni di socializzazione dei mezzi di produzione, insomma, il profitto era il misuratore del lavoro effettivamente prestato, e non il frutto del plusvalore.
In un articolo apparso su «Voprosy ekonomiki» nel 1963, dal titolo Remunerazione dei fondi produttivi e profitto dell’azienda [23], gli economisti L. Vaag e S. Zakharov riprendevano questo problema, richiamandosi ad una controversia tra Bucharin e Lenin. Alla tesi di Bucharin, secondo cui il profitto agiva solo nel capitalismo mentre nel socialismo la produzione soddisfaceva direttamente i bisogni sociali, Lenin aveva replicato che anche il profitto, nelle condizioni del socialismo, soddisfaceva quei bisogni [24]. Si noti, per inciso, che le idee di Bucharin riprese da Vaag e Zakharov con accento denigratorio erano quelle del primo Bucharin, espresse soprattutto nel volume sull’Economia del periodo di trasformazione del 1920 [25]: il Bucharin successivo diventerà, infatti, uno dei più accesi fautori del connubio tra socialismo e mercato.
Queste analisi eludevano, tuttavia, la questione fondamentale. Se il profitto era ancora essenziale come molla per soddisfare i bisogni sociali, ne conseguiva che nel sistema sovietico non si realizzavano semplicemente beni ma si producevano merci. Il Capitale di Marx si apre, come è noto, con la celebre frase: «la ricchezza delle società, nelle quali predomina il modo di produzione capitalistico, appare come una immensa raccolta di merci» [26]. Secondo l’ideologia sovietica, la socializzazione dei mezzi di produzione costituiva il primo passo verso il superamento del sistema fondato sulla «produzione di merci a mezzo di merci». Perché, allora, a dispetto dell’ideologia ufficiale, le merci e i rapporti di mercato non erano in via di sparizione?
Il problema viene sfiorato da Nemcinov nell’articolo del ’64 esaminato poco fa. L’economista sovietico metteva in luce il legame tra i rapporti monetari-mercantili (un’espressione che molti preferivano rispetto a “rapporti di mercato” per evidenti ragioni ideologiche) e il processo di divisione del lavoro, che si approfondiva man mano che la struttura socio-economica – con le sue interne stratificazioni e interconnessioni – diventava più complessa.
Nel socialismo la moneta e la merce non esprimono l’appropriazione del prodotto addizionale e lo sfruttamento dei lavoratori, come nel capitalismo. Ma esse continuano ad esercitare anche nella società socialista una funzione importante. Quando si approfondisce il processo di divisione sociale (settoriale e territoriale) del lavoro, acquista importanza decisiva la produzione di merci destinate al consumo di altre cellule della società [27].
L’evoluzione del socialismo, con l’approfondimento della divisione sociale del lavoro e lo sviluppo dei consumi non portava, dunque, alla sparizione dei rapporti merce-moneta: semmai, apriva ad essi nuovi spazi.
Si trattava di un rovesciamento della concezione tradizionale dell’economia socialista, codificata nei Problemi economici del socialismo di Stalin [28]. In quest’opera, pubblicata nel 1952, Stalin aveva sostenuto che i rapporti mercantili permanevano soltanto nel settore dei beni di consumo (vendite delle fattorie allo Stato o ai singoli consumatori, vendite delle imprese al dettaglio ai consumatori), nella proprietà agricola ancora non statalizzata (si tratta delle fattorie collettive o kolchozy) e nel commercio con l’estero. I prodotti che non rientravano in queste sfere erano da considerarsi beni soggetti a scambi, e non merci. Per Stalin, dunque, l’economia era divisa in due branche. Alla prima appartenevano il settore della produzione colcosiana (unico settore in cui permanevano mercati liberi legalmente autorizzati) e quello della produzione e circolazione dei beni di consumo individuali: qui sopravvivevano, entro certi limiti, i rapporti di mercato e, dunque, agiva ancora la legge del valore. In questa sfera, pertanto, i pianificatori avrebbero tenuto conto dei rapporti di valore e della legge della domanda e dell’offerta. L’altra branca era costituita dal settore dei mezzi di produzione, dove la ripartizione e la destinazione dei beni si effettuava direttamente, attraverso l’allocazione amministrativa decisa in base a priorità destinate a soddisfare i bisogni sociali, senza l’influenza del mercato e della categoria del valore. La limitatezza del campo d’azione della legge del valore nell’URSS era garantita dalla conquista fondamentale del bolscevismo, la socializzazione di gran parte dei mezzi di produzione. Con la trasformazione dei kolchozy in sovchozy (fattorie statali), la fine della scarsità dei beni (che avrebbe ridimensionato il meccanismo domanda – offerta [29]) e l’estensione del socialismo negli altri paesi, sarebbe scomparsa la produzione mercantile e, con essa, la categoria del valore [30]. Intanto, comunque, la “legge dello sviluppo proporzionale dell’economia”, attuata grazie alla pianificazione, proteggeva il paese dall’anarchia della produzione tipica del capitalismo [31].
