I misteri dell'era di Mohammed VI
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TelQuel, 26 novembre – 2 dicembre 2011 (trad. Ossin)
I misteri dell’era di Mohammed VI
Dall’assassinio di Hicham Mandari al complotto contro Khalid Oudghiri, passando per l’incendio dell’edificio del DST, le dimissioni a sorpresa di Fouad Ali El Himma o, più di recente, la caduta del C130 militare. TelQuel elenca e getta una nuova luce sulle vicende più emblematiche e indubbiamente più misteriose dell’era di Mohammed VI e di un potere feudale
La soppressione della libertà di coscienza (dal testo della nuova Costituzione)
I FATTI. In una versione della Costituzione, presentata ai partiti politici nel giugno scorso, era inserita nero su bianco la nozione di “libertà di coscienza”. Ma quando viene reso pubblico il progetto della legge fondamentale (prima della sua adozione per referendum), questa libertà individuale risulta bellamente soppressa. Frattanto il segretario generale del PJD, Abdelilah Benkirane, aveva minacciato di votare NO alla futura Costituzione se avesse contenuto della novità produttive di “conseguenze nefaste sull’identità islamica del Marocco”.
LA VERSIONE UFFICIALE. Il PJD ha sempre negato di avere esercitato pressioni dirette sulla Commissione incaricata della revisione della Costituzione, presieduta da Abdeltif Menouni. Diversi esponenti del partito islamista hanno peraltro affermato che la stessa Commissione era divisa su questa questione. Volendo dimostrare di non essere liberticida, il PJD ha sostenuto che, in ogni caso, il riferimento alla libertà di coscienza era formulato in maniera restrittiva. Era scritto che avrebbe dovuto esercitarsi nell’ambito della legge e senza ledere l’ordine pubblico.
LE ZONE D’OMBRA. Alcuni osservatori hanno accusato il PJD di avere orchestrato la sua levata di scudi in accordo col Palazzo. A riprova suggeriscono che l’inserimento della libertà di coscienza nella nuova Costituzione avrebbe indebolito quel pilastro dell’islam sul quale poggia la monarchia. Il ritiro della libertà di coscienza permette così a Mohammed VI di conservare intero il suo potere religioso di Comandante dei credenti. Anche la poca trasparenza che ha caratterizzato la votazione della Commissione Menouni ha confermato i dubbi sull’effettivo intento del Potere di inserire davvero nella legge fondamentale del regno questa pietra angolare delle libertà individuali. Il giorno in cui questo punto è stato esaminato, infatti, nove membri della Commissione avrebbero votato per l’iscrizione della libertà di coscienza nel nuovo testo e nove contro. Nessuna maggioranza è stata raggiunta a causa dell’assenza inspiegabile del 19° membro. E la soluzione sarebbe stata adottata infine dietro le mura impenetrabili del Palazzo reale.
L’assassinio di Hicham Mandari
I FATTI. L’uomo, che si presentava come “consigliere speciale di Hassan II”, viene ucciso con un proiettile alla nuca il 4 agosto 1999, in un parcheggio sotterraneo di un complesso residenziale vicino a Malaga. Prima di essere ucciso, Hicham Mandari aveva minacciato la monarchia di rivelazioni sensazionali sulla fortuna del defunto re. Era anche sotto inchiesta per diversi fatti nell’ambito di un traffico di falsi dinari del Bahrein, per un totale di 350 milioni di euro.
LA VERSIONE UFFICIALE. Si è ritenuto, in un primo tempo, che l’assassino fosse un certo Hamid Boubadi. Quest’ultimo era sospettato di avere teso una trappola a Mandari in Malaga, facendogli balenare un affare di diamanti, prima di assassinarlo per un debito non pagato. Gli indizi sono costituiti da un video delle telecamere di sorveglianza dell’aeroporto di Malaga che mostra il presunto assassino in compagnia di Mandari, qualche ora prima dell’omicidio. Hamid Boubali è stato poi del tutto prosciolto da ogni sospetto.
LE ZONE D’OMBRA. Essendo fuggito dal paese nel 1998, dopo aver rubato degli assegni dalla cassaforte di Hassan II, Hicham Mandari ha sempre affermato di possedere dei documenti sulla fortuna del defunto re e minacciato di svelare molti segreti di corte. Sosteneva anche di essere il figlio di Hassan II e della sua favorita nell’harem. Frequentatore abituale della cerchia ristretta, era il protetto di Mohamed Mediouri, l’ex responsabile della sicurezza reale. Elemento che sembra rendere credibili le sue minacce. Presentandosi come il nemico numero 1 degli Alauiti, Hicham Mandari ha assunto un ruolo di oppositore di circostanza del regime, creando ad esempio il Comitato nazionale dei Marocchini liberi. Ha affermato di essere stato per due volte vittima di tentativi di assassinio, motivati, secondo il suo avvocato, dalle sue passate relazioni con la famiglia reale. Nello stesso periodo il nome di Hicham Mandari compariva in una vicenda di traffico di dinari del Bahrein su scala internazionale. E’ stato anche coinvolto in vicende di truffe e di ricatti, la più famosa delle quali è stata quella nei confronti del banchiere marocchino Othman Benjelloum. Quest’ultimo gli aveva teso una trappola, consentendo alla polizia francese di arrestarlo in flagranza di reato, mentre riceveva una grossa somma di denaro. Una delle numerose vicende che hanno coinvolto Mandari, delle quali non si conoscerà (forse) mai l’ultima parola della storia.
Il bug del sito elections2002.ma
I FATTI. Il 27 settembre 2002. Erano le prime elezioni dell’era di Mohammed VI. E il re le voleva libere e trasparenti. Il Ministero dell’interno, affidato allora a Driss Jettou, fa le cose in grande: una rete intranet che collega più di 300 terminali al server del ministero doveva consentire la raccolta dei risultati in tempo reale e consegnare i risultati in 24 ore. Ma durante la notte elettorale un misterioso bug informatico compromette l’operazione.
