La dittatura in Marocco
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Demain, 11 febbraio 2012 (trad. Ossin)
La dittatura in Marocco: silenzio, si censura, si imprigiona, si tortura e si uccide!
Daniel Salvatore Schiffer (*)
Un magazine che pubblica un dossier speciale sul mondo arabo ha ogni probabilità di essere censurato in Marocco. E con l’auto-censura degli intellettuali occidentali che, secondo il filosofo Daniel Salvatore Schiffer, non criticano il regno marocchino se non a fior di labbra, la situazione non cambierà mai
L’Occidente nel suo insieme, chiunque siano i suoi leader politici, le sue opinioni pubbliche o i suoi poteri mediatici, ha sostenuto con ragione, nonostante l’inquietante pericolo islamista, le recenti, ma già storiche, rivoluzioni che hanno abbattuto, con quella che viene chiamata “primavera araba”, alcuni dei dittatori più feroci (Ben Ali in Tunisia, Mubarak in Egitto, Gheddafi in Libia) del mondo arabo-mussulmano.
Così ci si potrà anche dolere, in tali condizioni, che lo stesso occidente non si mobiliti per detronizzare il più sanguinario, forse, di questi tiranni: Bachar El-Assad, padrone incontestato, anche se contestabilissimo, di quella Siria dove, soprattutto in questi giorni, vengono commessi impunemente e quotidianamente i peggiori massacri tra la popolazione civile. La città martire di Homs ne è, ahinoi, il più terrificante degli esempi.
L’Occidente e le sue indignazioni selettive
Vi sono tuttavia delle dittature, in questo stesso mondo arabo-mussulmano, che, benché altrettanto spietate, e qualche volta addirittura più brutali ancora (e la cosa non è da poco), sono curiosamente risparmiate da questo stesso occidente e in particolare dalla Francia, le cui élite intellettuali sono peraltro pronte, dopo Voltaire con l’affaire Calas e Zola con l’affaire Dreyfus, ad indignarsi, molto giustamente, di fronte all’ignominia, quando non si tratti, più drammaticamente ancora, di pura e semplice barbarie.
E’ qui che le coscienze critiche più oneste e lucide, ma anche le più libere dell’Esagono, parlano assai opportunamente, ma questa volta in senso peggiorativo, di “indignazione selettiva”, o ancora di “impegno a geometria variabile”. Di cui si dà atto.
Ebbene, tra quei paesi incomprensibilmente tenuti esenti da ogni seria e grave critica, relativamente al suo modo assai discutibile di concepire la democrazia, spicca, ben al di sopra di questo poco raccomandabile mucchio di dittature politico-militari, il Marocco.
Sì, il paese di quel falso riformatore che è il re Mohammed VI, monarca potentissimo, cui si riserva tra l’altro un culto della personalità così forte da fare impallidire di invidia il più narcisista dei despoti, di una nazione dove è vietata qualsiasi vera contestazione del potere, nonostante qualche ritoccata legislativa di facciata, col pericolo di finire, per lunghi e crudeli anni, in qualche oscura prigione del regno.
Silenzio, si censura
Di questo sistema ancora più dittatoriale di quello dell’ex Tunisia di ben Ali, per non parlare che del Maghreb, lo stesso “Nouvel Observateur” ha potuto, solo qualche giorno fa, fare amara e dolorosa esperienza: la distribuzione del suo ultimo numero 2465 è stata semplicemente vietata. Spiegazione assai maldestra del ministro marocchino della Comunicazione, Mustapha Khelfi: il magazine recava, in una delle pagine interne, l’effige di Dio, vietata dalla religione mussulmana.
Un semplice e volgare pretesto, evidentemente, abbinato, in questa funesta circostanza, alla più infame menzogna di Stato (nella misura in cui il Marocco non conosce la laicità): questa presunta immagine di Dio era in realtà solo un inoffensivo disegno, estratto dal film “Persepolis” della regista iraniana Marjane Satrapi, destinato a illustrare un’inchiesta sulla situazione attuale delle donne in Tunisia e dunque, indirettamente, come di riflesso tenuto conto della vicinanza religiosa e della somiglianza ideologica di queste due culture, nello stesso Marocco.
Questo tipo di ipocrisia, particolarmente riprovevole in nome dell’inalienabile libertà di pensiero e di espressione, non è peraltro una novità in questo paese in questo inizio di anno 2012. Nel mese di gennaio, già lo stesso “Nouvel Observateur”, che pubblicava un importante dossier sulle società arabe contemporanee, era stato già censurato… ma questa volta a metà, cosa ancora più inaccettabile, un alibi proporzionalmente più perfido, tanto sul piano morale che intellettuale, che era nel caso di specie anche sbagliato. L’inenarrabile ministro marocchino della comunicazione, le cui lacune culturali si rivelano all’occorrenza catastrofiche, aveva scambiato il viso del filosofo Averroè, proprio quello grazie al quale conosciamo
Aristotele, per l’immagine del profeta Maometto!
Da qui la fondatissima, ma purtroppo troppo poco ripresa dai media francesi ed europei, dichiarazione di Laurent Joffrin, direttore appunto del “Nouvel Observateur”, nella quale giudicava “inammissibile e inquietante essere vietato in Marocco per la seconda volta in un mese”.
Di più: questo settimanale non è stato il solo, in queste ultime settimane, ad essere censurato in modo arbitrario in questo paese; “L’Express”, a causa di un disegno vagamente iconoclasta sull’islam, e il magazine cattolico “Pèlerin”, anch’esso a causa di una rappresentazione di Maometto, sono stati vittime, nello stesso modo autoritario, della stessa sbrigativa e assai oscurantista legge!