Nemcinov rifiutava questa concezione, rimproverandole di non tenere conto delle articolazioni interne di una struttura economica costituita da migliaia di cellule – le imprese e i consumatori individuali – relativamente indipendenti tra loro. Era la separazione tra unità produttive – le quali, in base ad una certa divisione del lavoro, producevano beni diversi ed avevano differenti necessità – a far sì che i rapporti fra tali unità tendessero a svolgersi attraverso la compravendita di merci [32]. La scarsità di beni che affliggeva l’economia sovietica contribuiva a rendere il ricorso al mercato ancora più impellente. I sostenitori della pianificazione ad ogni costo si erano illusi di poter eliminare il mercato, sostituendolo con un sistema di distribuzione di beni governato dal centro, ed avevano creduto in tal modo di costruire la “base materiale del comunismo”, ovvero l’abbondanza di beni. Ma i costi economici – senza parlare di quelli sociali – erano, appunto, troppo alti e come risultato si era avuta la scarsità invece che l’abbondanza. L’effetto era di spingere le aziende a produrre soltanto ciò che veniva imposto dal piano e non ciò che le diverse unità economiche (imprese o consumatori individuali), mosse da interessi differenti come differente era il loro reddito e il loro rispettivo ruolo nella produzione, richiedevano.
Come nota M. Lavigne, la concezione staliniana ebbe effetti deleteri nella formazione dei prezzi [33]. La destalinizzazione segnò in questo campo una svolta piuttosto radicale. La riscoperta del ruolo della legge del valore in tutti i settori dell’economia, compreso quello dei mezzi di produzione, fu al centro dei dibattiti già nel 1956: la teoria marxiana del valore venne utilizzata per attaccare la gestione amministrativa dell’economia, soprattutto nel campo della formazione dei prezzi. Nel 1959 l’Accademia delle Scienze nominò una commissione di economisti per discutere dell’argomento, in occasione della generale revisione dei prezzi che sarebbe iniziata l’anno dopo. In base al modello staliniano i prezzi avevano, nella maggioranza dei settori economici, una funzione soltanto di contabilità e di verifica [34]. Ma le proposte di riforma, accomunate dall’idea di conferire al profitto dell’azienda un ruolo di incentivo, richiedevano che i prezzi riflettessero la scarsità e l’utilità dei beni.
Su questo problema sorsero almeno tre scuole di pensiero [35]. La proposta più ‘ortodossa’ era sostenuta da S. Strumilin, un economista che nei decenni precedenti aveva appoggiato attivamente la pianificazione staliniana. Strumilin proponeva di fissare i prezzi proporzionalmente ai costi di lavoro dei prodotti (ovvero ai salari). Su posizioni più ‘eretiche’ si trovavano Novožilov e Kantorovic, che si rifacevano all’ impostazione dei marginalisti. L’analisi marginalista, tuttavia, partendo dal presupposto della soggettività del valore, si opponeva alla concezione “classica” (ricardiana e marxiana) dell’economia e, pertanto, veniva considerata con sospetto dalla maggior parte degli economisti sovietici. Maggiormente rispettosa dell’ideologia appariva la posizione di Nemcinov. Egli sosteneva l’inapplicabilità della teoria di Strumilin in un’economia avanzata, nella quale, ai fini dell’aumento della produttività, cresceva il ruolo degli investimenti di capitale. Per questo, i prezzi dovevano essere fissati aggiungendo al costo di produzione un surplus proporzionale all’ammontare dei capitali investiti. Per corroborare la sua tesi Nemcinov si richiamava al “prezzo di produzione”, che Marx aveva descritto nel terzo libro del Capitale come la forma trasformata del valore risultante dall’eguagliamento dei saggi di profitto tra i vari settori: l’economista sovietico sosteneva che tale forma di valore continuava a sussistere nel socialismo, sia pure con caratteristiche “sociali” differenti dal capitalismo.
La teoria dei prezzi di produzione veniva ripresa nell’opera Valore sociale e prezzo pianificato [36], pubblicata postuma nel 1969, cinque anni dopo la scomparsa dell’autore. La base teorica di partenza era analoga a quella espressa nell’articolo uscito su «Kommunist»: il sistema economico sovietico non costituiva una semplice somma di parti ma una pluralità di cellule con una loro autonomia e reciproche interconnessioni. Analizzando il processo di formazione delle valutazioni economiche, Nemcinov scriveva:
l’economia sociale diviene un’unica fabbrica e un unico ufficio, ma le sue singole componenti conservano autonomia patrimoniale. Le imprese statali ricevono a propria disposizione i fondi fissi e circolanti e sono responsabili della loro utilizzazione razionale e completa [37].