LA VERSIONE UFFICIALE. Il ministero dell’interno non fornisce subito spiegazioni. Si barcamena tra la scusa di un black out dovuto alla saturazione del server del ministero e quella della cattiva preparazione del personale incaricato di raccogliere i dati con questo nuovo dispositivo e che hanno alla fine preferito procedere manualmente.
LE ZONE D’OMBRA. Tutto si svolgeva con grande regolarità durante le prime ore di quella notte del 27 settembre. Nella sede del Ministero dell’interno, i principali leader politici sfilavano per raccogliere le ultime notizie e rispondere alle domande della stampa. Più tardi nella serata, le prime indiscrezioni sui risultati parlano di una tendenza che va manifestandosi: il Partito della Giustizia e dello Sviluppo (PJD) è in grande vantaggio. Si stava per assistere allo tsunami islamista tanto temuto? Il quesito assillava tutti gli osservatori politici. E curiosamente, è proprio a quest’ira tarda della notte che il sito elections2022.ma rende l’anima. Gli apparati di sicurezza del paese sarebbero stati presi dal panico fino al punto di abbandonare il percorso di trasparenza totale ed influire parzialmente sui risultati? Se si trattava di un semplice guasto tecnico, poteva essere riparato? Alcuni parlano addirittura di una visita degli alti responsabili della sicurezza dell’epoca al back-office del Ministero dell’interno, dove erano centralizzati i risultati. Qualsiasi cosa sia stata, dopo due giorni di conteggio manuale, si è avuto il verdetto: l’USFP è in testa con 50 seggi, tallonato dal Partito dell’Istiqlal con 48 seggi, ma il PJD triplica i suoi risultati del 1997, aggiudicandosi 42 poltrone di deputati. Il partito islamista conferma da allora il suo ruolo di forza politica con la quale fare i conti.
L’incendio dell’edificio della DST
I FATTI. Il 29 ottobre 1999, alle prime ore, un incendio scoppia in una dependance dell’ex sede della Direzione di controllo del territorio (DST) nella Route des Zaers, uno dei quartieri più sorvegliati della capitale. Il locale andato in fumo custodiva gli archivi del servizio informativo. E’ stata aperta un’inchiesta per chiarire le circostanze dell’incendio, ma i risultati non sono mai stati resi pubblici. E neppure lo Stato ha mai comunicato quali danni vi siano stati e quanti archivi siano andati perduti. Dall’inchiesta è filtrato solo che l’incendio era di origine dolosa e che la sostanza utilizzata per appiccarlo era “altamente infiammabile”.
LE ZONE D’OMBRA. Resta intero il mistero perché l’inchiesta si è chiusa senza alcuna incriminazione. E tuttavia il contesto nel quale si è sviluppato questo incendio doloso ha dato fiato ai sospetti nei confronti delle persone che potevano trarre vantaggio dal crimine. Mohammed VI aveva affidato la direzione della DST al generale Hamidou Laanigri, mentre fino a quel momento era stata diretta da Driss Basri, il potentissimo ministro dell’interno dell’era di Hassan II. Basri era stato allontanato dal posto che aveva occupato per decenni una decina di giorni solo prima dei fatti. Avrebbe dunque ordinato questo incendio, sentendo che il vento girava? Si sarebbe affidato per questa operazione ad elementi fidati della DST per eliminare i dossier più compromettenti sul periodo nel quale aveva diretto il servizio informativo? Non è impossibile. D'altronde per qualche settimana ad una decina di agenti e di membri del servizio sarebbe stato vietato di lasciare il territorio nazionale. Sulla natura dei dossier andati perduti, vi sono molte versioni: affari che hanno coinvolto il Palazzo, dossier riguardanti gli uomini forti del regime… Ci si è messo anche il Polisario, accennando a dossier relativi alle somme di denaro sborsate da Rabat per corrompere i notabili saharawi e i membri della RASD che si sono allineati col Marocco.
Le dimissioni di El Himma da ministro dell’interno
I FATTI. Martedì 7 agosto 2007. L’informazione cade come una mannaia: Fouad Ali El Himma, ministro delegato (ma vero capo) del ministero dell’interno, dà le dimissioni. La decisione coglie di sorpresa tutto il mondo politico. Compagno di classe di Mohammed VI e capo del suo gabinetto, El Himma è stato nominato ministro dell’interno nel 1999. In seguito è diventato uomo forte della “madre di tutti i ministeri” e interlocutore imprescindibile della classe politica. “Dimissioni volute o forzate? Perché?” si chiedeva all’epoca la classe politica.
LA VERSIONE UFFICIALE. E’ l’agenzia ufficiale MAP che pone fine alle speculazioni sulle dimissioni di El Himma: “Il re ha concesso la sua alta benedizione alla richiesta del sig. Fouad Ali El Himma di ritirarsi dal suo incarico di ministro delegato agli interni ed ha ben voluto accogliere il suo desiderio di candidarsi alle prossime elezioni legislative”. In seguito El Himma moltiplica le sue sortite mediatiche per rassicurare il mondo politico, che non vedeva di buon occhio questa intrusione. “La mia candidatura non è iscritta in alcuna agenda politica”, ripeteva.
