Non vogliamo più essere un "popolo oggetto"
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Haiti Liberté 13/19 gennaio 2010
Non vogliamo più essere un “popolo oggetto”
di Berthony Dupont
Haiti è indipendente da quasi 206 anni e il paese continua a soffrire tutti i mali della schiavitù e del colonialismo, prodotti dalla dominazione brutale e insidiosa dei paesi imperialisti. Tutto ciò discende dal ruolo pernicioso che la United States Agency for International Developpment (USAID) – agenzia USA, ndt - ha svolto tra le masse popolari haitiane e dalla sua onnipresenza in ogni sfera di attività, sociale, sportiva, culturale, educativa e anche politica. L’espressione della sua dominazione fino a un certo punto ideologica, è adesso di natura tecnologica, nell’ambito di un processo di alienazione diretta a impedirci di sollevare la testa, di essere capaci di combattere i nostri nemici. E’ chiaro che la presenza della Minustah dopo il colpo di Stato del 2004 serve a rassicurare i capitalisti, soprattutto gli USA, bastione e forza principale del colonialismo contemporaneo, e per garantire una certa stabilità che consenta loro di raggiungere senza ostacoli i loro obiettivi. Parallelamente il presidente Préval si è impegnato in una intensa attività di propaganda alienante, una specie di ossigeno per la loro famosa, per quanto infame, formula di stabilità, che serve a imporci la loro civiltà, le loro pratiche, la loro ideologia, il loro modo di agire e vivere.
Certo l’imperialismo è potente ma, nonostante tutti i suoi soldi, non ha potuto finora comprare la coscienza di un intero popolo per riabilitare ciò che non può essere riabilitato, cioè la colonizzazione. Così è importante organizzarci, fare fronte comune contro questo crudele Samson. Occorre che noi ci impegniamo coscientemente e risolutamente in una impresa storica che sia un’urgenza del quotidiano ed anche un’esigenza per cambiare il futuro del paese. Se dopo l’occupazione del 2004 non vi è stato alcun fronte comune per combattere le forze straniere, ciò non è perché noi non siamo più il popolo nelle cui vene scorre il sangue di Dessalines (Jean-Jacques Dessalines, capo della rivolta degli schiavi e primo imperatore di Haiti, ndt) e di Péralte (Charlemagne Péralte, eroe della rivolta contro l’occupazione USA, ucciso dai marines inchiodato ad una porta, ndt), e ancor meno perché siamo un “popolo oggetto” incapace di pensare, di organizzarsi, addirittura di dirigere il proprio destino nazionale.
Noi dobbiamo riprenderci per porre fine a questo brutto gioco. Noi che con la nostra storia abbiamo dimostrato che non vogliamo essere schiavi dei nuovi coloni, noi dovremo aggregarci alle forze progressiste rivoluzionarie del paese, anche quando sono allo stato embrionale. Non mancano gli esempi di azioni concrete da incoraggiare e che riflettono bene ciò che le masse sentono. Le manifestazioni dello scorso 28 luglio 2009 contro l’occupazione del paese, quella del 1 gennaio 2010 e l’organizzazione di un’assemblea popolare il 10 gennaio 2010, con l’organizzazione popolare PLONBAVIL, una coalizione di diverse organizzazioni di impiegati vittime del piano neoliberale, sono alcune delle prove del fatto che il popolo haitiano non è un “popolo oggetto”. Assume delle iniziative, sa quel che vuole, vuole essere insieme oggetto e soggetto della sua liberazione e del suo sviluppo.
Una tale prospettiva è più che mai all’ordine del giorno dopo la terribile tragedia che ha colpito il paese il 12 gennaio 2010, L’orrore e l’estensione della distruzione sismica è insopportabile, addirittura rivoltante. Il popolo haitiano che ha tanto sofferto, in questi sei ultimi anni, dell’incoscienza e della cupidigia di questi dirigenti non merita una simile cataclisma. All’impossibilità fino ad oggi di formare un fronte solido e unito contro l’ingiustizia, occorre ricostruire, letteralmente, una intera capitale, se non una gran parte del paese. Ci servirà allora tantissimo coraggio e volontà per superare questa crudele avversità, tanto più che i paesi capitalisti maggiormente sfruttatori delle ricchezze del sottosuolo haitiano vogliono venire ipocritamente in nostro “soccorso”. Non che noi rifiutiamo con uno schiaffo il loro aiuto, no, ma lo vogliamo fraterno, disinteressato. Ci auguriamo che non sia l’occasione tanto attesa di soggiogarci irrimediabilmente alla loro dominazione, perché noi non abbiamo altro se non le nostre mani e la nostra dignità di popolo per ricostruire un paese completamente distrutto.
Spetta al popolo di riprendere il coraggio a quattro mani per rinascere dopo il cataclisma naturale e costruire il futuro del paese, perché il cammino della storia è irreversibile. E la stessa Comunità internazionale quando vuole offrirci il suo aiuto deve mettersi bene in testa che solo le “magiche mani del popolo” potranno salvare il paese dal disastro morale, sociale ed economico cui l’hanno condotto coloro che si spacciano per gli “amici” di Haiti.