Nemcinov precisava che, come nel sistema capitalista descritto da Marx, anche nel socialismo la determinazione dei prezzi aveva carattere oggettivo e si sarebbe dovuta basare sulla forma trasformata del valore (ovvero sul prezzo di produzione): «la forma trasformata del valore sorge anche nelle condizioni del socialismo, in relazione alla necessità di realizzare o accumulare il valore del plusprodotto non solo in tutta la società, ma anche in ciascuna cellula produttrice»[38].
L’autonomia (non la totale indipendenza!) delle unità produttive era, dunque, per Nemcinov alla base delle analogie nella formazione dei prezzi tra capitalismo e socialismo, a prescindere dal carattere sociale o privato della proprietà[39].
Lo scontro tra conservatori e riformisti si giocava, dunque, anche nella maniera diversa di rifarsi a Marx.
Stalin citava della teoria marxiana del capitalismo solo quegli aspetti che, nelle condizioni di un socialismo ancora immaturo, egli riteneva fossero rimasti come residuo del vecchi rapporti di produzione. È il caso della legge del valore, la quale, come abbiamo visto, agiva secondo Stalin solo nei settori non completamente “socializzati”. Per il resto, però, Stalin diffidava esplicitamente dall’utilizzare, nell’analisi del socialismo, quei concetti che Marx aveva elaborato specificamente per studiare il capitalismo.
Marx analizzava il capitalismo per mettere in luce la fonte dello sfruttamento della classe operaia, il plusvalore, e dare alla classe operaia, priva di mezzi di produzione, l’arma spirituale per l’abbattimento del capitalismo. Si capisce che Marx si serve nel far ciò di concetti (categorie) che rispondono perfettamente ai rapporti capitalistici. Ma sarebbe più strano servirsi di tali concetti oggi che la classe operaia non solo non è priva di potere e dei suoi mezzi di produzione, ma al contrario, ha nelle sue mani il potere e possiede i mezzi di produzione [40].
Ad esempio, era assurdo secondo Stalin usare la categoria “merce” in riferimento alla forza lavoro sovietica: come poteva la classe operaia, padrona dei mezzi di produzione, vendere se stessa come forza lavoro?
Nemcinov, al contrario, riprendeva Marx per evidenziare che, contrariamente ai dogmi ideologici, anche nel socialismo permanevano alcune categorie (la merce, il prezzo di produzione, il ruolo non soltanto “contabile” della moneta) usate da Marx per descrivere il capitalismo.
Per Stalin l’equazione «socializzazione dei mezzi di produzione = fine della soggezione della classe operaia» costituiva una realtà indiscutibile. Nella sfera in cui la collettività era padrona dei mezzi di produzione non potevano esistere contrasti di interesse oggettivi. Ma era proprio tale interpretazione semplificata della teoria marxiana che si incrinava progressivamente nel pensiero economico sovietico degli anni Sessanta.
Date queste premesse, perché le imprese tendevano così frequentemente ad aggirare le direttive della pianificazione? Si trattava di un comportamento riducibile a errori di singoli o non era piuttosto un segno oggettivo di un contrasto fra interessi divergenti? Se questa ultima ipotesi era confermata, come era possibile che si sviluppasse un conflitto di interessi in un contesto di socializzazione dei mezzi di produzione? La questione è affrontata da O. Antonov, un ingegnere aeronautico autore di un interessante libro sulle storture del sistema pianificato pubblicato in URSS nel 1965 [41].
«A quanto pare – scriveva Antonov – la proprietà sociale dei mezzi di produzione, che in complesso e in sostanza garantisce la comunanza di interessi dei produttori, consente al tempo stesso l’esistenza di certe contraddizioni, di certi contrasti di interesse. E’ evidente che la proprietà sociale dei mezzi di produzione elimina automaticamente solo le contraddizioni connesse alla proprietà privata dei mezzi di produzione. Ma non elimina assolutamente le contraddizioni che la forma stessa di proprietà dei mezzi di produzione comporta» [42].
Evitare di analizzare questi aspetti o ricondurli a cause soltanto soggettive era giustamente considerato dall’autore come un comportamento profondamente antimarxista. Antonov citava Engels: «le cause sociali messe in movimento dagli uomini avranno in misura predominante e sempre crescente le conseguenze che essi desiderano»[43]. Far finta di niente, dunque, poteva essere molto pericoloso.
Ma da dove derivavano quei contrasti inerenti alla «forma stessa di proprietà», che nemmeno la socializzazione era riuscita a liquidare? Per quale ragione l’obiettivo di una convergenza tra l’interesse del singolo e quello dell’azienda da un lato e l’interesse dello Stato dall’altra non era stato raggiunto? Per rispondere a questa domanda, Antonov avrebbe dovuto analizzare le caratteristiche della nazionalizzazione come forma di socializzazione e la posizione di chi gestiva (ovviamente per conto dei lavoratori!) i mezzi di produzione. Si trattava di passare, quindi, da un esame limitato solo alle teorie e ai processi economici ad uno studio sul ruolo del partito comunista e dei suoi apparati nella gestione dell’economia. È facilmente comprensibile come tali questioni fossero di difficile trattazione in URSS. Su questi aspetti i teorici sovietici rimasero indietro rispetto ai loro colleghi jugoslavi e polacchi [44]. La destalinizzazione chrusceviana, del resto, aveva sì eliminato il terrore di massa, ma non certo il regime di polizia; né si era mai messo in discussione il ruolo del partito nella gestione dell’economia.