LE ZONE D’OMBRA. All’inizio si diceva fosse caduto in disgrazia. Ma presto ci si è resi conto che El Himma non ha perso niente della sua influenza. Per la sua prima seduta parlamentare, all’apertura dell’anno legislativo, il deputato di Rhamna lascia l’emiciclo a bordo del cabriolet reale guidato da… Mohammed VI in persona. Prima ancora di costituire il suo partito, riesce a costituire un gruppo parlamentare e assume la presidenza di una commissione parlamentare strategica. Poi viene la creazione del Partito autenticità e modernità (PAM), che diventa rapidamente la prima forza politica del regno: urne piene alle comunali del 2009, con sei presidenze di regione (su 16) e il seggio della Camera dei consiglieri. Creare una forza politica capace di vincere le elezioni era il progetto di El Himma quando si è dimesso? Il progetto era approvato dallo stesso Mohammed VI. Qualsiasi cosa sia, il piano (se ve n’era uno), con la primavera araba, è in parte fallito. Il PAM è diventato il bersaglio delle manifestazioni del Movimento del 20 febbraio, che chiedono la testa di El Himma. Ma l’ingegnere capo delle prime scadenze elettorali di Mohammed VI (2002 e 2003) ha molte risorse. Diversi osservatori vedono la sua mano dietro le grandi manovre preelettorali alla vigilia delle legislative.
Il ritiro del progetto di Legge finanziaria 2012
I FATTI. Qualche minuto dopo il suo deposito in Parlamento, il progetto di legge Finanziaria è stato ritirato d’urgenza dal Segretario generale del governo nella notte del 21 settembre 2011. Conseguenza: il rapporto del tesoriere del regno davanti agli eletti della nazione, previsto per l’indomani, è rinviato sine die. I parlamentari vengono avvisati a tarda notte, via sms, di questo pasticcio.
LA VERSIONE UFFICIALE. Di questo genere di vicende è il portavoce del governo che deve occuparsene. Khalid Naciri dichiara allora che la “decisione (di ritirare la legge finanziaria) si deve al gran numero di impegni delle due Camere che lavorano a tempo piano sulla legge elettorale”. Per l’opposizione questo argomento non spiega niente.
ZONE D’OMBRA. Il Governo si sarebbe accorto improvvisamente che l’agenda del parlamento era pienissima? Cosa che gli era completamente sfuggita durante i lavori del Consiglio dei ministri che ha varato la legge finanziaria? E inoltre, nell’emiciclo, la commissione legislativa che lavora sulla legge elettorale non è totalmente diversa dalla commissione finanze che lavora sul progetto di bilancio? Difficile dunque dare credito alla versione del governo, secondo cui non si sarebbe voluto intasare i lavori parlamentari. Una tesi più verosimile emergerà all’atto del deposito della versione “rimaneggiata” del progetto di legge finanziaria. Tra la prima stesura e la seconda, sono scomparse completamente alcune disposizioni. L’attesissimo fondo di solidarietà sociale, presentato all’avvio come la più grande novità del bilancio 2012, è stato completamente soppresso. Questo meccanismo di redistribuzione delle ricchezze avrebbe dovuto essere finanziato per 2 miliardi di dirham da un contributo delle banche, delle assicurazioni, degli organismi di credito e degli operatori telefonici. La lobby delle banche e delle assicurazioni e degli operatori telefonici l’avrebbe avuta vinta? Abbas El Fassi stesso lo ha ammesso davanti ai componenti del comitato esecutivo del suo partito. “Non ero al corrente del ritiro del testo della Legge finanziaria presentato al Parlamento”, ha confidato il capo dell’Istiqlal, che ha fatto riferimento ad una forte lobby che si sarebbe fatta sentire in alto loco. Che cosa è successo veramente? Non lo si saprà forse mai.
L’esistenza di una prigione segreta a Temara
I FATTI. Dal 2001, diverse associazioni marocchine ed internazionali di difesa dei diritti dell’uomo denunciano l’esistenza, nella sede della DST di Temara, di una prigione segreta. Diversi detenuti salafisti affermano di esservi stati torturati per settimane fuori da ogni controllo giudiziario. Secondo i rapporti di organizzazioni internazionali, questo centro di detenzione avrebbe anche accolto degli ospiti stranieri, perseguiti per terrorismo internazionale.
LA VERSIONE UFFICIALE. Diventato uno dei bersagli preferiti dei manifestanti del Movimento del 20 febbraio che avevano anche tentato di andarvi, il centro di Temara ha eccezionalmente aperto le sue porte, mercoledì 18 maggio 2011, a dei magistrati, dei parlamentari e ai dirigenti del Consiglio nazionale dei diritti dell’uomo (CNDH). Risultato: tutti hanno dichiarato di non aver trovato tracce di alcuna prigione segreta. “L’edificio di Temara ospita solo la sede amministrativa della DGST”, hanno concluso.
LE ZONE D’OMBRA. Dopo la loro visita a Temara, il presidente e il segretario generale del CNDH (entrambi ex militanti per i diritti dell’uomo) hanno tenuto a sfumare, sottolineando che, nel corso della visita, non hanno rilevato alcun indizio “che lasci supporre che questo luogo è utilizzato per detenzioni illegali”. La precisazione è importante. Il comunicato redatto da Driss El Yazami e Mohamed Sebbar potrebbe lasciar credere che una simile prigione è esistita effettivamente nel passato. “E’ possibile, ma vi sfido e sottopormi un solo caso di detenzione segreta a Temara dopo la creazione del CNDH”, ci aveva dichiarato il Segretario generale del CNDH. Il Marocco sembra così aver voltato pagina senza prendersi la briga di leggerla e senza avere individuato le responsabilità di ciascuno nelle atrocità che potrebbero essere state commesse nel centro di Temara. Tuttavia di questo centro si parla spesso nei dossier giudiziari negli Stati Uniti o in Gran Bretagna, dove ex detenuti di Guantanamo affermano di essere stati torturati in Marocco.
Il putsch di Mezouar alla testa del RNI
I FATTI. Il 23 gennaio 2010 il ministro dell’economia viene eletto capo della RNI (uno dei partiti politici marocchini, ndt) all’esito di un vero e proprio plebiscito. Il presidente uscente, Mustapha Mansouri, viene sfiduciato da una maggioranza schiacciante dei componenti del partito dei blu. Questo voto a doppio taglio è l’epilogo di uno scontro che ha contrapposto Mezouar e Mansouri fin dall’ottobre 2009. Il primo è a capo di un gruppo di riformatori mentre il secondo conta sulle dita di una mano i cacicchi del partito che ancora lo sostengono.
