Il Makhzen predatore o l’economia politica del caos
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Demain online, 11 ottobre 2012 (trad. Ossin)
Il Makhzen predatore o l’economia politica del caos
Karim R’bati
Nel giro di sei mesi, la holding reale, in posizione di quasi monopolio, ha prodotto utili sfacciati per un ammontare di quasi 250 milioni di euro. A lungo ci hanno imbonito con questa storia di una eccellenza nazionale che agirebbe come una locomotiva per tutti gli altri settori vitali del tessuto economico di un paese di 32 milioni di abitanti e sempre senza petrolio. Ma la realtà sul terreno è completamente diversa.
Né locomotiva, né stimolo di alcun tipo: l’economia marocchina è esangue, non cessa di sprofondare nella crisi, una bilancia commerciale sempre in deficit, una costante dipendenza dalle condizioni atmosferiche, nessuna industria a forte valore aggiunto, una accresciuta subordinazione ai decisori della industria del subappalto, una pessima gestione, uno scandaloso sperpero delle risorse, una iniqua distribuzione della ricchezza, un tasso di disoccupazione tra i più elevati, un fallimento generalizzato in tutti i settori dello sviluppo umano (sanità, scuola, servizi pubblici, ecc), una pessima collocazione nella classifica mondiale in materia di rispetto dei diritti umani, di libertà di stampa, di stato della giustizia, di lotta contro la corruzione ecc.
Insomma tutti gli indici sono in rosso, salvo quello dell’accattonaggio statale o quello della riapertura periodica di nuove linee di credito. Aggiungete a questo le forze di repressione, una giustizia agli ordini per i recalcitranti e media di propaganda che spiegano al popolo quello che dece pensare o, almeno, quello che gli è vietato esprimere. In una simile paesaggio, non c’è bisogno di chiamarsi Joseph Stiglitz per stabilire il rapporto di causa a effetto, un bambino di tre anni può capire tutto sull’economia marocchina in qualche secondo: sarà sufficiente mostrargli due bicchieri di latte pieni per metà, di chiudergli gli occhi e di mostrargli poi gli stessi bicchieri, uno dei quali riempito fino all’orlo e l’altro completamente vuoto. Il ragazzino capirebbe subito che una mano invisibile deve avere vuotato uno per riempire l’altro. In linguaggio adulto, giacché non ci troviamo in un regime elettivo di alternanza in cui una maggioranza appena eletta sarebbe tentata di gettare la colpa della crisi sulla maggioranza uscente, bisogna ben risolversi a chiamare gatto un gatto. La relazione di causa a effetto, come avrebbe capito anche il nostro ragazzino di tre anni, è evidente come il bilancio catastrofico delle scelte arbitrarie di un regime, non soggetto ad alcun controllo democratico. Non ci sono oramai che i cinici o i complici, gli ingenui e i bigotti, a credere ancora alle virtù dell’autocrazia makhzeniana.
I mali dei marocchini hanno dunque una sola origine: chiamatela come volete, con tutto l’alone delle precauzioni retoriche necessarie, niente potrà cambiare in qualche modo la fonte del male, che risiede essenzialmente in un regime politico di tipo dittatoriale, economicamente ultraliberale, aperto o venduto all’ideologia del libero-scambio, ma autocratico, repressivo e liberticida sul piano interno. In fondo è a questo che serve la teoria dell’eccellenza economica: è che la stabilità di un regime dispotico, preoccupato della sua perennità così come è, non si misura unicamente su quella delle sue istituzioni politiche asservite, né al grado di sofisticazione dell’illusione democratica. Esso si misura sulla potenza corruttrice del denaro, sul potere delle reti di interesse politico-economico e, in definitiva, sull’integrazione di queste reti nel circuito mondiale della finanza e degli affari. Lì gli economisti e i politologi potranno ben aggiungere una nuova categoria alle loro tipologie dei sistemi politici: quella che noi chiamiamo, in mancanza di meglio, “l’economia politica del caos”.