Alla fine degli anni ’60, tuttavia, alcuni autori, pur senza arrivare ad un’analisi critica della burocrazia partitica, sviscerarono più compiutamente il problema del rapporto tra la pluralità di interessi sociali e la forme sovietica di proprietà socialista.
Una delle prime teorie organiche sui rapporti tra economia e politica nel sistema sovietico fu fornita dall’esperto di diritto V.P. Škredov, autore del testo Ekonomika i pravo (Economia e diritto): si tratta di un’opera assai poco conosciuta in occidente e mai tradotta dal russo, la cui importanza viene però particolarmente sottolineata da Lewin [45]. Servendosi dell’analisi marxiana, Škredov mostrava la contraddizione tra rapporti di proprietà e rapporti di produzione. La concezione sovietica ortodossa si basava sull’idea che il cambiamento, avvenuto grazie alla collettivizzazione, nel soggetto che deteneva la proprietà comportasse quasi automaticamente un mutamento nel modo di produzione. In questo modo, tuttavia, si sarebbe dovuta ammettere la preminenza dei rapporti di proprietà (di natura giuridica e, quindi, formale) rispetto ai rapporti di produzione (di carattere economico, dunque sostanziale). Per assurdo, quindi, anche in una società tecnologicamente poco avanzata la proprietà sociale dei mezzi di produzione avrebbe garantito la nascita di forme produttive di ricchezza simili a quelle di una società industriale. Un’idea del genere aveva assai poco a che spartire non solo con Marx, ma anche con il materialismo storico più spicciolo.
Škredov non negava al diritto una certa importanza: il suo ruolo nella vita economica si faceva sentire nella misura in cui era sostenuto dall’autorità statale. Ma, come avevano sostenuto Marx ed Engels, lo Stato difficilmente poteva ostacolare i mutamenti nei rapporti di produzione: se avesse tentato di farlo, i risultati sarebbero stati, alla lunga, controproducenti per la sua stessa sopravvivenza e disastrosi per lo sviluppo economico. Il potere statale, che fosse esercitato con il diritto o con la forza, aveva la possibilità di promuovere i rapporti produttivi che scaturivano dall’evoluzione economica – modificando ad esempio la distribuzione della risorse, come era avvenuto dopo la rivoluzione – ma non quella di creare nuovi modi di produzione.
L’impostazione di Škredov forniva strumenti preziosi per spiegare il problema della sopravvivenza di interessi contrastanti in un regime socialista. Se la produzione non coincideva con la proprietà, era perfettamente comprensibile che quest’ultima assumesse forme diverse: la proprietà cooperativa o anche quella personale non erano meno “socialiste” della proprietà statale. Quanto alla sopravvivenza dei rapporti merce-moneta, questa era dovuta al fatto che la socializzazione formale-giuridica si era svolta prima che la trasformazione della forma capitalistica di produzione nel nuovo modo socialista fosse pienamente compiuta. L’arretratezza tecnico-produttiva del paese faceva sì che si sovrapponessero due tipi di rapporti. Nei settori più avanzati, laddove si era raggiunto un elevato grado di interdipendenza tra le diverse unità produttive, il rapporto fra queste si svolgeva proficuamente attraverso una gestione centralizzata, senza bisogno di rapporti di mercato. Nei settori in cui l’interdipendenza tra le imprese era ancora scarsa, era inevitabile che le unità produttive allacciassero, fra loro e con lo Stato, rapporti mercantili. Anziché ostinarsi a ridurre il secondo tipo di rapporto al primo attraverso misure coercitive che alla lunga sarebbero risultate scarsamente efficaci, Škredov proponeva di lasciare ai rapporti di mercato lo spazio che era consentito loro dal livello raggiunto di sviluppo produttivo.
Tentare immediatamente il passaggio a rapporti di produzione basati sullo scambio diretto dei beni, senza tenere conto delle esigenze delle unità produttive, avrebbe prodotto soltanto danni all’economia e, oltretutto, non sarebbe stato per nulla conforme alla concezione marxiana della costruzione del socialismo. Quando l’azione politica, infatti, si svolgeva indipendentemente dalla configurazione del processo produttivo, si cadeva inevitabilmente nel «volontarismo». La pianificazione, pertanto, doveva svolgersi in un quadro giuridico rispettoso dell’autonomia effettiva dell’azienda, e non diventare essa stessa una norma coercitiva. La prassi dimostrava ampiamente, del resto, che il monopolio statale della proprietà non assicurava affatto il controllo reale sulla produzione. Constatata la pluralità di interessi differenti, frutto di una società in cui convivevano rapporti produttivi di diverso tipo, secondo Škredov non era affatto contrario al socialismo «far partecipare le grandi masse lavoratrici al monopolio delle risorse (introducendo anche l’appropriazione del plusprodotto da parte degli individui)» [46]. Come si vede, le idee già espresse da Nemcinov ricevevano ora una base teorica ancora più salda.