LA VERSIONE UFFICIALE. Salaheddine Mezouar ha spiegato la sua fronda con l’intento di ammodernare il RNI, accusando il presidente di cattiva gestione e di aver sclerotizzato il partito perché troppo dirigista. Mezouar ha affermato di voler far soffiare il vento del rinnovamento facendo della “politica in modo diverso”, uno slogan coniato dagli specialisti della com. che ha incaricato di modernizzare l’immagine del partito. Vuole aprire ai giovani, alle donne e alle élite, con l’obiettivo di raggiungere i 200.000 iscritti.
LE ZONE D’OMBRA. C’è Fouad Ali El Himma dietro l’ascesa di Mazouar alla testa del RNI? La domanda è sorta immediatamente dopo l’incoronazione del ministro dell’economia. Perché Mezouar, appena eletto, ha subito evocato una possibile alleanza con il PAM, mentre il suo predecessore criticava questo partito, affermando che “riporta il Marocco indietro, agli anni di piombo”. Mezouar si è d’altronde appoggiato, per ottenere l’elezione, ad un gruppo di riformatori che hanno un piede nel partito blu e un altro nel Movimento di tutti i democratici (MTD), la matrice del PAM. L’alleanza del G8, quella ha riunito recentemente il RNI e il PAM in un fronte anti PJD, ha confermato le inquietudini degli osservatori della cosa pubblica. La bipolarizzazione del campo politico, sostenuta da Mezouar, nasconderebbe un altro disegno. Considerato come futuro primo ministro alle prossime legislative, Mezouar sarebbe il cavallo di Troia del partito di El Himma?
La morte di Moul Sebbat
I FATTI. Abdelhak Bentassir, alias “Moul Sebbat”, morto dopo il suo arresto l’indomani del 16 maggio 2003. Questo fabbricante di scarpe (da qui il suo soprannome) è stato presentato come la testa pensante degli attentati terroristici di Casablanca. Moul Sebbat sarebbe stato l’emiro della cellula kamikaze che è passata all’azione e avrebbe egli stesso scelto gli obiettivi.
LA VERSIONE UFFICIALE. Moul Sebbat sarebbe morto, durante il trasferimento all’ospedale, in seguito ad un attacco cardiaco, ma anche per problemi al fegato, sopravvenuti mentre era sotto sorveglianza poliziesca. La Procura di Casablanca, incaricata dell’inchiesta, afferma che un’autopsia svolta da quattro medici legali ha concluso per un decesso causato da un attacco cardiaco di Moul Sebbat, il 26 maggio, vale a dire solo un giorno dopo il suo arresto.
LE ZONE D’OMBRA. Prima di tutto Abdelhak Bentassir è stato arrestato il 21 e non il 25 maggio. Sarebbe stato interrogato a casa sua da un piccolo esercito di poliziotti in borghese. E poi, a credere alla sua famiglia, la vittima, padre di due figli, era uno sportivo e non aveva alcun problema di salute e non prendeva alcuna medicina. Sempre secondo i suoi i suoi familiari, che hanno avuto l’autorizzazione a identificare il suo corpo alla morgue di Casablanca, la salma di Abdelhak Bentassir era irriconoscibile per tutti i segni di tortura che presentava. Tuttavia le richieste avanzate da alcune ONG per ottenere un’altra autopsia ed una nuova inchiesta giudiziaria sono restate lettera morta. Infine, nel corso del processo contro i kamikaze di riserva, non sono stati prodotti i verbali di interrogatorio di Moul Sebbat. Il contenuto dei libri e dei documenti sequestrati a casa sua non è mai stato rivelato. Il segreto di Moul Sebbat (se vi è) è stato sepolto con lui.
Lo schianto al suolo del C130 militare
I FATTI. Un aereo militare marocchino si schianta al suolo vicino a Guelmin nella mattinata del 26 luglio 2011. Il C130 effettuava un volo di routine tra Dakhla e Kenitra, con scalo a Laayoune, Guelmin e Agadir. Vi erano a bordo 81 persone, civili e militari. Nessuno è sopravvissuto. Tre giorni di lutto nazionale sono stati proclamati dopo quella che resta una delle catastrofi aeree più tragiche nella storia del paese.
LA VERSIONE UFFICIALE. La scatola nera dell’apparecchio è stata recuperata dagli inquirenti. Questi hanno anche proceduto all’audizione dei responsabili della torre di controllo dell’aeroporto di Guelmin, ma niente è filtrato sui dettagli dell’incidente. Ufficialmente il dramma è stata attribuito alle cattive condizioni metereologiche della regione.
LE ZONE D’OMBRA. Visto che si tratta di una inchiesta militare, non ci sono molte probabilità che le FAR (Forze armate marocchine) comunichino un giorno i risultati dell’inchiesta. Questa avrebbe tuttavia consentito di chiarire i molti enigmi di questa catastrofe aerea. La prima riguarda la natura stessa dell’apparecchio. Il C130 ha infatti la reputazione di essere quasi indistruttibile. Capace di atterrare dovunque (anche sui terreni più accidentati), è dotato di radar assai sofisticati che gli consentono di atterrare e decollare in ogni condizione. Si trattava inoltre effettivamente di un volo molto di routine, come quelli che diverse volte alla settimana fanno i piloti dell’aeronautica marocchina. Essi conoscono quindi molto bene la regione e sono abituati alla spessa nebbia che ogni mattina avviluppa questa parte della costa atlantica. Che cosa non ha funzionato questa volta? Come spiegare la caduta del C130, a solo qualche chilometro dall’aeroporto di Guelmin? E’ vero che la flotta aerea non è sottoposta ad una adeguata manutenzione? Non si saprà mai niente. Salvo che, qualche settimana dopo l’incidente, alcuni alti gradi dell’aereonautica militare sarebbero stati posti in pensione. Si tratta di qualcosa legata ai primi risultati dell’inchiesta?