Negazione dei diritti dell’uomo e complicità politico-economiche dell’Occidente
Ma la cosa peggiore, in questa storia tragica, nella quale i più elementari diritti dell’uomo – e soprattutto della donna, in questa regione del mondo – sono ogni giorno derisi senza che nessuno dica una parola, è che tutto questo non provoca alcuna commozione, a vedere questo prodigioso ma vigliacco silenzio che la circonda, nei nostri leader politici, e ancor meno tra i responsabili dell’economia.
Al contrario: è stato in perfetta armonia, e nella più cordiale intesa, che l’Amministratore delegato della Renault, Carlos Ghosn, e il re del Marocco, Mohammed VI, hanno inaugurato in pompa magna, non più tardi di giovedì 9 febbraio 2012, una nuova fabbrica, quella che produrrà la “low cost” Dacia Lodgy , a Tangeri (e ciò, per insaporire questa vicenda costernante, a costo, sia detto en passant, di una delocalizzazione che penalizza i nostri operai, che pure sono attaccati, colmo del paradosso, alla democrazia)!
Da qui, più che mai legittima, la domanda: abbiamo effettivamente a che fare, per ciò che concerne questa apparente eccezione politica (se non culturale) che costituisce dunque l’attuale dittatura marocchina, posta a confronto col sostegno dell’occidente alle primavere arabe, a ciò che più su denunciavo con la formula molto critica di “indignazione selettiva”? La risposta è evidentemente affermativa, ahinoi per il nostro senso di giustizia, di fronte a questa indegna complicità!
Gli impegni a geometria variabile di BHL e la fortuna di Mohammed VI
Di questo impegno a geometria variabile, matrice ideologica dell’assai parziale e partigiano “due pesi e due misure”, è il nostro intellettuale più mediatizzato, Bernard Henri Levy in persona, che se ne rivela, ancora una volta, il campione assoluto.
Perché ci sarebbe piaciuto, al contrario, che BHL avesse denunciato, con lo stesso vigore di quello che usa nella lotta contro Ben Ali e Mubarak (non parliamo di Gheddafi, contro il quale ha fatto in modo di mandare nientemeno che l’esercito della NATO), anche la dittatura del suo amico Mohammed VI, sovrano quasi deificato di un Marocco nel quale lo stesso Levy possiede delle sontuose dimore: una villa a Tangeri (ma lontanissima, rassicuriamoci, dal sito industriale dove sta per istallarsi Renault), con una vista impareggiabile sul mar Mediterraneo, arredata a colpi di milioni di dollari dall’architetto di interni Andrée Putman, e un palazzo a Marrakech, battezzato la “Zahia” (che il suo editore Jean Paul Enthoven descrive in lungo e in largo in un romanzo intitolato “Quello che abbiamo avuto di meglio”), degno dei racconti delle mille e una notte.
Quanto a Mohammed VI, incoronato il 30 luglio 1999, è vero che è a suo padre, il terribile e poco frequentabile Hassan II, le cui galere erano piene di oppositori politici ed altri prigionieri di opinione che i suoi aguzzini torturavano spesso fino alla morte, che egli oggi deve, soprattutto per merito della holding ONA (gruppo finanziario che investe nei settori più vari di attività, dalle miniere all’agroalimentare, alla grande distribuzione, alle banche, assicurazioni, immobiliari…) la sua immensa e indecente fortuna che equivale, da sola, al 6% del PIL marocchino, ciò che fa della famiglia reale marocchina il primo operatore economico del paese.
D’altronde il magazine USA “Forbes” lo ha classificato nel 2009, e lo mantiene da allora, al settimo posto tra i monarchi più ricchi del pianeta. E tutto questo mentre una gran parte del suo popolo, privato anche delle libertà più fondamentali, è piegato sotto il peso della miseria oltre che sotto il giogo della tirannia, sotto il flagello della corruzione oltre che sotto il fardello della disperazione. Con, all’estremo di questo conto sordido nel quale le ricchezze della nazione sono confiscate da un partito unico e dal dominio di un pugno di notabili, una repressione implacabile, qualche volta sanguinosa, anche se accuratamente nascosta, da sbirri zelanti e da agenti segreti del re, alle nostre telecamere indiscrete o ai chiassosi microfoni delle radio.
Ma di tutto ciò, di questo scandalo senza nome e occultato da decenni, Bernard Henri Levy, lui stesso appeso senza pudore né vergogna ai suoi numerosi privilegi, non ha evidentemente mai fatto parola nei diversi appelli che continuamente ha indirizzato, nei mesi scorsi, alla Resistenza contro i vecchi regimi tunisino, egiziano e libico. Al contrario: silenzioso ma assai pragmatico complice degli attuali dignitari marocchini, abituati a ricevere anche lui nel fasto dorato dei loro stupefacenti palazzi, si guarda bene, preoccupato di gestire la sua fortuna e di salvaguardare i suoi privilegi, anche in queste regioni troppo spesso sfavorite socialmente, di farvi la minima allusione.
E a giusta ragione: ho infatti paura per lui che, se le rivoluzioni tunisina, egiziana o libica dovessero espandersi a macchia d’olio, come c’è da augurarsi, in altri paesi arabo-mussulmani, tra cui il Marocco, Bernard Henri Levy sarebbe anche lui spazzato via, come tutti questi vergognosi potentati, dalla incontrollabile forza della rabbia popolare. Cosa che ovviamente io non gli auguro, non più che al mio peggiore nemico.
(*) filosofo