Il trattato di Škredov si manteneva su un piano abbastanza astratto, evitando di scendere in proposte specifiche. La sua analisi, tuttavia, scardinava molti presupposti che giustificavano la configurazione assunta dal sistema sovietico. La funzione del partito-stato (nei paesi socialisti, come anche nella grande maggioranza delle dittature a partito unico del ’900 le due istituzioni erano difficilmente distinguibili con chiarezza) veniva, di fatto, messa in discussione. Se lo Stato doveva rinunciare alla pretesa di forzare l’evoluzione economica pretendendo di creare rapporti di produzione non rispondenti alle condizioni del paese, la sua interferenza nell’attività economica delle aziende andava drasticamente ridimensionata. Per Škredov lo Stato doveva passare dall’amministrazione dell’economia alla sua direzione tramite gli strumenti legislativi. Il partito avrebbe conservato un ruolo guida, a condizione di rispettare le regole previste dal suo statuto e le leggi vigenti [47].
Una problematica del genere allargava di molto la prospettiva delle riforme: l’analisi critica non si limitava più ai rapporti tra Stato e singole unità produttive ma investiva le strutture della società sovietica nel loro complesso. Per ottenere cambiamenti incisivi e duraturi non era sufficiente una politica di riforme guidata dall’alto ma occorreva un cambiamento radicale nelle strutture politiche. Alla fine degli anni ’60 la questione che emergeva maggiormente, sia pure in maniera non sempre esplicita, riguardava proprio il ruolo del partito-stato: il dibattito, da economico che era all’inizio, diventava anche politico. Se da un lato i conservatori combattevano le riforme promosse da Kosygin paventando il pericolo di una diminuzione del controllo del partito sulla società e portando come esempio negativo la “primavera di Praga” di Dubcek, dall’altro gli innovatori, delusi dal progressivo arenarsi delle riforme, si rendevano conto che nessun processo di riforma poteva risultare efficace senza una radicale revisione del ruolo guida del partito e una generale liberalizzazione della società [48]. Tale ‘sconfinamento’ dall’economia alla politica apriva prospettive molto più vaste al dibattito ma si scontrava con l’indirizzo conservatore impresso da un gruppo dirigente sempre più dominato dalla figura di Brežnev e da correnti di partito conservatrici o addirittura neo-staliniste. Tuttavia, come già notava Lewin nel suo lavoro del ’74, il dibattito degli anni ’60 aveva inaugurato, sotto molti aspetti, «tendenze irreversibili nella vita economica del paese» [49]. Poco più di dieci anni dopo e, con la perestrojka, molti dei temi affrontati negli anni ’60 – in primis la problematica del rapporto tra riforme economiche e riforme politiche – ritorneranno in auge.
Ci preme sottolineare, infine, un ultimo aspetto. All’inizio avevamo notato come i riformatori sovietici nella loro critica al modello staliniano di socialismo non avessero modelli precisi a cui rifarsi. Tuttavia, come viene ripetutamente sottolineato da Lewin [50], vari esponenti del dibattito si richiamavano di frequente, specialmente a partire dalla fine degli anni ’60, alla NEP, la politica economica, avviata a partire dalla primavera del 1921 e proposta dallo stesso Lenin, che permetteva l’esistenza della piccola proprietà privata ed, entro certi limiti, delle relazioni di mercato. Tale sistema di economia mista capace di coniugare piano e mercato appariva a molti come un esempio da seguire.
L’economista A. Birman, ad esempio, nell’articolo Sulla riforma, pubblicato nel 1968 su «Novyi Mir», ricostruendo le ragioni delle proposte riformistiche, ricordava che Lenin – che pure nel periodo rivoluzionario non aveva scartato la possibilità di introdurre lo scambio diretto dei prodotti senza la mediazione del mercato – alla fine della guerra civile, «sulla base di un’analisi conseguentemente marxista dello sviluppo dell’economia nazionale, giunse alla conclusione che non si poteva abbattere il capitalismo con un “attacco di guardie rosse”, che era necessario un cammino più lento, ma allo stesso tempo più realistico che ci avrebbe condotto con successo sulla via del socialismo proprio sfruttando il commercio, la finanza, il credito, ecc.» [51]. Birman si riferiva probabilmente ai discorsi e agli scritti di Lenin del periodo 1921-23, in cui il leader sovietico aveva difeso la NEP come l’unico modello in grado di garantire la tenuta del potere bolscevico e lo sviluppo economico, facendo leva sugli incentivi personali e il calcolo economico [52]. Pensare di liquidare il mercato subito dopo la presa del potere si era rivelato pericolosamente illusorio. Occorreva, invece, dare spazio alle spinte dal basso, potenziando al tempo stesso gli strumenti regolativi dello Stato. Come è noto, all’inizio Lenin aveva presentato il nuovo modello come una «ritirata strategica» rispetto alle prospettive del socialismo [53]. Man mano che l’esperimento economico andava avanti, tuttavia, Lenin, anziché preparare la ‘controffensiva’, continuava a difendere il ruolo del mercato e degli incentivi materiali, come fece, ad esempio, in uno dei suoi ultimi scritti, Sulla cooperazione, apparso sulla «Pravda» nel maggio 1923, più di due anni dopo l’avvio della NEP [54]. Su queste basi i riformisti contestavano l’idea che la NEP fosse spiegabile soltanto come un rimedio temporaneo alla crisi economica del dopoguerra o allo scarso consenso del partito presso i contadini. Essa si configurava, dal loro punto di vista, come un modello radicalmente alternativo rispetto a quello perseguito a partire dalla fine degli anni ’20 e, per molti aspetti, ancora valido per il presente [55].