I morti di Al Hoceima
I FATTI. Il 20 febbraio 2011 era la prima manifestazione organizzata dal Movimento del 20 febbraio. Nel corso dei vari cortei, composti da diverse migliaia di persone in molte grandi città del regno, si segnalano degli atti di vandalismo. Ma a Al Hoceima la cosa è ancora più grave. Nella prima serata si parla della scoperta di un cadavere carbonizzato in una agenzia bancaria incendiata. Il giorno dopo il numero dei cadaveri diventa cinque: dei giovani dai 17 ai 25 anni che non hanno niente in comune. Per prima cosa non si conoscevano, erano incensurati e provenivano da quartieri diversi.
LA VERSIONE UFFICIALE. La Procura della Corte di Appello di Al Hoceima parla di un incendio provocato da vandali nel momento in cui i cinque giovani si erano introdotti nei locali dell’agenzia bancaria con l’intenzione di saccheggiarla. Due perizie disposte dalla procura confermano questa versione e attestano che le cinque salme non recavano tracce di violenza o di tortura.
LE ZONE D’OMBRA. Le famiglie e alcuni aderenti al movimento del 20 febbraio di Al Hoceima esprimono dubbi sulle reali circostanze del decesso dei cinque giovani. Alcuni affermano di averli visti nella strada inseguiti dalla polizia o nel commissariato di polizia a inizio serata. Vale a dire ben dopo lo scoppio del primo incendio verso le 19. Le famiglie delle vittime sostengono anche che esse sarebbero morte sotto tortura e quindi trasportate nell’agenzia bancaria, dove sarebbe stato appiccato un incendio per cancellare tutte le tracce… A rendere le cose più oscure, il procuratore ha respinto sempre la richiesta delle famiglie di visionare le riprese delle camere di sorveglianza dell’agenzia e quelle di tre altre agenzie che si trovano nella stessa avenue Mohammed V. D’altronde, tre giorni dopo il dramma, l’agenzia è stata completamente ristrutturata, impedendo qualsiasi altra perizia. E dieci mesi dopo i fatti, l’inchiesta è lettera morta.
Il processo dei “satanisti”
I FATTI. 16 febbraio 2005, una grottesca caccia alle streghe prende il via a Casablanca. Quattordici musicisti, dai 22 ai 35 anni, sono accusati dalle autorità di satanismo. Le prove a carico, raccolte nel corso di diverse perquisizioni domiciliari, sono di una incredibile inconsistenza: delle T-shirt nere, una raccolta di poesie, delle ceneriere a forma di cranio… Insomma l’unico torto di questi musicisti è di suonare dell’hard rock e del metal.
LA VERSIONE UFFICIALE. “Offesa alla religione mussulmana”, “Corruzione dei costumi, incitamento alla depravazione e atti offensivi per la religione mussulmana”, sono i capi di imputazione contestati. Alla pira innalzata dal tribunale di Casablanca il 6 marzo 2005, i 14 musicisti sono condannati a pene varianti da 1 mese a 1 anno di prigione ferma. Ciononostante, una immensa mobilitazione messa su da un collettivo di sostegno ha ottenuto la liberazione dei 14 musicisti, solo qualche giorno dopo il verdetto.
LE ZONE D’OMBRA. Ancora oggi nessuno sa esattamente cosa abbia provocato la montatura di un simile caso giudiziario né chi ha dato l’ordine di mettere nel sacco degli innocenti. Le teorie si susseguono: per qualcuno si è trattato di uno sventurato eccesso di zelo da parte di poliziotti che hanno approfittato della lontananza del re per fare quello che volevano. Per altri è stato invece un’occasione costruita per dare mostra di clemenza da parte di Mohammed VI, che ha ripreso le cose in mano al suo ritorno. Altri ancora parlano di una principessa che avrebbe abitato di fronte al caffè dove i metallari avevano l’abitudine di riunirsi e che se ne sarebbe lamentata… Quello che è certo è che la vicenda dei 14, come la si chiama oggi, ha sofferto enormemente della malafede e della ignoranza delle autorità. “Aash dakom l’shi hard rogen?”, avrebbe chiesto un poliziotto agli accusati durante un interrogatorio. Al processo, tra le domande rivolte ai musicisti dal giudice, occorre ricordare quella che oggi fa ridere: “Perché non ascoltate Fatma Bent Lhoucine?”
L’assassinio della guardia del corpo del re
I FATTI. Abdellah Salim Saidi, guardia del corpo di Mohammed VI, viene aggredito a casa sua, in pieno centro di Rabat, a pochi passi dalla prefettura di polizia della capitale. Nella notte tra l’8 e il 9 luglio 2011, i vicini sentono dei colpi d’arma da fuoco, ma nessuno poteva immaginare che la vittima fosse un man in black del re. Ricoverato in ospedale, Saidi muore il 12 luglio all’età di 47 anni.
LA VERSIONE UFFICIALE. La DGSN si premura di diffondere un comunicato che dovrebbe ricostruire la vicenda: due scassinatori si sarebbero introdotti nell’abitazione del commissario Saidi. Quando quest’ultimo li sorprende, una fucilata ferisce sia la guardia del corpo che uno degli assalitori. Quest’ultimo viene arrestato e viene presentato come un individuo dai molti precedenti penali. Il secondo, in fuga, è attivamente ricercato.
LE ZONE D’OMBRA. Le conclusioni dell’inchiesta non sono mai state rese pubbliche. Tuttavia molte domande restano senza risposta. Esempio: i colpi che hanno ferito mortalmente il commissario Saidi e il suo assalitore provenivano dalla stessa arma? Non si sa niente della vera identità degli aggressori, salvo che quello arrestato è di Rabat ed ha come soprannome Bidaoui. E poi cosa è successo di Bidaoui? E’ sopravvissuto alle ferite? In quale prigione è stato mandato a marcire? Il secondo aggressore è ancora latitante o è stato arrestato? La polizia rifiuta di rilasciare dichiarazioni e, quattro mesi dopo i fatti, non è cominciato alcun processo. Nelle vie di Rabat, per contro, corrono numerose versione dei fatti. La più diffusa (e la più soft) sostiene che i tre uomini si conoscevano bene e che sarebbe stata questione di una notte tra amici poi degenerata… Abdellah Saidi era d’altronde una figura pubblica della capitale, cosa inconsueta per le guardie del corpo di Mohammed VI.
Il blocco delle licenze televisive
I FATTI. Lunedì 23 aprile 2009 la Alta Autorità per la comunicazione audiovisiva (HACA) prendeva tutti alla sprovvista annunciando che non sarebbe stata concessa alcuna licenza televisiva. Tra i bocciati vi erano prestigiosi candidati: Mounir Majidi, Othman Benjelloun, Fouad Ali El Himma, Aziz Akhannourch… La liberalizzazione del paesaggio audiovisivo marocchino, tanto promessa dallo Stato, non ha avuto luogo.
LA VERSIONE UFFICIALE. Il CSA (Consiglio superiore dell’audiovisivo, organo dell’HACA) ha diffuso un laconico comunicato nel quale afferma: “Tenuto conto dei fattori congiunturali e settoriali intervenuti dopo settembre 2008, soprattutto il restringimento del mercato pubblicitario, oltre alla crisi attraversata da Medi 1 Sat e il rischio per il settore nel suo complesso che possano essere compromessi l’equilibrio e il dinamismo degli operatori pubblici e privati già esistenti”, il consiglio dei saggi ha deciso di mettere in stand-by il rilascio di ogni licenza televisiva, attendendo che le cose si facciano più chiare.
LE ZONE D’OMBRA. E’ un segreto di Pulcinella. All’epoca della corsa alle licenze, erano disponibili solo due frequenze. Adesso una di esse doveva essere occupata da Medi 1 Sat, poi diventata Medi 1 TV. Presagendo questo, i saggi della HACA si sono trovati di fronte ad un dilemma: chi scegliere tra i due amici del re in lizza, Fouad Ali El Himma o Mounir Majidi? La questione della contrazione del mercato pubblicitario non era stato tenuto presente dai business-plan dei candidati? A chi deve attribuirsi la decisione di sfiduciare tutti i candidati? A Mohammed VI in persona, come sostengono alcuni? Questo blocco del processo di liberalizzazione non sarà motivato dalla esclusiva volontà politica di mantenere il paesaggio audio-televisivo chiuso e impedire lo sviluppo di imprese concorrenti? Perché in definitiva, dall’inizio del regno di Mohammed VI una sola emittente (Medi 1 TV) è riuscita ad ottenere la preziosa licenza, E poi vi sono stati investitori pubblici che sono venuti ad occupare posti nel consiglio di amministrazione dell’emittente tangerina. Risultato, lo Stato conserva il suo monopolio e il suo controllo nel settore mediatico, nonostante i numerosi discorsi di Mohammed VI che hanno lasciato intendere (e sperare) una prossima liberalizzazione dell’etere.
I miliardi di Mawazine
I FATTI. 11 gennaio 2011. In lite giudiziaria con i suoi ex datori di lavoro del gruppo degli Emirati Taqa, casa madre della centrale elettrica di Jorf Lasfar (Jlec), l’ex direttore generale del gruppo, Peter Barker, invia attraverso i suoi legali una lettera all’autorità del mercato USA (la SEC). Vi denuncia le pratiche equivoche del gruppo degli Emirati dal punto di vista della Borsa di New York. Afferma, tra l’altro, di aver ricevuto l’ordine dal suo capo di versare “5 milioni di dollari all’anno ad Hassan Bouhemou (Presidente – direttore generale della holding reale SNI), per finanziare un festival di musica (…) in modo che Taqa possa ottenere l’autorizzazione all’ampliamento della centrale elettrica di Jorf Lasfar”.
LA VERSIONE UFFICIALE. Le accuse di Peter Barker non sono state né smentite né confermate dal patron del gruppo TAQA in Marocco, è stato il manager del business reale, Hassan Bouhemou che ha calzato l’elmetto per denunciare queste “acuse”. Ha poi diffuso un comunicato stampa nel quale annuncia di aver deciso di portare il caso dinanzi alla Giustizia perché “sia stabilita la verità sulle basi di questa operazione diffamatoria”.
ZONE D’OMBRA. Filiale del gruppo Taqa, Jlec non è un’impresa ordinaria. Titolare dal 2007 di una concessione di sfruttamento delle centrali termiche di Jorf Lasfar, ha soddisfatto circa la metà del fabbisogno del Marocco in materia di elettricità. Ed ha un solo cliente: l’ONE, che è obbligato per contratto di acquistarne tutta la produzione per una durata di 30 anni a prezzo regolamentato! Non è tutto. Due anni dopo il suo ingresso in Marocco, la società ottiene, nel corso di una cerimonia presieduta dallo stesso Mohammed VI nel suo palazzo di Fes, l’autorizzazione a costruire due nuove centrali termiche per raddoppiare la sua produzione. Ed è dopo questa concessione che l’impresa è diventata il maggiore sponsor del festival Mawazine, presieduto dal 2007 dal segretario particolare del re, Mounir Majidi e patron di Hassan Bouhemou. Coincidenza di tempi? E perché dunque un’impresa che ha un solo cliente (lo Stato) dovrebbe sponsorizzare un festival a colpi di milioni di dirham? Detentrice di un contratto molto conveniente nel regno dello sceriffato, Jlec ha forse voluto ricambiare il favore finanziando il festival reale? La risposta verrà forse dal Michigan, dove il processo di Peter Barker contro Taqa è ancora in corso. In attesa ci accontenteremo di questa spiegazione del portavoce di Mawazine: “Jlec è una società privata che fa quel che vuole dei suoi soldi”. Sì, certamente.