Il contesto in cui la NEP fu concepita era ovviamente assai diverso da quello degli anni Sessanta. Per Lenin il problema primario era ridare slancio ad un’economia prostrata dalla guerra. Per i nuovi riformatori, si trattava, invece, di rivitalizzare una struttura economica soffocata non da un conflitto ma dalla permanenza di un modello di un’economia di guerra sui generis, come l’economista polacco marxista O. Lange aveva definito l’economia staliniana [56]. In entrambi i casi, però, veniva abbandonata l’idea di realizzare il socialismo attraverso la distruzione dei rapporti di mercato e la creazione di un’economia totalmente amministrata dal centro. La riscoperta della NEP intesa come elaborazione di un modello diverso di socialismo – e non come semplice parentesi temporanea come sostenuto dalla versione ufficiale – e il richiamo a Lenin che l’aveva fortemente voluta, costituivano, quindi, una valida giustificazione ideologica delle nuove proposte di riforma da contrapporre al conservatorismo della dirigenza brežneviana e alle tendenze neo-staliniste. A partire dalla fine degli anni ’60 fino alla prima metà degli anni ’80 la prevalenza delle correnti conservatrici, il lento ma progressivo accantonamento del processo riformistico e l’irrigidimento della censura contribuirono, se non ad arrestare il dibattito, quantomeno a togliergli quegli sbocchi pratici che gli avevano dato impulso all’inizio. Come già sottolineato, tuttavia, numerosi aspetti del dibattito furono ripresi durante la perestrojka. In entrambi i casi, fatte salve le numerose differenze di ordine politico ed economico, la rivisitazione del modello della NEP e degli scritti di Lenin del periodo 1921-23 giocarono un importante ruolo, la cui analisi potrebbe costituire materia interessante per lo studio non solo della storia dell’Unione Sovietica ma, più in generale, dell’intero pensiero economico socialista.
Note
[1] A. Nove, L’economia sovietica, Milano, Edizioni di Comunità, 1963 (ed. orig. London 1961); Id., Stalinismo e antistalinismo nell’economia sovietica, Torino, Einaudi, 1968 (ed. orig. London 1964); Id., Storia economica dell’Unione Sovietica, Torino, UTET, 1969 (ed. orig. London 1969); Id., The Soviet Economic System, London, G. Allen & Unwin, 1980; L’economia di un socialismo possibile, Roma, Editori Riuniti, 1986 (ed. orig. London 1983).
[2] M. Lavigne, Le economie socialiste europee, Roma, Editori Riuniti, 1975 (ed. orig. Paris 1974).
[3] R. di Leo, Operai e sistema sovietico, Roma-Bari, Laterza, 1970; id., L’economia sovietica tra crisi e riforme (1965-1982), Napoli, Liguori, 1983.
[4] M. Lewin, Economia e politica nella società sovietica. Il dibattito economico in URSS da Bucharin alle riforme degli anni Sessanta, Roma, Editori Riuniti, 1977 (ed. orig. Princeton and London 1974).
[5] Sugli sviluppi e sugli esiti delle riforme cfr. M. Ellman, Economic Reform in the Soviet Union, London, PEP, 1969; G. Salvini, La riforma economica in Unione Sovietica, «Est», 2/1970; Lavigne, Le economie socialiste cit., 108-13; P. Bernocchi (ed.), Le “riforme” in URSS. Da Liberman al XXV Congresso del PCUS, Milano, La Salamandra, 1977 (con una ricca appendice di documenti); di Leo, L’economia sovietica tra crisi e riforme, cit.
[6] Per un quadro comparato delle riforme nei paesi dell’Est cfr. soprattutto Lavigne, Le economie socialiste cit. Per il contesto politico nel quale le riforme furono elaborate cfr. F. Fejto, Storia delle democrazie popolari. Il dopo Stalin 1953-1971, Milano, Bompiani, 1977 (ed. orig. Paris 1972).
[7] Cfr. Nove, L’economia di un socialismo possibile cit., 120.
[8] V. Novožilov, S. Strumilin et al., La riforma economica nell’URSS, Roma, Editori Riuniti, 1969 (ed. orig. Mosca 1968), 3 - 33.
[9] M. Lewin, Economia e politica cit, 164.
[10] Cfr. E. Liberman et al., Piano e profitto nel socialismo, a cura di L. Foa, Roma, Editori Riuniti, 1965, 19-28.
[11] Ibid., 19 (corsivo nel testo).
[12] Ibid., 24. Cfr. Vaag-Zakharov, ibid., 49; Nemcinov, ibid., 73; Sckatov, ibid., 128; Leontiev, ibid., 135. Vedi anche O. Antonov, La pianificazione sovietica, Firenze, Vallecchi, 1968 (ed. orig. Mosca 1965). Il titolo originale dell’opera è Dlija vesch i dlija sebja ovvero Per tutti e per sé, indicando ironicamente la contrapposizione di interessi e la tendenziale anarchia produttiva che si celavano dietro la proclamata unità di intenti tra imprese e Stato.
[13] Liberman et al, Piano e profitto cit., 26.
[14] Ibid., 21 (corsivo nel testo).
[15] Ibid., 29-35.
[16] Ibid., 30.
[17] Ibid., 68-90.
[18] Ibid., 71.
[19] Ibid., 74-75.
[20] Ibid., 76.
[21] Ibid., 79.
[22] Ibid., 24.
[23] Ibid., 49-67.
[24] Ibid., 65.
[25] N. Bucharin, Economia del periodo di trasformazione, Milano, Jaka Book, 1971 (ed. orig. Mosca 1920).
[26] K. Marx, Il capitale. Critica dell’economia politica, Roma, Newton e Compton, 2005, I:54.
[27] Liberman e al., Piano e profitto cit., 76.
[28] Stalin, Problemi economici del socialismo, Roma, Rinascita, 1953 (ed. orig. Mosca 1952).
[29] L’idea secondo cui il ruolo della domanda e dell’offerta si sarebbe ridotto con lo sviluppo del socialismo a favore di un sempre maggiore equilibrio si ritrova in molti teorici sovietici, anche di impostazione riformista. Cfr. ad es. Nemcinov, Valore sociale e prezzo pianificato, Roma, Editori Riuniti,1977 (ed. orig. Mosca 1970), 264.
[30] Stalin, Problemi economici cit., 18-36. L’opera di Stalin assumeva una posizione intermedia fra la tradizione “liquidazionista”, che negava la permanenza della legge del valore e delle stesse leggi economiche oggettive nel socialismo, e la tesi, diventata maggioritaria dopo la morte di Stalin, che sosteneva la presenza delle categorie del valore in tutti i settori dell’economia socialista.
[31] Ibid., 32.
[32] Il legame tra separazione delle aziende e permanenza di rapporti monetari-mercantili fu sostenuto anche nel lavoro di V. Lopatkin Tovarniye otnošenija i zakon stoimosti pri sotsialisme [I rapporti mercantili e la legge del valore nel socialismo] pubblicato a Mosca nel 1963. Cit. in Lewin, Economia e politica, 166 e 179 nota 27.
[33] Lavigne, Le economie socialiste cit., 330-34.
[34] Stalin, Problemi economici cit., 68-73.
[35] Cfr. Lavigne, Le economie socialiste cit., 334-40; di Leo, L’economia sovietica tra crisi e riforme cit., 177-83.
[36] Nemcinov, Valore sociale cit., soprattutto 65-74. Per una rassegna delle diverse posizioni sulla forma trasformata del valore, 94-103. Cfr. anche Id., Piano valore e prezzi, Roma, Editori Riuniti, 1978, 10-26 e 41-44.
[37] Nemcinov, Valore sociale cit., 242-43 (corsivo nostro). L’espressione che qualifica l’economia sociale come «unica fabbrica e unico ufficio» è una citazione da Lenin. Cfr. Lewin, Economia e politica cit., 166 e 179 nota 27.
[38] Nemcinov, Valore sociale cit., 245 (corsivo nostro).
[39] L’utilizzo del prezzo di produzione marxiano, in modo da includere nel prezzo una più precisa valutazione dei fondi fissi e circolanti investiti, veniva sostenuto anche da L. Leontiev nell’articolo Piano e direzione economica («Pravda», settembre 1964). Cfr. Liberman e al., Piano e profitto cit., 138-39. Leontiev riprendeva esplicitamente la teoria marxiana, usandola per confutare le obiezioni che gli venivano poste.
[40] Stalin, Problemi economici cit., 27-28 (corsivo nostro).
[41] O. Antonov, La pianificazione sovietica cit.
[42] Ibid., p. 31 (corsivo nostro).
[43] Ibid., p. 33.