La vicenda del TGV
I FATTI. Settembre 2011. Il presidente francese Nicolas Sarkozy va a Tangeri per inaugurare ufficialmente, con Mohammed VI, i lavori della prima linea di treno a grande velocità che collegherà Tangeri a Casablanca. Un vero gioiello di tecnologia che ridurrà di due ore la durata del viaggio tra i due poli economici del regno. Costo del progetto: 20 miliardi di dirham, di cui una metà sarà coperto da finanziamenti e doni francesi, e l’altra metà dal bilancio dello Stato e da finanziamenti dei paesi del Golfo.
LA VERSIONE UFFICIALE. Secondo i nostri governanti, questo progetto faraonico è stato pensato per dotare il paese di una nuova infrastruttura ferroviaria e per accelerare lo sviluppo del “Marocco regionale”, riducendo i tempi di percorrenza. Scelta strategica per lo sviluppo del Marocco, il progetto TGV dovrà essere prolungato più a sud, verso Marrakech, poi Agadir entro il 2035. Sarà avviata anche un’altra linea, detta “maghrebina”, per collegare la capitale dell’oriente, Oujda a Casablanca, via Fes.
LE ZONE D’OMBRA. E’ stato nell’ottobre del 2007 che si è sentito, per la prima volta, parlare del TGV marocchino, a margine della prima visita in Marocco di Nicolas Sarkozy. Nel corso del tempo, le relazioni franco-marocchine si erano molto tese. Appena eletto, Sarkozy apprende che Rabat aveva rinunciato all’acquisto di 20 aerei da caccia Rafale, preferendo un’offerta USA più competitiva: 24 aerei da caccia F16 per 500 milioni di euro in meno. “A partire da questo momento, sono stati tagliati i fili: gli interlocutori marocchini dei francesi non rispondono nemmeno più al telefono”, racconta la giornalista francese Jean Guisnel nel suo libro “Armi di corruzione di massa”. Nel luglio dello stesso anno, Mohammed VI pretende che la visita di Sarkozy in Marocco venga rinviata, dopo avere appreso che il nuovo presidente francese sarebbe prima passato da Algeri, prima di atterrare a Rabat. Rien ne va plus fino a che, tre mesi più tardi, Sarkozy arriva finalmente nel regno, per ristabilire le vecchie relazioni amicali. Nella sua valigia si porterà in Francia il contratto TGV, che ha tutta l’aria di un regalo reale offerto al nuovo rappresentante di commercio francese a titolo di consolazione per il mancato contratto dei Rafale. D’altronde il contratto del TGV è passato senza bandi di gara e senza parere del Parlamento. Ma in seguito le relazioni tra Marocco e Francia sono tornate come prima.
La mega-fusione ONA-SNI
I FATTI. Il 26 marzo 2010 un big-bang scuote la piazza casablanchese. La holding reale annuncia una mega-operazione scandita i tre fasi: ritiro dalla Borsa di Casablanca dei titoli ONA e SNI, fusione di queste due gigantesche holding e rivendita di un pacchetto di filiali. Prima della fine dell’anno, le due prime fasi sono terminate: le due holding sono oramai una sola, si chiama SNI.
LA VERSIONE UFFICIALE. In un dossier distribuito alla stampa, i manager degli affari reali hanno tentato nei limiti del possibile di dare un senso a questo sconvolgimento capitalista, il più importante che il Marocco abbia mai conosciuto. Si parla di “nuova vocazione del gruppo”, di “volontà di conformarsi agli standard internazionali”. Un rospo difficile da inghiottire, visto il costo stratosferico dell’operazione.
LE ZONE D’OMBRA. E’ costato troppo caro per credere che sia stato fatto solo per conformarsi agli standard internazionali. Majidi e Bouhemou sono dei veri professionisti della finanza e hanno dato sempre prova di ingegnosità per insinuarsi nelle brecce dei regolamenti e ottimizzare gli investimenti del loro padrone, nel caso di specie la famiglia reale. Tutto nello svolgimento dell’operazione lascia credere che l’operazione sia stata lungamente meditata e che il vero obiettivo fosse quello di allontanare gli affari reali dai radar del mercato finanziario, con tutti i suoi vincoli di trasparenza. Essa è intervenuta quando la Legge finanziaria stabiliva dei regali fiscali alle operazioni di fusione, le banche hanno aperto i rubinetti del credito senza discutere, per finanziare l’acquisto delle azioni, i partner stranieri del gruppo reale hanno messo mano alla tasca e gli investitori istituzionali marocchini hanno evitato di vendere i loro titoli per non rendere più cara l’operazione che alla fine è costata 10 miliardi di dirham. Successivamente il gruppo, anche se non ha ancora realizzato delle nuove acquisizioni e nemmeno realizzato le cessioni promesse, va avanti nell’ombra. Non fosse altro se si tenga conto che, solo per pubblicare sommariamente i suoi conti, l’autorità del mercato deve regolarmente rivolgergli dei solleciti.
La rottura con l’Iran
I FATTI. Venerdì 6 marzo 2009 un comunicato del ministero degli affari esteri annuncia il richiamo dell’incaricato di affari marocchini in Iran. Qualche tempo più tardi anche l’ambasciatore iraniano a Rabat viene richiamato in patria. Tra Rabat e Teheran cessano le relazioni.