[44] Una critica del sistema burocratico che fece scalpore, anche perché a scriverla era uno dei più importanti collaboratori del leader socialista jugoslavo Tito, fu quella di Milovan Gilas. Cfr. M. Gilas, La nuova classe. Un’analisi del sistema comunista, Bologna, il Mulino, 1957 (ed. orig. New York 1957). Un’altra opera importante, di carattere prettamente economico, è del polacco Wlodzimierz Brus. Cfr. W. Brus, Il funzionamento dell’economia socialista. Problemi generali, Milano, Feltrinelli, 1963 (ed. orig. Varsavia 1961). L’autore, che godeva del clima “liberale” (se confrontato con gli altri paese socialisti), metteva a confronto due modelli (centralizzato e decentralizzato) di socialismo.
[45] Lewin dedica al libro di Škredov uno spazio piuttosto consistente, con numerose citazioni. Cfr. Lewin, Economia e politica cit., 189-202.
[46] Cit. in Lewin, Economia e politica cit., 215.
[47] Ibid., 224-25.
[48] Cfr. R. Medvedev, La democrazia socialista, Firenze, Vallecchi, 1977 (ed. orig. Paris 1972). L’opera, frutto delle ricerche e della riflessione di uno storico sovietico che fu anche uno dei più importanti dissidenti di quel periodo (pur mantenendo, a differenza di molti altri, un’impostazione marxista), rimane una delle trattazione più complete sui problemi della democratizzazione del sistema sovietico.
[49] Lewin, Economia e politica cit., 177.
[50] Ibid., soprattutto 5-14 e 288-98.
[51] A. Birman, V. Novožilov, Gestione economica e socialismo, Roma, Editori Riuniti, 1970, 42-43. Per l’economista G. Lisickin, autore nel 1966 di Plan i rynok [Piano e mercato] la NEP costituiva l’unico sistema di rapporti economici da seguire sino all’epoca del pieno sviluppo del comunismo. Cfr. Lewin, Economia e politica cit., 289.
[52] Cfr. soprattutto la Relazione presentata alla seduta del 29 ottobre 1921 alla VII Conferenza del Partito del Governatorato di Mosca, in Lenin, Opere complete, Roma, Ed. Riuniti,1967, 33: 67-84. Cfr. anche la Relazione presentata il 13 novembre 1922 al IV Congresso dell’Internazionale comunista, ibid., 384-97. Un altro importante sostenitore della NEP fu N. Bucharin, uno dei maggiori leader del bolscevismo. Inizialmente sostenitore della tesi sulla sparizione delle categorie del mercato e del valore nel socialismo (Economia politica di transizione cit. ), Bucharin modificò radicalmente le sue posizioni. Nella celebre polemica con E. Preobraženskij del 1925-26 sostenne la necessità di procedere gradualmente sulla strada dell’industrializzazione, attraverso la combinazione tra il piano e l’azione controllata delle forze di mercato (cfr. N. Bucharin, E. Preobraženskij, L’accumulazione socialista, a cura di L. Foa, Roma, Editori Riuniti, 1969). Vittima delle purghe di staliniane, Bucharin fu riabilitato soltanto con Gorbacëv: questo spiega perché non venga mai ricordato, se non con accento denigratorio, dai riformisti degli anni Sessanta.
[53] Cfr. Lenin, Rapporto al II Congresso dei Centri di educazione politica, in Opere complete cit., 33: 49. Cfr. anche la Relazione per la VII conferenza del Governatorato di Mosca, 33: 79, dove Lenin esortava ad applicare più largamente il nuovo modello: «Dobbiamo ammettere che non ci siamo ritirati abbastanza, che dobbiamo ritirarci ancora, fare ancora un passo indietro passando dal capitalismo di Stato all’instaurazione della compravendita e della circolazione del denaro disciplinate dallo Stato». Nella conclusione del discorso, p. 90, Lenin, dopo aver sottolineato l’importanza dl calcolo economico, così risponde alle obiezioni che gli venivano poste: «Dove sono i limiti della ritirata? […] Questa questione è posta male perché soltanto l’ulteriore attuazione della nostra volta permetterà di dare una risposta».
[54] Lenin, Sulla cooperazione, ibid., 428-35. Lenin rivaluta il ruolo delle aziende cooperative, prima guardato con sospetto dai bolscevichi, spingendosi a definire il socialismo come «regime dei cooperatori civili». Una concezione ben diversa da quella espressa anni prima dallo stesso Lenin quando aveva paragonato l’economia socialista ad «un’unica grande fabbrica, un unico grande ufficio». Vedi nota 38.
[55] Su questa lettura storiografica e sul ruolo che aveva per i riformatori, cfr. Lewin, Economia e politica cit., soprattutto 8-10, 120-21 e 288-98. Cfr. anche Szamuely, op. cit., 41-43 e 124-25.
[56] Cit. in Nove, L’economia sovietica cit., 177-78.
L. Bufarale, Per un socialismo di mercato.
Aspetti del dibattito economico in URSS negli anni Sessanta, «Storicamente», 2 (2006), http://www.storicamente.org/05_studi_ricerche/02bufarale.htm