LA VERSIONE UFFICIALE. Secondo un comunicato del ministero degli affari esteri, la decisione di richiamare il rappresentante diplomatico nel paese di Khomeini è intervenuta dopo una dichiarazione di Teheran, che considerava lo stato del Bahrein come la quattordicesima provincia iraniana. Questa dichiarazione è stata contestata dal Marocco al più alto livello: il re ha inviato un messaggio di sostegno al regno del Bahrein. Ma il divorzio con l’Iran si giustifica anche con la caccia allo sciismo. Teheran è accusata di sostenere un attivismo diretto ad alterare i fondamenti religiosi del regno, di attaccare i fondamenti dell’identità ancestrale del popolo marocchino e di tentare di minacciare l’unicità del culto mussulmano e il rito malekita sunnita in Marocco.
LE ZONE D’OMBRA. Diversi cablogrammi diplomatici rivelati da Wikileaks rivelano il coinvolgimento dell’Arabia Saudita, l’altra monarchia del Golfo, in questa rottura, e collocano il conflitto nell’ambito della contesa per l’egemonia nella regione. In una corrispondenza tra un diplomatico USA al Cairo e il suo collega di Rabat, il primo ha spiegato che “i Sauditi hanno personalmente sensibilizzato il re Mohammed VI, e non il governo marocchino che è rimasto sorpreso come tutti gli altri di questa rottura delle relazioni diplomatiche”. Il cablo di Wikileaks evoca anche l’inquietudine del Marocco “per l’eventuale acquisizione da parte di Teheran di armi atomiche”. Prendendo la decisione di rompere con Teheran, ha colto due piccioni con una fava: rendersi servile verso gli Stati Uniti, assai ostili al regime di Ahmadinejad, e mantenere le sue eccellenti relazioni con l’Arabia Saudita. Per quale contropartita? Non si sa.
L’inchiesta a carico di Khalid Oudghiri
I FATTI. Il 1 agosto 2008 Abdelkrim Boufettas, membro del ricchissimo clan soussi, presenta una denuncia per una vicenda di corruzione che coinvolge Khalid Oudghiri, l’ex patron di Attijariwafa bank (filiale della holding reale), “dimissionato” nel 2007. Secondo l’accusa avrebbe ricevuto , con l’intermediazione di un notaio, una tangente di 35 milioni di dirham in una transazione immobiliare. Viene emesso nei confronti di Oudghiri un mandato di ricerca internazionale. Esiliatosi tra la Francia e il Canada, non si è mai presentato al processo.
LA VERSIONE UFFICIALE. Boufettas non riesce a rimborsare il suo mutuo bancario di 175 milioni di dirham. Nel 2004 la banca avvia la procedura di recupero e mette all’asta un terreno di 53 ettari gravato da ipoteca. Ma, all’ultimo momento, viene negoziato un nuovo protocollo di rientro. E’ allora che Oudghiri e il notaio suo complice avrebbero ottenuto una commissione di 20 milioni di dirham, recidivando l’anno successivo (15 milioni di dirham in più), per costringere l’uomo d’affari a vendere il suo terreno. Per questi atti, l’ex banchiere numero 1 del regno è stato condannato in contumacia a 10 anni di prigione per complicità in corruzione.
LE ZONE D’OMBRA. Diverse domande si pongono quando si comincia ad analizzare questa vicenda dalle innumerevoli ramificazioni. Prima domanda: perché Boufettas ha atteso 4 anni prima di denunciare i fatti? La spiegazione che ha fornito, che non aveva cioè le “prove materiali” non convince perché queste prove consistono oggi in semplici testimonianze. Altra domanda: perché alcuni testimoni-chiave (i più importanti dirigenti della banca e alcuni membri della famiglia Boufettas) non sono stati sentiti? Numerosi osservatori considerano questa vicenda come un regolamento di conti. E’ un segreto di Pulcinella: Oudghiri non andava molto d’accordo coi suoi datori di lavoro, i gestori degli affari reali. Non è che alla fine egli è solo colpevole di un “cattivo carattere e di eccesso di fiducia”? Egli comunque non ha mai rilasciato dichiarazioni su questa vicenda, né alla Giustizia né ai media. Un giorno forse.
La crisi dell’isolotto Leila
I FATTI. Il 10 luglio 2002, sei membri della forze ausiliarie marocchine sbarcano sull’isolotto Leila, situato a 200 metri dalla costa marocchina. La reazione spagnola è immediata. Il vicino iberico la considera come una “invasione del territorio spagnolo” e mobilita una vera e propria armata. In tutto, sei navi da guerra e 24 membri della forze speciali vengono mobilitati per fare prigionieri i sei militari marocchini che vengono riconsegnati in condizioni umilianti alle autorità marocchine.
LA VERSIONE UFFICIALE. Sbarcando sull’isolotto a sovranità contestata, i sei membri delle forze ausiliarie dovevano stabilire, secondo le autorità marocchine, un posto di controllo contro il traffico di droga e l’immigrazione clandestina.
LE ZONE D’OMBRA. Inviando i suoi militari, il Marocco sapeva che la reazione della Spagna sarebbe stata vigorosa. I due vicini si sono infatti messi d’accordo, agli inizi degli anni 1990, di mantenere lo status quo di questo piccolo scoglio, su cui non doveva essere collocato alcun “simbolo rappresentativo di una appartenenza nazionale”. Cosa ha quindi spinto il Marocco a rompere questo accordo in modo improvviso e unilaterale? Per evitare l’escalation militare, comunque, il ministro degli affari esteri spagnolo dell’epoca, Ana Palacio, afferma di aver chiesto di parlare col re Mohammed VI. Invano. Il Marocco non ha preso sul serio questo ultimatum lanciato da Madrid? Per il seguito, è stata una mediazione USA, condotta dal segretario di Stato alla Difesa, Colin Powel in persona, che ha consentito di ritornare allo status quo su questo “stupido pezzo di roccia”, per riprendere l’espressione usata dall’ex dirigente USA.